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Sommario

Il testo qui pubblicato, scritto nel 2005 come tesi di laurea, propone come tema Le strategie di

costruzione delle identità collettive fra i Longobardi del Sud nei secc. VIII–XI. Per “Longobardi”

s’intendono gli abitanti dei principati di Benevento, Salerno e Capua, molto spesso identificati dalle fonti coeve tramite questo etnonimo. Va detto però che l’identità etnica (longobarda) fu solo una delle varie identità collettive coesistenti dentro quella società: l’identificarsi con la gens Langobardorum, in diverse circostanze, poteva andare meno in favore dell’identificazione con una comunità locale, mo- nastica oppure religiosa. Ciò spiega il plurale nel titolo. Il metodo adoperato allo studio delle identità trae ispirazioni dal nuovo paradigma dell’etnicità sviluppato nel campo della sociologia e dell’antro- pologia della cultura negli ultimi decenni, il quale ha influito anche nel campo degli studi medievali (si notino ad esempio gli studi di W. Pohl). In conseguenza un’etnia viene definita soggettivamente: un gruppo di persone costituisce una comunità etnica (o di altro tipo) in quanto si identifica come tale. I criteri di appartenenza invece non sono quelli stabiliti da un osservatore dal di fuori ma sono delle tracce ritenute significative dagli stessi membri di dato gruppo. L’identità collettiva quindi non è inna- ta né data una volta per sempre, ma viene costruita, diventa oggetto di una prassi e di aggiornamenti. Per questo si parla qui non soltanto delle manifestazioni, ma anche delle strategie di costruzione delle identità collettive. Diverse azioni e testi possono far parte di tali strategie. Il contatto con i gruppi percepiti come diversi sembra costituire un fattore importantissimo in questo processo: l’identità collettiva esiste, cambia, è costruita di fronte agli “altri” e perciò può essere descritta come re- lazionale. Bisogna notare che il ruolo dei rapporti con gli “altri” nell’acquisire la coscienza di “noi” è abbastanza complesso: da una parte suscita le dichiarazioni positive su di “noi”, dall’altra fornisce l’occasione di manifestare/costruire negativamente la propria identità tramite le immagini, le opinioni sugli “altri”.

Ciò vale anche per i Longobardi del Sud. La moltiplicità e la diversità dei protagonisti della storia del Mezzogiorno nel periodo longobardo incoraggiarono manifestazioni ed una continua ridefinizione delle identità collettive dei Longobardi. Si propone quindi di descrivere la loro coscienza come co- struita in rapporto con gli altri gruppi ben distinti dalle fonti, cioè Franchi, Greci, Napoletani ed Arabi. Come fonti adatte per una tale analisi si ritengono soprattuto i testi prodotti dalla società studiata. Da una parte ci sono i testimoni delle varie azioni, come ad esempio documenti, dall’altra le narrazioni più o meno elaborate, riguardanti il passato e la contemporaneità della regione, le quali sono con- siderate significative innanzi tutto per il periodo della loro stesura. Tutte le assunzioni metodologiche così come la presentazione delle fonti e dei pochi studi sull’argomento condotti finora sono discusse dettagliatamente nell’Introduzione.

Il capitolo I è dedicato all’uso dell’etnonimo Langobardi nelle fonti meridionali d’area lon- gobarda, alla sua frequenza e soprattutto ai contesti nei quali questo nome si manifesta. Se ne distin- guono tre principali: le intitolazioni dei principi, l’identificazione dei contraenti e della legge secondo la quale veniva stipulato un contratto, infine le narrazioni storiografiche. Per quanto riguarda il primo contesto bisogna notare, che i signori di Benevento, e poi anche quelli di Salerno e Capua, durante tutto il periodo qui esaminato continuarono a presentarsi come duchi/principi dei Longobardi: l’appo- sizione “etnica” dei titoli di duca e poi di principe (dux/princeps gentis Langobardorum) fu un ele- mento fisso nelle loro intitolazioni. Siccome le definizioni del potere principesco secondo il territorio non sono del tutto sconosciute, tale preferenza può essere considerata una scelta consapevole da parte dei sovrani. L’apposizione territoriale del titolo rimase marginale: solo all’inizio del IX sec. l’intro- dussero Grimoaldo IV, Sico e Sicardo presentandosi anche come principes Beneventane provincie, poi le espressioni simili ogni tanto si manifestarono nelle narrazioni dei documenti ma quasi mai fecero parte della stessa titolatura. L’identificazione con la gens Langobardorum ebbe quindi il ruolo im- portante nell’autorappresentazione ufficiale dei principi longobardi. Nei documenti privati i contraenti

raramente si definirono tramite l’etnonimo longobardo. Bisogna però sottolineare il contesto in cui si trovano quelle poche identificazioni. Sono soprattutto i contratti con le persone viventi fuori territori longobardi, nei ducati di Gaeta, Napoli e Amalfi. Più numerosi, in particolare nella stessa categoria dei documenti, sono invece i riferimenti alla legge che viene definita come Langobardorum.

L’identificazione etnica della legge è oggetto di una trattazione a parte (cap. I/C). Uno speciale interesse è dedicato al vasto gruppo dei documenti privati rogati nel territorio salernitano (provenienti nella maggior parte dall’archivio di Cava) nei quali una o ambedue le parti dichiarono l’origine amalfitana – Amalfitani, Atrianenses. Va ricordato che innanzi tutto dalla metà del X sec. numerosi Amalfitani vissero nei confini del principato salernitano. Sulla base della serie dei documenti stipulati da o tra gli Amalfitani si può ipotizzare l’evoluzione della loro condizione giuridica. È molto probabile che, almeno all’inizio, le persone provenienti dal ducato amalfitano (allora viventi secondo il diritto romano) fossero obbligate, come tutti i waregang, ad assumere il diritto longobardo, il quale ebbe allora il carattere del diritto di tutta la popolazione dei principati longobardi. In occasione delle alienazioni gli Amalfitani agiscono col consenso del principe, spesso si riferiscono esplicitamente alla

lex Langobardorum, alcuni dichiarono di vivere sotto di essa. Sembra che con la loro sempre più

numerosa immigrazione, agli Amalfitani sia stato consentito di conservare il proprio diritto (magari sulla base del c. 91 della legislazione liutprandea, che prima sembra non aver trovato applicazione nel Mezzogiorno a causa della totale assimilazione della popolazione indigena al diritto longobardo): nel corso del XI sec. nelle carte degli Amalfitani più frequenti diventano i riferimenti alla lex Romanorum (anche nella forma della professio iuris). Dal punto di vista della problematica qui esaminata ancora più importante è l’osservazione, che a partire dalla seconda metà del X sec., quindi simultaneamente all’immigrazione degli Amalfitani, i riferimenti espliciti alla lex Langobardorum diventarono sempre più numerosi anche nei documenti, in cui nessuna delle parti dichiarava di essere amalfitana. I rife- rimenti alla legge definita per mezzo dell’etnonimo si trovano soprattutto nei contratti di matrimonio (promissio/traditio morgengabe), di donazione o di qualsiasi alienazione da parte di una donna o un minorenne. Tutte tre sono le azioni le quali il diritto longobardo regolava dettagliatamente e in modo diverso dal diritto romano. Nell’insieme dei documenti di queste tre categorie le proporzioni tra il numero dei contratti in cui la legge venne definita tramite l’etnonimo (I gruppo: colonne 2–4 nelle tavole 1–10) e il numero di quelli in cui mancano tali identificazioni (II gruppo: colonna 5 nelle stesse tavole) possono essere considerate significative per la diffusione della stessa prassi dell’identifica- zione etnica della legge. Nel più ricco – e quindi più attendibile – materiale documentario da Salerno e dintorni (tavola 1) evidente è un rovescio di queste proporzioni: fino alla metà del X sec. il II gruppo assolutamente domina il primo, dalla seconda metà dello stesso secolo il primo comincia a prevalere sul secondo. Si può dunque dedurre che la numerosa presenza degli Amalfitani che continuarono a vivere secondo il diritto romano abbia avuto come effetto non solo la diffusione della prassi dell’identificazione etnica della legge nei documenti, ma abbia fatto anche “recuperare” da parte della popolazione longobarda del territorio salernitano la consapevolezza di vivere secondo il diritto “dei Longobardi”.

Applicazione dell’etnonimo “Longobardi” per definire le persone e più spesso la legge in occa- sione dello stipulare di un contratto mostra che l’identificazione con la gens Langobardorum non si limitò solo alla retorica del potere principesco, ma fu importante, a seconda delle situazioni, anche nella vita quotidiana. Allo stesso tempo l’identificazione collettiva risulta condizionata dai rapporti con altri gruppi. A queste conclusioni corrispondono le osservazioni concernenti il terzo contesto, cioè le narrazioni storiografiche. Anche se i cronisti distinguono tra i Longobardi provenienti dalle diverse città o principati (Beneventani, Capuani, Salernitani) non rinunciano a parlare anche dei Langobardi. Questo etnonimo viene adoperato soprattutto nelle relazioni che riguardano i rapporti con i gruppi non-longobardi, quali Franchi, Greci, Arabi o Napoletani. Allo stesso modo di fronte ai Saraceni la popolazione del Mezzogiorno longobardo spesso viene definita semplicemente christiani.

Le osservazioni sull’uso dell’etnonimo Langobardi suggeriscono che l’identificazione etnica era magari la più importante, anche se non unica, delle identificazioni collettive tra la popolazione del territorio esaminato. Questo ci permette di chiamarla Longobardi. A partire dal capitolo II (Lon-

gobardi di fronte ai Franchi e Greci) l’identità dei Longobardi viene descritta secondo il modello

longobardo e il conflitto con Carlo Magno alla fine dell’VIII sec. sembrano aver costituito un forte fattore di ridefinizione dell’identità politica del ducato beneventano. Nella serie di 23 diplomi rilasciati nel novembre del 774 per il monastero di S. Sofia a Benevento (e nel diploma coevo per l’abbazia di Monte Cassino) Arechi II sostituì l’antico titolo dux con il nuovo princeps e introdusse un’arenga secondo la quale le donazioni furono effetuate non solo per il merito della propria anima, ma anche

pro salvatione gentis nostre et patrie. Sia il titolo, che la motivazione dichiarata nell’arenga corrispon-

dono al linguaggio dei diplomi e ancora più a quello della legislazione dei re longobardi. Si può dire che con queste forme dell’autorappresentazione regia e modi dell’esecuzione del potere (ai quali bisognarebbe aggiungere anche la promulgazione delle leggi) Arechi assunse in rapporto con la terra e il popolo a lui sogetti il ruolo di un re longobardo. Non disponiamo delle coeve narrazioni storio- grafiche longobarde che propongano un’interpretazione eleborata di questi eventi. Per questo l’analisi è limitata alle fonti documentarie e alcuni testi commemorativi, come gli epitaffi. Deliberatamente sono state escluse le relazioni dei cronisti posteriori (quali testimoni del loro tempo) così come le

translationes delle reliquie dei santi raccolte da Arechi a S. Sofia (i testi sono di datazioni incerte).

Dopo qualche decennio del désintéressement reciproco, i Carolingi tornarono nel Sud con suc- cessivi interventi di Ludovico II, prima durante la guerra civile, poi contro gli Arabi. Di nuovo la presenza franca, questa volta voluta, costituì una sfida per i Longobardi. Il nucleo dei testi storiografici raccolti durante la spedizione dell’imperatore degli anni ‘60 nella così detta Chronica S. Benedicti e il prologo alle leggi di Adelchi del’866 manifestarono due atteggiamenti diversi dentro la società della Langobardia minore. Per la comunità di Monte Cassino, Ludovico si presentava come unico protettore della regione. La corte beneventana invece lo riteneva pericoloso per la propria indipendenza; per questo Adelchi, come prima Arechi, promulgò delle leggi precedute dal prologo in cui propose un’in- terpretazione della storia del regno fino alla fine, in polemica con quella papale e carolingia, e pre- sentò i principi di Benevento come eredi dei re longobardi. L’imprigionamento di Ludovico a Be- nevento alcuni anni dopo fu un’altra manifestazione di tali ansie.

Dopo la morte di Ludovico i principi di Spoleto rimasero gli unici rappresentanti del mondo carolingio nel Sud. Allo stesso tempo Bisanzio cominciò a recuperare i suoi possedimenti in Puglia. In tale contesto Erchemperto scrisse la sua Ystoriola dei Longobardi beneventani, la cui narrazione si apre con il principato di Arechi. La trattazione sul conflitto dei primi principi con i Carolingi co- stituisce per il cronista l’occasione per identificarsi con i Longobardi del tempo e sottolineare la loro indipendenza e i valori. La commemorazione della resistenza di Arechi e Grimoaldo sembra un contrappeso per la trattazione dei rapporti contemporanei con i Franchi, che sono presentati come alleati utili e necessari contro gli Arabi e Greci, quegli ultimi sentiti come un pericolo sempre maggio- re. La cattiva opinione sui Greci coglie infine il carattere religioso: “sono cristiani solo di nome, per quanto riguarda abitudini, sono peggiori dei Saraceni”. Bisogna sottolineare che l’immagine dei Greci venne elaborato nello stesso indirizzo in un breve testo anonimo scritto probabilmente a Benevento subito dopo la fine dell’occupazione bizantina della città e dedicato proprio agli eventi degli anni ‘90 del IX secolo. Il breve dominio dei Bizantini a Benevento è presentato come un periodo duro, annun- ciato da molto tempo con diversi omina. La descrizione dell’ingiustizia dei funzionari bizantini porta l’autore a chiamarli i discepoli di satana e a ritenerli eredi dei re pagani del mondo ellenistico (sono paragonati al nequissimus rex eorum Antioco IV). Nello stesso contesto sono discussi i cataloghi degli imperatori, dei re longobardi e dei principi beneventani dal codice Cassinese 175, scritti all’inizio del X sec. (che tralasciano gli imperatori occidentali e i re dell’Italia carolingia) e la prassi abbastanza diffusa tra i principi longobardi di quel periodo di assumere i titoli aulici bizantini accanto a quello di

princeps gentis Langobardorum. Bisanzio dunque non fu solo un nemico pericoloso la cui identità

cristiana veniva negata, per alcuni gruppi, come la comunità cassinese (che auspicava la protezione dei suoi beni diminuiti dopo la distruzione dell’abbazia) e i principi longobardi (che spesso cercarono la legittimazione del loro potere a Costantinopoli) fu piuttosto un importante punto di riferimento.

La situazione cambiò di nuovo con la restaurazione dell’impero occidentale di Ottone I che si impegnò anche nelle vicende dell’Italia meridionale sfruttando l’appoggio da parte di Pandolfo Capo- diferro, il principe di Benevento e Capua. Testimone di quella tappa nelle relazioni dei Longobardi con entrambi gli imperi è il Chronicon dell’Anonimo Salernitano. L’analisi di quel testo ricco e denso si limita qui a due temi. Il primo è la memoria sulla caduta del regno longobardo e gli inizi del prin-

cipatus beneventano. Va ricordato che l’Anonimo colma una lacuna storiografica tra la fine della Historia Langobardorum di Paolo Diacono e l’inizio della cronaca di Erchemperto – l’autore, ba-

sandosi sul Liber Pontificalis, ma al contempo discutendo con la sua fonte, presenta le circostanze della conquista carolingia. La relazione su Arechi e i suoi successori già trova un suo corrispondente nel testo di Erchemperto. Si può dire che ha finalità simili, cioè l’esaltazione della libertà dei Lon- gobardi e della loro forte volontà di conservarla. Quel tema però nel Chronicon viene elaborato in modo diverso e indipendente da Erchemperto: la sovranità di Arechi trova il suo simbolo nella corona, nella difesa contro i Carolingi i Longobardi si caratterizzano per il coraggio e la prontezza di subire la morte (atteggiamento motivato con il mito delle origini), ma fanno anche ricorso a stratagemmi; infine già a questo punto prevale la prospettiva salernitana. Così il ricordo di Arechi fa parte della memoria sulla nascita dello splendore di Salerno, la vera sede del principe, e in questo modo avrebbe potuto servire a rafforzare l’identità salernitana (senza rinunciare all’identificazione con i Langobardi) di fronte alla preponderanza di Pandolfo. Il secondo tema è la riflessione sulla legittimità del titolo imperiale dei Carolingi (e implicite anche di Ottone). All’inizio (c. 11) il cronista definisce aperta- mente l’uso di quel titolo da parte dei reges Gallorum una usurpazione (solo i sovrani romani, cioè costantinopolitani, sono imperatori). Dell’incoronazione romana di Carlo l’Anonimo ne parla solo in occasione della monachizzazione del sovrano esultandone l’umiltà (c. 34), non dice nulla però sul titolo imperiale. Diversamente avviene per quanto riguarda il periodo dalla metà del IX sec. in poi: parla esplicitamente dell’incoronazione imperiale di Ludovico II (c. 103), inserisce la lettera di Lu- dovico a Basilio, nella quale Ludovico non solo provava la legittimità del titolo imperiale suo e dei suoi predecessori, ma negava anche il titolo degli imperatori dei Romani ai Bizantini (c. 107), la

romanitas degli imperatori bizantini viene poi contestata nel episodio di Alessandro (c. 131), in fine

l’Anonimo menziona l’incoronazione di Ottone I. L’evoluzione dell’atteggiamento dell’autore si spie- ga probabilmente con la stesura del testo durata alcuni anni. Si ipotizza che l’Anonimo cominciò a scrivere la cronaca durante il principato indipendente di Gisulfo minacciato da Pandolfo (inizi degli anni ‘70), la parte seguente, invece, l’avrebbe continuata già dopo associazione al potere da parte di Gisulfo il figlio di Pandolfo, o perfino dopo la morte di Gisulfo (a. 978), quando Pandulfo insieme a suo figlio riunì Benevento, Capua e Salerno. Ciò spiegherebbe anche il ritratto molto negativo dei Bizantini nelle parti riguardanti gli eventi dalla fine del IX sec. in poi. Di fronte alla loro minaccia sia Beneventani che Salernitani si riconoscono Langobardi, coraggiosi sull’esempio dei loro antenati (un’altro riferimento al mito delle origini) e fuduciosi nella protezione divina (si notino le relazioni sull’occupazione di Benevento e la scena di battaglia di Basintello). Il capitolo I si chiude con un

excursus sul significato delle traslazioni delle reliquie a Benevento per iniziativa di Arechi.

Il capitolo III è dedicato ai rapporti con Napoletani. A partire dal Liber de Apparitione Sancti

Michaelis, un testo scritto prima dell’inizio del IX sec., e poi nelle cronache sancti Benedicti e di

Erchemperto essi sono presentati non solo come nemici dei Longobardi, ma pure come nemici di san Michele Arcangelo, il protettore dei Longobardi, e perfino quasi pagani, perche impiegano i Saraceni contro i loro avversari cristiani. Questo ritratto diventa più sfumato solo nel Chronicon dell’Anonimo Salernitano. In questo capitolo si tratta anche della traslazione di S. Gennaro da Napoli a Benevento, presentata nel testo coevo some il ritorno del “padre” (il santo fu vescovo di Benevento).

Nel capitolo IV si discute il ruolo dei rapporti con diversi gruppi musulmani, definite nelle fonti come Saraceni, Agareni o Hismaelitae. Nelle fonti del IX secolo, quali la Chronica S. Benedicti e l’Ystoriola di Erchemperto i Saraceni si presentano come una minaccia continua, l’effetto più triste della guerra civile degli anni ‘40 dello stesso secolo durante la quale entrambe le parti chiamarono dei mercenari musulmani. Va detto che in questo caso la memoria della comunità cassinese, di cui am- bedue le cronache furono l’espressione, più che in altri temi, si inseriva nella memoria della società laica della Longobardia minore. Infatti, l’immagine dei Saraceni costruita in questi testi trovava riscontro con l’esperienza del comune pericolo arabo per la maggior parte degli abitanti del territorio. A questo punto vanno menzionati molti documenti emessi nella seconda metà del IX e nel X sec. nei quali si ricordano le persone rapite, i documenti (quali titoli della proprietà) perduti o bruciati, oppure le città assediate dai Saraceni. Solo nel Chronicon dell’Anonimo Salernitano, scritto nel periodo, in cui le incursioni vennero meno, i Saraceni si presentano non solo come nemici, ma anche come vicini. Alla fine si pone la domanda sulla nozione della loro diversità religiosa nelle fonti longobarde.

I Saraceni sono percepiti come un gruppo di un’altra religione (chiamati pagani, prophani, perfidi,

gentiles, infedeles in opposizione ai cristiani). La religione musulmana non è però la causa principale

dell’atteggiamento ostile nelle loro confronti, né costituisce la loro traccia assoluta (sono da pensare i Saraceni cristiani – si veda il testo della Divisio principatus).

La definizione dell’identità collettiva come costruzione culturale ha permesso di parlare delle strategie di costruzione di una comunità. Per quanto rigaurda i Longobardi dell’Italia meridionale alcuni fenomeni possono essere considerati elementi di tali strategie:sono i diplomi dei principi (con le loro intitolazioni accompagnate da apposizioni etniche), le monete coniate da costoro, le fondazioni ecclesiastiche e traslazioni delle reliquie da essi promosse, infine tutte le interpretazioni del passato e dei tempi contemporanei fornite soprattutto dalla storiografia monastica. Uno degli oggetti di queste narrazioni è la società, ritenuta sua (con la quale gli autori si identificano), presentata in rapporto con i diversi gruppi ritenuti “stranieri”. Il contatto con tali gruppi sembra aver costituito un fattore di- scriminante della propria identificazione collettiva. L’identità dei Longobardi meridionali, descritta come relazionale, viene costruita di fronte ai vari “altri”, in modo diverso sulle seguenti tappe nelle relazioni reciproche, infine, di fronte ai diversi “altri” si possono costruire identità diverse. A tali

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