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Storie di incontri e apporti reciproci: Raffaello

Gabriele Barucca

Nell’autunno del 1508 Raffaello (Urbino, 1483 – Roma, 1520) è a Roma.

Favorito forse dall’autorevole presentazione di Donato Bramante (Fermi-gnano, 1444 – Roma, 1514), l’architetto che dal 1506 aveva avviato la struzione della nuova basilica di San Pietro e che a lui era legato dalla co-mune provenienza marchigiana oltre che da vincoli di parentela, Raffaello fu chiamato alla corte pontificia per lavorare alla decorazione del nuovo appartamento papale, commissionata da Giulio II della Rovere. In real-tà Raffaello non aveva bisogno di particolari raccomandazioni. Preceduto dalla fama dei successi ottenuti nel corso del suo soggiorno fiorentino tra il 1504 e il 1508, tutti a Roma sapevano che quel giovane maestro urbinate era dotato di straordinaria bravura. Iniziava così, con le Stanze, con le Log-ge, con gli affreschi della Farnesina, con gli arazzi per Leone X raffiguranti le Storie di san Pietro e di san Paolo, la più radicale trasformazione storica della lingua figurativa occidentale, un’improvvisa rivoluzione dell’immagi-nario “destinata ad affascinare il mondo e ad arrivare fino al nostro tempo.

Possiamo dire che attraverso Annibale Carracci e Guido Reni, attraverso Poussin e David, attraverso Ingres e Canova, lo spirito di Raffaello è arri-vato fino a Picasso” (Antonio Paolucci 2015).

Come giunse Raffaello ad elaborare un linguaggio formale che con il suo equilibrio e la sua limpidezza rappresenta una delle vette più alte del-la cultura figurativa occidentale? Per tentare di dare una risposta a questo interrogativo che tanto ha appassionato la moderna storiografia dell’arte bisogna necessariamente richiamare gli anni della formazione del giovane artista urbinate, quel “percorso di Raffaello giovine” (dal titolo di un cele-bre saggio di Roberto Longhi del 1955), che credo rappresenti la testimo-nianza più rilevante ed esemplare della circolazione della cultura figurativa tra Marche, Umbria e Toscana, che qui interessa.

È noto che il problema dei primordi di Raffaello e dell’identificazione dei suoi maestri costituisce da sempre un terreno di acceso dibattito criti-co. Non è possibile fare in questa sede un bilancio degli apporti scientifici su questa questione ancora sostanzialmente aperta. Comunque, senza vo-ler dar conto delle innumerevoli sfumature, gli atteggiamenti critici hanno dapprima visto prevalere l’idea di una formazione quasi esclusivamente le-gata all’alunnato presso Pietro Perugino (Città della Pieve, 1446 – Fonti-gnano 1523), del resto fondata sulla maggior fonte per Raffaello giovane, e cioè le Vite del Vasari, nelle due edizioni del 1550 e 1568. In seguito, l’af-finamento dell’analisi critica, il fortunato ritrovamento al Louvre dell’An-gelo, ulteriore parte della pala smembrata di San Nicola da Tolentino già a Città di Castello, nonché la sicura inserzione nel catalogo raffaellesco di alcune opere, come, per esempio, la Resurrezione di Cristo, del Museo di San Paolo del Brasile, opera di altissima qualità sul piano esecutivo e su quello illustrativo, hanno determinato interpretazioni dissenzienti rispetto alla prima tradizionale convinzione accentuando anzi in senso restrittivo l’esperienza peruginesca fin quasi ad escludere un diretto rapporto mae-stro-discepolo.

Così alla tendenza a semplificare al massimo la personalità del giovane Raffaello influenzata quasi esclusivamente dal solo Perugino si è via via passati a sottolineare, sulla base di un’intuizione di Cavalcaselle, quel “tor-mento intellettuale” dell’artista urbinate che ha caratterizzato gli anni del-la sua formazione giovanile. Del resto in uno straordinario ingegno come quello di Raffaello ogni stimolo suggerito dall’ambiente in cui si trovava a vivere veniva subito ricondotto alla coscienza di una intera problematica.

Questo induce, parlando di Raffaello, a mutare il concetto di formazione da semplice apprendistato alla ricostruzione storica di una serie dinamica di esperienze, di relazioni e di conseguenti impressioni e profonde riflessio-ni che, via via accrescendosi negli anriflessio-ni, contribuirono a sedimentare uno straordinario bagaglio di ‘ricordi’ a cui l’artista attinse fino alla fine della sua breve esistenza nello studiosissimo processo creativo di preparazione di ogni sua opera. D’altro canto, va ricordato che Raffaello coniuga questo peculiare fondamento creativo di natura essenzialmente mentale, affidato alla sua eccezionale ‘memoria’ visiva, con un apprendistato che è ancora improntato dalla concezione pragmatica della migliore età umanistica per cui l’arte veniva insegnata come “mestiere”, al livello pratico, e questo deve

aver maturato in lui fin da giovanissimo la convinzione dell’uguale dignità delle arti.

Raffaello è di fatto erede della grande tradizione artistica centro italia-na tre e quattrocentesca “che si fonda sul ruolo vitale della bottega, luo-go fisico della produzione artistica nonché di affinamento e trasmissione dei procedimenti tecnico-fabbrili intesi come strumenti d’indagine e come funzione della ricerca espressiva” (Gabriele Barucca 2015). Questa compo-nente per così dire artigianale, connessa alla parte manuale del mestiere, alla “praxis”, era così profondamente radicata nella cultura artistica dell’U-manesimo, che proprio Raffaello, diversamente dai suoi grandi contempo-ranei Leonardo e Michelangelo, mostra costantemente nel corso della sua sfolgorante ancorché breve carriera un interesse non superficiale per i pro-cessi di lavorazione nonché per l’organizzazione pratica dell’ampia équipe di artefici che aveva accolto nella sua bottega e che dirigeva; proprio l’aver assicurato “alla bottega tradizionale la continuità e le condizioni per ope-rare ancora per qualche secolo”(Mina Gregori 1984) ha costituito uno dei meriti di maggiore portata storica che vanno ascritti a Raffaello.

Tornando alla sua formazione, è sicuro che, come ricorda il Vasari, egli iniziò molto precocemente nella bottega del padre Giovanni Santi (Col-bordolo, 1435 – Urbino, 1494), che fu mantenuta aperta dopo la morte di questi nel 1494, dapprima sotto la direzione di Evangelista di Pian di Me-leto e poi, entro il dicembre del 1500, di Raffaello stesso. La componente formativa umbra è tuttavia così evidente nelle prime opere di Raffaello – si pensi ai due Angeli superstiti della pala smembrata con l’ Incoronazione di san Nicola da Tolentino per Città di Castello, alla coeva Croce, ora al museo Poldi Pezzoli di Milano, allo Stendardo processionale dipinto su entrambi i lati, commissionato dalla confraternita della Santissima Trinità di Città di Castello, alla Crocefissione per la chiesa di San Domenico di Città di Ca-stello (ora nota come Crocefissione Mond alla National Gallery di Londra) – da avvalorare, come è stato proposto, una sua frequentazione della bot-tega di Pietro Perugino nel corso dell’ultimo decennio del Quattrocento e la conoscenza diretta di altri protagonisti della scena artistica in Umbria:

in particolare ne vanno ricordati due dei principali, vale a dire il cortonese Luca Signorelli ( Cortona, 1445 – 1523) che Raffaello dimostra di studia-re con grande intestudia-resse per gli audaci scorci anatomici e la dinamicità delle figure nello spazio e, soprattutto, Bernardino di Betto, detto Pinturicchio

(Perugia, 1454 - Siena, 1513), con il quale il giovane Raffaello collabora alla progettazione della decorazione della Libreria Piccolomini a Siena e che trasmette all’urbinate il gusto per le rievocazioni dall’antico e per una insistita ornatezza.

Il primo incontro tra Raffaello e Luca Signorelli probabilmente risale al 1494, quando il cortonese consegnò a Urbino il gonfalone della confrater-nita dello Spirito Santo (ora Urbino, Galleria Nazionale delle Marche). Il giovane urbinate deve essere rimasto fin da subito impressionato dal vigore e dal dinamismo scultoreo delle figure signorellesche e quando all’aprirsi del Cinquecento venne chiamato a Città di Castello, prima di cimentarsi a realizzare il citato gonfalone della confraternita della Santissima Trinità e le tre pale d’altare che gli furono commissionate in città, certamente trasse nuovi stimoli creativi dallo studio rinnovato dei modelli di Signorelli che nel 1498 aveva lasciato Città di Castello dopo avervi realizzato ben cinque pale.

Quanto al rapporto tra il giovane Raffaello e il Pinturicchio, così scri-ve Giorgio Vasari: “Era stato allogato da Pio Secondo pontefice la libreria del Duomo di Siena al Pinturicchio, il quale, essendo amico di Raffaello e conoscendolo ottimo disegnatore, lo condusse a Siena, dove Raffaello gli fece alcuni dei disegni e cartoni di quell’opera”. Le parole di Vasari atte-stano dunque il soggiorno senese di Raffaello, artista non ancora ventenne ma già all’altezza di affiancare l’affermato Pinturicchio per una commissio-ne di così grande prestigio. Che Raffaello avesse fornito al maestro umbro disegni preparatori e modelli per il ciclo con le Storie di Pio II, è del resto avvalorato dalle caratteristiche stilistiche di alcuni studi e di un paio di cartonetti che ancora si conservano: la Partenza di Enea Silvio Piccolomi-ni per il concilio di Basilea del Gabinetto dei DisegPiccolomi-ni e Stampe degli Uffizi e l’Incontro tra Federico III e Eleonora d’Aragona conservato alla Pierpont Morgan Library di New York. L’attribuzione a Raffaello degli schizzi e dei due modelli è largamente condivisa; in entrambi i disegni finiti si nota una fervida capacità immaginativa, notevole ingegno nell’organizzazione com-positiva delle scene e una straordinaria sensibilità coloristica che lo stesso Pinturicchio non riuscì a trasferire nella resa ad affresco.

L’incarico che dunque l’urbinate svolse per la decorazione della Libre-ria, oltre a costituire una tappa importante nel suo processo di crescita

ar-tistica, fu per lui anche l’occasione per entrare in contatto con un centro artistico di primo piano come quello senese. Il confronto certamente av-venne a partire dal 1502, anno del dettagliato contratto con il quale Pin-turicchio venne chiamato a decorare la Libreria per conto del cardinale Francesco Tedeschini Piccolomini.

La Siena d’inizio Cinquecento, come è stato recentemente ribadito da Alessandro Angelini e Marco Fagiani (2015), era una città ricca di stimoli, con la presenza di una facoltosa committenza rivolta con interesse sempre crescente ai nuovi fatti artistici che andavano diffondendosi per la Penisola.

Così, al suo arrivo, Raffaello trovò un panorama effervescente e dinamico, nel quale la gloriosa scuola locale si trovava costretta a convivere e dialogare con opere realizzate dai maggiori interpreti dell’arte centroitaliana a cavallo tra i due secoli e tra questi, in particolare, proprio il Pinturicchio, l’artista a cui in un certo senso si deve il soggiorno senese di Raffaello e a cui questi guarderà sempre con attenzione fino alla fine della sua sfolgorante carriera, in particolare riguardo alle scelte decorative. Per esempio, basti ricordare lo schema per gli ornati di grottesche a candelabra messo a punto dal pittore perugino alla fine del Quattrocento ispirandosi alla Domus Aurea di Ne-rone, allora da poco scoperta, che verrà ripreso da Raffaello, sebbene pro-fondamente rinnovato, nella decorazione dell’appartamento del cardinal Bibbiena e delle Logge nel Palazzo Vaticano.

Detto questo, comunque, non si può negare che la più incisiva espe-rienza artistica della formazione di Raffaello sia consistita nel contatto con Perugino, il maggiore maestro nella pittura italiana di quegli anni. Peraltro il rapporto con quest’ultimo non si limita all’ambito strettamente peru-gino; una delle conquiste storico-critiche più importanti degli anni Cin-quanta-Sessanta del Novecento è stata quella di riconoscere che il periodo di alunnato presso Pietro Vannucci, intorno al 1500, non escludeva ma anzi poteva aver favorito precoci e frequenti contatti del giovane urbinate non solo con Perugia, quanto piuttosto con Firenze, dove il celebre pittore aveva lavoro e aveva formato la sua famiglia, sposando nel settembre 1494 Chiara, figlia dell’architetto albertiano Luca Fancelli.

Questo precoce contatto proprio all’inizio del Cinquecento con l’am-biente fiorentino sembra essere confermato dall’analisi stilistica di un’ope-ra di gun’ope-rande complessità come lo Sposalizio della Vergine per la cappella di Filippo Albizzini in San Francesco a Città di Castello, ora nella Pinacoteca

di Brera a Milano, conclusa entro l’estate del 1504, prima dunque del tra-sferimento documentato di Raffaello alla fine di quell’anno a Firenze dove egli risiedette prevalentemente fino al 1508. Se da una parte quest’opera costituisce il culmine della fase peruginesca di Raffaello, che fa propria la visione armonica delle forme del maestro più anziano nelle figure dei pro-tagonisti della scena vera e propria, dall’altra rappresenta anche l’inizio del superamento di questa fase come rivela l’analisi del bellissimo tempio sul-lo sfondo, anticipatore addirittura del più classico Cinquecento. La com-plessità della pianta del tempio deriva secondo Maria Grazia Ciardi Dupré (1987) dalle “ricerche di geometria matematica di Luca Pacioli”, dal no-vembre del 1500 residente per qualche anno a Firenze, mentre la struttura sembra, secondo Luisa Becherucci (1987) “una riflessione approfondita su un monumento fiorentino, la Rotonda della Santissima Annunziata, ope-ra dell’allievo e collaboope-ratore di Leon Battista Alberti, Luca Fancelli”, che peraltro, come s’è detto, era il suocero del Perugino.

Ma la cultura figurativa espressa dai tre maestri più moderni dell’Ita-lia centrale alla fine del Quattrocento, Perugino, Pinturicchio, Signorelli, nonché l’eventuale precoce contatto con l’ambiente artistico fiorentino, non consentono comunque di comprendere appieno le novità che fin dalle sue opere giovanili distinguono Raffaello da quei pittori e rivelano da subi-to l’ampiezza e la diversità dei suoi interessi.

Le radici profonde dell’itinerario che porterà Raffaello negli anni ro-mani a definire la poetica dell’ideale classico sono da ritrovare a Urbino, sua città natale, e nel grandioso Palazzo rinascimentale che ancora oggi la domina e che Raffaello fin da bambino ebbe la possibilità di frequentare grazie alla posizione di cui godeva il padre Giovanni Santi presso la corte urbinate. In questo Palazzo, voluto da Federico di Montefeltro, inizia il percorso artistico di Raffaello che qui entra in contatto con le fonti dell’u-manesimo e stabilisce un dialogo ideale con i grandi protagonisti della ci-viltà urbinate: Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, gli architetti Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini, Luca della Robbia e gli scultori e intarsiatori fiorentini, Giusto di Gand e i pittori fiamminghi.

Su questi presupposti culturali il giovane Raffaello, a soli diciassette an-ni già citato nei documenti come magister, fonda la sua concezione dello spazio e delle figure, memore della tradizione geometrico-prospettica di ascendenza pierfrancescana, e sviluppa fin da bambino l’interesse per

l’ar-chitettura reale e ideale che costituirà il fondamento del suo universo pro-porzionato e ordinato. Tutto questo prima ancora che, nel corso del suo documentato soggiorno fiorentino tra il 1504 e il 1508, approfondisse la conoscenza dell’architettura albertiana, della plastica di Luca della Robbia e subisse l’influsso decisivo per la sua metodica formazione del disegno di Leonardo e dell’arte di Michelangelo.

Si intende che tutti questi spunti sulla formazione artistica di Raffael-lo andrebbero puntualmente approfonditi, ma credo comunque che siano sufficienti a delineare una delle testimonianze più significative ed esempla-ri per intendere l’importanza e l’imprescindibile centralità della circolazio-ne artistica tra Marche, Umbria e Toscana.