zione culturale. Nella felice Repubblica della Banana, si è trattato di un autentico colpo di mano, che in Piero Dorfles ha avuto un mili-tante severo e sereno, un quieto intrattenitore del nostro spirito, lontano le mille miglia dallo sgallettamento che pare debba essere il
pro-filo obbligato dell'homo televisivus. Un
"dino-sauro", insomma, proprio come il titolo ricor-da, usando la metafora di chi si trova a difen-dere le ragioni della ragione senza altre armi che il piacere della intelligenza e la voglia di riflettere e capire. In questo suo lungo rac-conto, dove si mescolano amarezza e
stupo-re, ribellione e pietas, curiosità e rigore
d'ana-lisi e forte senso civico, si disegna poco alia volta il ritratto di un paese che ha perduto la propria identità, smarrendola nel turbine cieco del cedimento facile alle tentazioni del quoti-diano senza storia, puntillistico, inane. Dorfles si serve di ogni strumento della comunicazio-ne culturale, i libri, la televisiocomunicazio-ne, i fumetti, il ci-nema, la stessa scuola, per metterci davanti agli occhi il percorso di un degrado che nomi
Antonio Calabro, CUORE DI CACTUS, pp. 144,
€ 15, Sellerio, Palermo 2010
Forse è vero che, migranti un giorno, si resta migranti sempre. Calabro ha nel suo presente di oggi la storia d'un forte successo professionale, una carriera giornalistica fatta di riconoscimenti pubblici e di prestigiosi incarichi editoriali. Ma questo a Milano, o comunque al Nord, mentre egli è siciliano, e poi siciliano di Palermo (e chi conosce la Sicilia sa quanto forte e drammatico sia il valore di questa distinzione). Ha lasciato quella sua Palermo, gaglioffa e dolce, molti anni fa, giovane cronista dell"'Ora" che partiva per un'avventura dove la meta non era nemmeno un lavoro migliore, o una migliore condizione di vi-ta, ma, dentro, nell'intimo coltivato dai silenzi di cui soltanto lui era l'interprete, era un progetto di ricerca, il bisogno di una verifica, l'idea dell'al-tro" da sé da strappare via dai giorni dell'abitu-dine. Ora il tempo è passato, quella ricerca, quel bisogno si sono acquietati nella realizza-zione di una consapevolezza matura, che con-serva sempre, però, la memoria di un viaggio mai concluso e che mai si concluderà. E allora, ecco che il risalire il corso della memoria, il ritro-vare le voci, i suoni, le emozioni del tempo che è passato, lo strusciare di nuovo dentro una Pa-lermo perduta, ma ora ritrovata, si distendono in una narrazione dove la consapevolezza diventa la storia di un tempo collettivo, il diario d'una vi-cenda che intreccia la storia del paese e gli in-dividui e i fatti che quella storia hanno segnato. È un diario pubblico, appunto, e un migrante io rivela raccontando insieme con la propria bio-grafia la dolcezza spinosa d'una società segna-ta da troppe, amare, contraddizioni.
m e
disegni di Franco
colpevoli e innocenti hanno guidato, subito, vissuto, denunciato, costruito, Gelmini, Parisi, Collodi, Altan, Laterza, Grillo, Giannini, Manzi, Bernabei... E alla fine appare chiaro come Dorfles rivendichi la propria condizione dino-saurica per rovesciarne il senso, per tentare la costruzione di un progetto dove la cultura, la storia, lo spessore del sapere non sono relitti del passato, ma forme di un futuro possibile che passa attraverso un'integrazione della qualità della conoscenza con le nuove tecno-logie elettroniche.
m e
Gian Micalessin, PAKISTAN, IL SANTUARIO DI
AL-QAIDA. GLI 007 DI ISLAMABAD FRA TRAFFICI NU-CLEARI E TERRORE ISLAMICO, pp. 190, €14,
Boro-li, Milano 2010
Corrispondente di guerra tra i più noti, in-viato del "Giornale", fotoreporter e scrittore, Micalessin traccia qui un racconto che sfrutta con efficacia la lunga esperienza che si è guadagnato sul campo durante i suoi infiniti viaggi in Pakistan e Afghanistan. Scritto come un lungo, affascinante, repor-tage di guerra, traversato da storie e da in-dividui spesso misteriosi, calato dentro un magma dove si confrontano traffici d'armi, montagne di droga, agenti di servizi legati a filo doppio con manovre destabilizzanti che hanno alla radice motori geograficamente assai lontani, il libro trova il filo di un'avven-tura della realtà nell'immediatezza della scrittura giornalistica e nella qualità fulmi-nante dei ritratti che disegna lungo le rotte d'una guerra senza fine. Jihad islamico e carovane di oppio, terrorismo sen-za patria e ambizioni nucleari, aya-tollah e madrasse di esiliati, e Co-rea del Nord, Iran, Libia sono gli elementi vitali della storia che Mi-calessin ricostruisce per mettere a nudo il ruolo fondamentale giocato dalla centrale pakistana di spio-naggio, il famigerato Isi, padre ge-netico del movimento dei Taliban. E a rafforzare questo sorta di
pro-getto di una spy story dove la
fic-tion cede sempre il posto alla realtà, la prefazione è affidata un chiacchierato protagonista degli Matticchio intrecci perversi che lo
spionag-gio internazionale ama intrattene-re con la politica, quel generale Pollari as-solto in primo grado da un tribunale al qua-le il pm Spataro aveva invece chiesto una condanna a dodici anni di galera.
m e
Piero Dorfles, IL RITORNO DEL DINOSAURO. UNA DIFESA DELLA CULTURA, pp. 210, € 18,60,
Garzan-ti, Milano 2010
Per uri pugno di libri è una delle pochissime
trasmissioni che la tv pubblica (qui Raitre) ab-bia saputo dedicare alla lettura e alla
divulga-Eric Salerno, MOSSAD BASE ITALIA. LE AZIONI, GLI INTRIGHI, LE VERITÀ NASCOSTE, pp. 258, € 19,
Il Saggiatore, Milano 2010
Pochi giornalisti sanno, quanto Salerno, di Medio Oriente e, soprattutto, di Israele, dove egli ha vissuto lunghi anni come corrisponden-te del "Messaggero". Questo volume muove da quella esperienza, certo, ma se ne distacca quasi subito, utilizzandola solo per quanto può essere utile alla ricostruzione di una storia che nessuno, prima, aveva raccontato con tanta passione di ricerca e tanta capacità di inter-pretazione di documenti finora mai utilizzati. Il Mossad è ovviamente un mito delle cronache politiche, anche quando - come recentemente - pasticcia le sue operazioni e lascia tracce ta-li del lavoro dei suoi agenti che nemmeno il più dilettantesco degli allievi di Fleming avrebbe saputo far peggio. E invece diversa è la storia di Mike Harari, abilissimo, sfuggente, capace di mille invenzioni mimetiche, inviato in Italia a "lavorare" sotto copertura quando aveva meno di vent'anni ma diventato, poi, il capo della se-zione italiana del Mossad. Che non era affatto una sede di poco conto, per la collocazione geografica del nostro paese nel Mediterraneo e per gli intensi traffici d'armi e di strategie po-litico-militari che Israele seguiva a Roma con ogni attenzione: davvero la terra promessa del-lo spionaggio israeliano, come scopre questo interessante lavoro di giornalismo d'inchiesta. Utilizzando la memoria di Harari, e la sua voglia di raccontare fatti, episodi, personaggi, che gli archivi hanno conservato nel silenzio del tem-po, Salerno ricostruisce le mille lotte e le mille complicità che hanno legato il Mossad alle in-quietanti vicende dei servizi segreti italiani.
m e
Dexter Filkins, GUERRA PER SEMPRE, ed. orig. 2008,
trad. dall'inglese di Pierluigi Micalizzi, pp. 374, €25, Bruno Mondadori, Milano 2009
Chris Ayres, CORRISPONDENZA DI GUERRA PER CODARDI, ed. orig. 2005, trad. dall'inglese di
Simo-ne Garzella, pp. 336, €21, Capelli, Mendrisio 2010
Ecco due tra in più bei libri di war reporting
che si siano potuti leggere negli ultimi trent'anni. Se si volesse fare un bel po' di re-torica, si potrebbero recuperare dalla memo-ria certe pagine di Hemingway per "Col-lier's", quando la forza impressiva della nar-razione ti lascia a cuore scoperto e senti, dentro, il flusso rapido dell'adrenalina che ti stringe vene e arterie e cervello. Sono, an-che, due libri che andrebbero letti di seguito, uno dopo l'altro, scegliendo a piacimento l'ordine da seguire, se prima il racconto asciutto, tagliente, anche pudicamente com-mosso, di Filkins, la storia delle sue storie tra Falluja e Baghdad con i tizzoni di fosforo che ti penetrano fin nella ossa, oppure se lasciar-si prendere dal racconto della paura che ti chiude l'anima quando ti sparano addosso mentre cerchi di fare il reporter che racconta la battaglia, paura che Ayres centellina nella memoria con una dose giuliva e sventata di autoironia che distrugge perfino il più solido dei miti su cui il reportage di guerra ha co-struito la propria epopea. Filkins è un repor-ter del "New York Times" che il racconto del-la guerra l'ha scelto per mestiere, e ci sta dentro come chi sente che il dovere è una re-sponsabilità cui non puoi sottrarti; puoi solo rigirartela tra le mani per sentirne ogni piega e ogni durezza, ma devi accettarla per quel-la che è, anche quando è atroce, o insensa-ta. Ayres, invece, aveva scelto di fare il gior-nalista per conoscere divi e star, e si trova in-vece sbattuto a raccontare la guerra in Iraq, e le Torri che crollano, come se Hollywood si fosse spostata in Mesopotamia, ma i morti sono morti veri e ia sua paura gli fa scioglie-re lo stomaco nell'impazzamento delle gra-nate che gli raschiano la pelle e il cuore.
N. 6 | D E I LIBRI D E L M E S E | 34 • «à
o
• K> COco
e
o
CJGeorge Eliot, IL VELO SOLLEVATO, ed. orig.
1850, trad. dall'inglese di Enrica Villari, pp. 173, € 13, Marsilio, Venezia 2010
Diceva Aldous Huxley che se le porte della nostra percezione si spalancassero, la realtà ci apparirebbe d'improvviso co-me una massa infinita e incontenibile di immagini e sensazioni. Per questo moti-vo, secondo Huxley il nostro cervello la-scerebbe a malapena trapelare uno spi-raglio di quella abbagliante congerie di emozioni e visioni, salvaguardando la no-stra fragile lucidità. Cosa succederebbe infatti se, per uno strano evento, ci venis-sero accordati i poteri della chiaroveg-genza e dell'onniscienza? Alia prova dei fatti, queste doti si potrebbero rivelare come una condanna più che un vero e proprio dono della sorte. Uno scherzo che un destino maligno ha giocato a
Lati-mer, protagonista di The Lifted Veil,
rac-conto scritto nel 1850 dalla romanziera inglese Mary Ann Evans, nota con lo pseudonimo di George Eliot, che ora ap-pare con la nuova traduzione di Enrica Villari. Segnato sin dall'infanzia da una natura sensibile e "poco incline al prati-co", Latimer vive dolorosamente la scom-parsa della madre e la predilezione del padre per il fratello maggiore. Al contra-rio del fratello, Latimer è un giovane ma-linconico, portato all'introspezione e alla ricerca del sublime, l'agghiacciante e mi-naccioso volto della bellezza descritto da Edmund Burke nel 1759. Avido lettore delle liriche di Novalis e di Goethe e del-le Confessioni di Rousseau, Latimer ama
ripercorrere le orme del filosofo al punto che, giunto a Ginevra per completare gli studi, passa le giornate vagando per i sentieri alpini o lasciandosi trasportare dalla corrente del lago mentre se ne sta seduto in barca. È in questo frangente che, durante una grave e misteriosa ma-lattia, l'ambiguo dono di Latimer si mani-festa per la prima volta. Da quel momen-to, il sottile velo che impedisce ai mortali di scrutare il futuro e leggere i pensieri al-trui si solleva per sempre: la sua mente sarà attraversata da premonizioni e visio-ni che gli riveleranno l'intima essenza del-le persone che lo circondano. Ci aspette-remmo che, con tali poteri, Latimer con-duca una vita radiosa e felice, ma il triste resoconto che egli ci consegna dimostra il contrario. Neppure durante il sinistro esperimento di "rianimazione" compiuto con l'amico Charles Maunier, quando al suo sguardo poetico si intreccia l'occhio clinico dello scienziato, Latimer riesce a sollevare l'ultimo velo che, secondo George Eliot, è destinato a celare sempre "l'aperto segreto della natura".
S T E F A N O M O R E T T I
Alexandre Dumas, I FRATELLI CORSI e I DUE
STUDENTI DI BOLOGNA, ed. orig. 1844 e 1849,
trad. dal francese di Alessia Piovanello, pp. 149, € 19,50, Donzelli, Roma 2009
Il volume riunisce un romanzo breve, /
fratelli corsi, e un racconto, I due stu-denti di Bologna, che hanno in comune
la presenza nell'intreccio di misteriose e fatali apparizioni d'oltretomba. Dei due testi, il più suggestivo e originale è
cer-tamente I fratelli corsi, in cui Dumas,
buon lettore di Hoffmann, costruisce la narrazione sul tema del doppio, metten-do in scena una coppia di gemelli, iden-tici nell'aspetto quanto diversi nelle scel-te di vita. Sullo sfondo di una Corsica selvaggia e pittoresca, mai visitata da Dumas ma a lui ben nota dai racconti di storici e viaggiatori, facciamo in un pri-mo tempo conoscenza con Lucien de Franchi, fedele alle tradizioni locali e al-la religione dell'onore cara ai suoi ante-nati; nella seconda parte del romanzo incontriamo invece il suo gemello Louis, che studia legge a Parigi, con il sogno di contribuire un giorno a modernizzare e a civilizzare l'isola natia. L'esistenza pari-gina di Louis dà modo a Dumas di intdurre nel racconto alcuni topoi del ro-manzo mondano dell'epoca, come il bal-lo dell'Opéra, dove le gentildonne in cer-ca di avventure si aggirano celate da maschere e mantelli, e i duelli all'alba, tra gli alberi secolari del Bois de Vincen-nes. Un destino tragico, sotto il segno del meraviglioso, accomuna nel finale i due fratelli, che gli opposti ideali sem-bravano dover separare e contrapporre per sempre. La traduzione è accettabile, anche se gli improbabili "allori rosa" di p. 5 sono semplicemente degli oleandri. Quanto alla "loggia infernale" di p. 69 non è qualche diavoleria massonica, ma il palco di proscenio dell'Opéra da cui Dumas e Balzac, con i loro amici della bohème letteraria, si divertivano a lan-ciare in faccia al pubblico borghese la sfida della loro elegante impertinenza.
MARIOLINA BERTINI
Boniface de Castellane, L'ARTE DI ESSERE PO-VERO, ed. orig. 1925, a cura di Massimiliano
Mocchia di Coggiola, trad. dal francese di An-na Benucci Serva, pp. 290, € 18,50, Excelsior 1881, Milano 2009
Nessuna figura è in fondo più triste del
dandy, nel suo sforzo continuo di
pro-durre segni dì differenza, di unicità, quando al gesto dell'abbigliamento non corrisponda, wildianamente o dannun-zianamente, una visione estetica e un
progetto di vita complessivi. Tale risulta Boni de Castellane (1867-1932), pos-sessore di sbalorditive fortune e poi, in rovina, costretto a lavorare, riciclandosi nell'antiquariato, vendendo per
com-penso la sua capacità di connoisseur,
acquisita in anni di acquisti forsennati e di selezionatissime frequentazioni di tut-ti gli arbitri del gusto. Di lui giunge ora in
libreria il proverbiale L'arte di essere
po-vero, libro di memorie, uscito nel 1925 e
ora proposto al pubblico italiano da Ex-celsior 1881, che prosegue una ormai nutrita collana di volumi dedicati alla
Belle époque, vista nei suoi aspetti di
maggiore frivolezza, li personaggio, co-me è noto, viveva di eccessi. Sposato a una donna poco avvenente, Anna Gould, erede di un patrimonio a stelle e strisce che giunse come molti altri a rim-pinguare le casse di qualche blasonato d'oltralpe senza
so-stanze, egli si separò poi da lei, che sposò in secondo nozze il cugino, in uno scan-dalo che dette per anni da parlare al
tout Paris. Queste
pagine sono in effetti un vortice di monda-nità, talmente fitta di nomi e occasioni da risultare in alcune occasioni quasi astratte, quando or-mai buona parte dei
nomi citati sono scomparsi da molto
tempo dalla memoria e trasformati in
fla-tus vocis. Se altri celeberrimi viveurs
scialacquatori seppero raccontare con garbo il loro castello di carte (e in primo luogo Paul Poiret, da poco proposto
dal-la stessa casa editrice con Vestendo la
Bella Epoque, che creò un impero con i
suoi abiti orientali e finì poi in miseria, a declamare le favole di La Fontaine in un cabaret delia Riviera), qui il risultato è meno brillante. Buona parte di queste pagine sono dedicate alla continua bat-taglia con l'ex coniuge. Peraltro emerge chiaramente un profilo di ultraconserva-tore, ossessionato dalia fedeltà al potere vaticano e devoto visitatore di Lourdes, portatore di una continua visione elitaria, nel corso di tutta la sua discussa attività politica. Il profilo riassunto da Proust nel-la fìecherche sotto il nome Robert de
Saint-Loup, nelle sue stesse parole per-de per-decisamente fascino, con punte per-
de-cisamente querule di self-indulgence.
L'elemento di interesse sta casomai nel racconto della vendita dei proprio blaso-ne, di antica prosapia provenzale, ai tempi nuovi, decisamente sotto il segno
dell'America e della pubblicità, a cui l'autore dedica note acute e spesso di-vertenti.
L U C A SCARLINI
Sandra Covino, GIACOMO E MONALDO
LEO-PARDI FALSARI TRECENTESCHI. CONTRAFFA-ZIONE DELL'ANTICO, CULTURA E STORIA LIN-GUISTICA NELL'OTTOCENTO ITALIANO,
pp. 716, 2 voli, € 73, Olschki, Firenze 2010
Il gioco esplicito ma anche occulto con le fonti e la tradizione, il rapporto con i classici, il valore dell"'imitazione" for-mano il nucleo originario dell'arte leopar-diana: arte profonda, ma sempre legata alla letteratura, capace di vertiginose in-novazioni proprio lavorando su modelli eruditi, sui suggerimenti dei testi altrui. Da questo punto di vista appare molto stimolante la ricerca di Sandra Covino sui "falsi" leopardiani: esercizi mimetici o di
pastiche che
Giaco-mo ha praticato rallelamente al pa-dre, in una vera e propria "gara di con-traffazioni trecentisti-che". Si tratta di uno pseudo-volgarizza-mento trecentesco, il
Martirio de' Santi Pa-dri pubblicato nel 1826, al quale il conte
Monaldo risponde prima con un analogo
Memoriale di frate Giovanni da Camerino
nel 1828 e con una più voluminosa rac-colta di falsi trecenteschi nel 1833. L'in-teresse dei testi, pubblicati nel secondo volume di questo saggio, non risiede so-lo nella so-loro stratigrafia linguistica (l'autri-ce analizza a fondo quello di Giacomo in quanto "strumento di ricerca stilistica" e "arcaismo consapevole"). E i falsi della famiglia Leopardi non sono solo una te-stimonianza della rivalità fra padre e fi-glio, quella (per intenderci) che
contrap-poneva alle Operette morali i
cattolicissi-mi Dialoghetti di Monaldo, il Martirio e il Memoriale appartengono infatti alla
fami-glia dei falsi prodotti in Europa fra Sette e Ottocento: legati a motivi e dottrine svariate, dalla parodia alla nostalgia, dal-le rivendicazioni private a queldal-le politi-che, ma tutti ispirati a un'idea di lettera-tura come citazione, rifacimento, paro-dia. È in questa prospettiva più larga che lo studio di Covino offre ulteriori strumen-ti, per tracciare una tipologia, se non una teoria, del fenomeno.
R I N A L D O RINALDI
• i-à
o
CQ
Vittorio Caratozzolo, PROCESSO A DON
GIO-VANNI ACCUSATO DI OMICIDIO E TENTATO STUPRO NELL'OMONIMA OPERA DI L. DA
PON-TE E W. A. MOZART, pp. 113, € 9, Guida,
Na-poli 2009
Nell'ambito di una collana di "falsi d'autore" (testi fittiziamente attribuiti ad autori come Aristotele,
Saffo, Wittgenstein, Ki-pling) e sulla base del "processo morale" impli-cito nelle varie trascri-zioni del mito di Don Giovanni, il docente e critico Vittorio Caratoz-zolo si diverte ad attri-buire a tali "Francesco Saraiva Borrelli" e "Anto-nino Di Pietro" - il richia-mo/storpiatura è traspa-rente - una ricostruzione
in versione processuale del testo di Da Ponte. Per l'impresa ha studiato proce-dura penale, decostruendo il libretto e inserendovi i ruoli giudiziari necessari: ma le arringhe finali di pubblico ministe-ro e difensore ripercorministe-rono (ovviamente
da ottiche diverse) il bandolo della storia letteraria e musicale del personaggio. Prima, però, che la sentenza venga pro-nunziata, il procedimento viene bloccato dall'arrivo di una circolare urgente del ministro della Giustizia: il parlamento ha approvato con legge la prescrizione dei reati commessi "in opere liriche, teatrali e letterarie, qualora rife-ribili a persone apparte-nenti all'aristocrazia". Di fronte allo stallo della giustizia umana, a puni-re il libertino dovrà esse-re ancora una volta il Commendatore... Al di là degli aspetti burleschi e di attualità, il garbato