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Strategie del mecenatismo artistico e mercato dell’arte nella Roma della prima metà del Seicento

I precedenti quattro capitoli sono stati dedicati alla ricostruzione del mecenatismo promosso dalle famiglie Massimo, Altemps, Naro e Colonna, attraverso i sistemi della committenza diretta e dell’acquisto di dipinti già pronti, nel periodo 1600-1650. La ricerca condotta sugli specifici archivi famigliari ha prodotto un’ingente quantità di dati inediti, tale da permettere nuove ed importanti attribuzioni, precisazioni cronologiche e, più in generale, l’esatta dinamica delle vicende esecutive o collezionistiche di numerose opere d’arte, quadri e cicli decorativi. Spesso si è trattato di questioni completamente nuove, finora ignorate dagli studi, in altri casi sono state apportate significative integrazioni alle conoscenze già acquisite, cercando di mantenere il discorso nell’ambito della sequenza storica dei fatti, della loro concatenazione logica, senza entrare troppo nel merito degli approfondimenti suggeriti dalla natura stratificata del materiale archivistico. Ciò che un documento riferisce, l’informazione che contiene, -per essere più espliciti- la notizia in sé che trasmette, ha dato i suoi frutti nei primi quattro capitoli, ne ha costituto l’ossatura, una robusta ossatura sulla quale stendere il primo e fondamentale livello di conoscenza: la conoscenza dei fatti. I documenti riportano i fatti e dai fatti, siano essi personali o sociali, è necessario partire per risalire alla realtà dei contesti in cui quei fatti- compresi i fatti artistici- hanno avuto la propria genesi. Haskell riconosceva l’importanza dei dati storici quali fattori irrinunciabili per una disamina convincente e realistica sul mecenatismo, non solo nella prassi metodologica da seguire ma anche, e prima, sul piano della premessa teorica che indirizza la ricerca. Per comprendere la natura complessa dei rapporti mecenati-artisti è necessario risalire al contesto storico-sociale-culturale entro il quale quei rapporti hanno avuto luogo, risalire alle reali condizioni che hanno permesso l’incontro e la collaborazione tra i due enti e tra questi e le varie consorterie d’appartenenza o di riferimento. Ricostruire il contesto significa rivelare i fattori materiali che possono aver condizionato scelte, giudizi e comportamenti nelle relazioni reciproche tra chi richiedeva un’opera d’arte e chi possedeva la capacità tecnica e creativa per realizzarla, tra chi riconosceva all’opera un valore immateriale, ancorché

legato ad un costo, e chi attraverso quel costo rendeva fruibile quel valore immateriale, sia esso l’artefice o solo un mercante. Nel presente capitolo si cercherà di trattare l’oggetto opera d’arte quale prodotto finale del rapporto mecenate-artista, risultato che al di là della specifica qualità estetica, di per sé fondante l’opera d’arte in quanto tale, si configura universalmente –almeno nella società e nel periodo considerato- come fenomeno sociale favorente un circuito economico, sottoposto alle regole basilari del mercato. Spezzaferro ha definito con la felice espressione studio del consumo dei

prodotti artistici, un simile approccio alla storia dell’arte, osservata dal lato dei principi

economici che governano i molteplici fenomeni sociali, in luogo della più tradizionale storia dello stile. L’opera d’arte come effetto di un circuito economico coinvolge ormai nel primo Seicento strati della società romana su livelli di ricchezza diversi, il ceto nobiliare soprattutto, ma anche e progressivamente categorie sociali meno abbienti, mercanti (non necessariamente ricchi), professionisti, barbieri, ciabattini, osti etc. Un pubblico diversificato nella disponibilità e, conseguentemente, nelle capacità di investimento in beni improduttivi -per citare Pomian- in beni appartenenti alla ‘sfera dell’invisibile’.595 L’oggetto artistico, il quadro in particolare, assume un valore proprio, un’identità significante al di là della mancante funzione utilitaristica, per una fascia di popolazione estesa verticalmente dall’elite dominante (papa, alti prelati, nobili) ad alcuni strati della popolazione meno abbienti ma in grado di riservare piccole

quote dei propri introiti a questa tipologia di invenstimenti improduttivi. Il concetto di collezione nell’accezione tradizionale di raccolta sistematica e ordinata di

oggetti, difficilmente può applicarsi all’insieme dei quadri posseduti dai tanti anonimi personaggi dei ceti meno abbienti, registrati negli inventari.596 Ma al di là della sistematicità degli insiemi ciò che vale è verificare la presenza stessa dei quadri tra i beni posseduti, in quantità tali che portano a escludere la semplice casualità e suggeriscono, piuttosto, la raggiunta consapevolezza e predisposizione al possesso. Più precisamente la consapevolezza del valore autonomo dell’opera e dell’arte, in rapporto alla molteplicità dei significati che l’oggetto artistico (il quadro in primis) può assumere, o di cui può diventare veicolo: affetti personali, sentimenti religiosi, puro godimento estetico.597

Se, dunque, esiste ed è verificabile un interesse diffuso all’acquisto di oggetti artistici, in particolare quadri, allora tale interesse non può che manifestarsi attraverso un 595 Pomian, pp.30-60, part. pp. 41-43. 596 Cavazzini, 2004 pp. 354-357. 597

Con grande lucidità Pomian ha inteso l’opera d’arte come quell’oggetto destinato allo sguardo e pertanto sottratto alla possibilità di scambio, privo di valore di scambio. Pomian, pp. 35-45.

circuito economico di scambio, di compravendita diffuso, che trova espressione nel libero incontro tra domanda e offerta, ovvero nel mercato. Ecco il punto: stabilire l’esistenza già a primi del Seicento di un nascente mercato dell’arte romano, in cui

indistintamente si muovono nobili e meno abbienti, alla ricerca di cose alle quali

attribuire significati esclusivi.

A tal proposito la testimonianza che più di frequente gli studiosi della materia hanno voluto riportare è quella dell’esperto d’arte nonché fine collezionista Vicenzo Giustiniani (1564-1637), il quale intorno al 1616 affermava che «non solo in Roma in Venezia et in altre parti d’Italia ma anco in Fiandra e in Francia modernamente si è messo in uso di parar i palazzi compitamente con quadri...».598 A questa ormai celebre osservazione Giustiniani ne faceva seguire immediatamente un’altra, meno ricordata, ancorché complementare alla precedente: «e questa nuova usanza (il parar i palazzi con i quadri) porge anco gran favore allo spaccio delle opere de’pittori ai quali ne dovrà risultare alla giornata maggior utile per l’avvenire».599 La fotografia che scaturisce dalle parole del celebre collezionista appare molto chiara: da una parte cresce la richiesta di dipinti per ornare i palazzi secondo il nuovo gusto diffuso in tutta Europa, dall’altra nasce e si sviluppa un commercio di quadri capace di garantire lauti guadagni a chi lo pratica. Una situazione quella descritta che supera nella realtà della piazza romana le consapevoli osservazioni del Giustiniani e che all’interno del fenomeno ‘collezionismo’finisce per coinvolgere non solo i ceti più ricchi, i possessori di ‘palazzi’, ma anche quei cittadini di fascie sociali economicamente meno agiate disposte ad investire denaro nell’acquisto di dipinti.

Il quadro può far parte dell’arredamento insieme agli altri mobili e confondersi con questi, come nel caso degli inventari della robba posseduta dai ceti meno abbienti. Oppure può assurgere ad una dignità propria, ad una propria e specifica identità rispetto alle altre robbe, perché tra gli oggetti riveste significati speciali, si fa ‘testimonianza dell’invisibile’.600 Testimonianza che può e deve assumere valori differenti a seconda dello ‘status’ economico e culturale dell’acquirente. La funzione di tramite verso l’invisibile che il quadro assume dipende dalla scala dei valori che l’acquirente sceglie o è in grado di attribuirgli. Nelle case dei ceti meno abbienti si incontrano di frequente immagini di Madonne e Santi, qualche volta paesaggi e quasi mai soggetti profani e ciò in conseguenza della funzionalità significante che al dipinto in quel contesto famigliare viene assegnata. Sono immagini votive, in grado di servire una 598 Giustiniani (ed.1981), p. 45. 599 Giustiniani (ed.1981), p. 45. 600 Pomian, pp. 12, 33, 41-44.

religiosità, intima, famigliare, ‘popolare’. La situazione cambia se si passa alla considerazione dei mecenati, di coloro i quali investono in pittura (nelle diverse forme, quadri e cicli decorativi) ingenti somme, secondo un criterio volontario che aspira alla creazione di un apparato rappresentativo, di un sistema di semiofori, in grado trasmettere l’immagine di sé agli altri.601 Il loro comportarsi di fronte agli oggetti d’arte è condizionato dall’appartenenza sociale, la promozione finanziaria di un’opera pittorica (e non) scaturisce dalla costrizione finanziaria che l’elite economica si trova a dover subire, nella continua ricerca di strumenti efficaci per la conquista o la durevole affermazione del proprio prestigio sociale. Le collezioni, i grandi cicli decorativi per palazzi, chiese, cappelle e ville rispondono all’esigenza dell’elite di mostrare sé stessa alla comunità cittadina, ai loro pari e, in generale, al popolo tutto. Esiste una corte ‘centrale’, o meglio centralizzata, quella pontificia che attraverso politiche culturali di volta in volta differenti dispone iniziative artistiche con modalità e finalità differenti. I rappresentanti di quella corte, le alte sfere ecclesiastiche commissionano e comprano oggetti d’arte, per abbellire le proprie residenze e i luoghi sacri a loro deputati, attingendo alla cerchia degli artisti ‘papali’ oppure ricorrendo ad altre personalità sulla base di interessi e finalità personali. La quasi totalità delle famiglie appartenenti al ceto nobiliare romano, d’antica e più recente nomina, poteva contare su esponenti ecclesiastici, dai vescovi ai più influenti e facoltosi cardinali. I numerosi studi sulle collezioni di questi prelati hanno messo in luce sia comportamenti eterogenei, spesso antitetici, sia ideali estetici comuni, dietro la valorizzazione di un artista e di un modo di dipingere rispetto ad un altro. Il presente studio ha volutamente evitato di occuparsi del mecenatismo ecclesiastico, preferendo un’indagine condotta sulle scelte artistiche dei privati, di quella parte del pubblico, dunque, che libera da condizionamenti legati allo status civile d’appartenenza riesce a riflettere in modo più evidente attraverso i propri interessi artistici la trama delle relazioni socio-culturali generate dalla specifica appartenenza famigliare.

Il principale strumento di analisi adottato dai tanti studi sul collezionismo romano del Seicento è rappresentato dagli inventari delle raccolte, delle quadrerie, delle gallerie. Molto spesso si tratta di inventari muti, senza indicazione degli autori, con la sola citazione del soggetto e non sempre delle misure. Senza mettere in discussione

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Pomian, pp. 49-52. In particolare, «...l’acquisto di semiofori, la compera di opere d’arte, la formazione di biblioteche o di collezioni, è una delle operazioni che, trasformando l’utilità in significato, permettono a chi sia altolocato nella gerarchia della ricchezza di occupare una posizione corrispondente in quella del gusto o del sapere, essendo i pezzi da collezione, come si è visto, dei simboli di appartenenza sociale, se non di superiorità. L’acquisto dei semiofori equivale dunque a quello del biglietto d’ingresso in un ambiente chiuso e al quale non si può accedere senza avere ritirato una parte del denaro che si possiede dal circuito utilitario». Pomian, p. 52.

l’importanza degli inventari, vere e proprie fotografie sullo stato momentaneo di una collezione, fissata in un determinato momento storico, ciò che deve essere criticata è la propensione diffusa da parte di chi ne fa uso a considerarli punto di arrivo conclusivo ed esaustivo nello studio di una quadreria. In altre parole, studiare un inventario seicentesco, magari rintracciando l’ubicazione odierna dei pezzi, è sì lavoro prezioso, ma che non contribuisce in maniera decisiva alla conoscenza del processo formativo della raccolta stessa. Per accedere a quest’ultima e più utile conoscenza è allora necessario partire dall’inventario per risalire attraverso un percorso a ritroso ai meccanismi costituitivi che hanno favorito la nascita e lo sviluppo della collezione. L’inventario, pertanto, deve essere integrato da altri documenti, carte contabili, corrispondenza, fonti storiche coeve, letteratura artistica, così da ottenere una panoramica complessiva sui percorsi formativi della raccolta, dalla scelta dei pezzi, al momento e alle modalità di acquisto. La presente ricerca ha sviluppato questo approccio metodologico nei precedenti quattro capitoli, secondo uno schema abbastanza preciso, considerando prima le opere richieste su commissione e poi quelle acquistate già pronte.

Alla luce dei dati raccolti un primo punto fondamentale emerge con assoluta evidenza: le opere su richiesta diretta sono in numero estremamente minore rispetto a quelle acquistate già pronte. I rappresentanti delle quattro famiglie oggetto della ricerca, nell’arco temporale considerato, preferiscono l’acquisizione di pezzi finiti, in luogo della specifica e personale richiesta. La committenza diretta viene riservata a tipologie particolari di opere, per loro intrinseca natura necessariamente vincolate al lavoro su richiesta. I cicli decorativi, ovviamente, rispondono a questo criterio, così come i ritratti, nel settore dei dipinti mobili. Rispetto a questi ultimi, sono assai rari i casi di commissioni per altri soggetti, dal momento che l’offerta di dipinti già pronti, come vedremo, era tale da incontrare anche le esigenze più particolari dei vari mecenati- acquirenti di turno.

L’impresa su commissione richiedeva generalmente una stipula contrattuale, un atto più o meno formale, che poteva tradursi in un accordo personale sottoscritto dalle parti (apoca privata) oppure in vere e proprie ‘conventiones’, patti di lavoro con obbligo di rispetto reciproco firmato di fronte ad un notaio. La differenza tra le due tipologie contrattuali risiedeva nei costi di ratifica e da questo punto di visto l’apoca risulta assai più conveniente del contratto notarile, ancorché entrambi vincolanti al rispetto degli

obblighi presi. L’efficacia legale è pressoché identica, anche se l’atto notarile sembra avesse un peso maggiore al sorgere di eventuali controversie.602

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, decorazioni ad affresco e quadri da cavalletto furono commissionati da Massimo Massimi, Giovan Angelo e Pietro Altemps, Fabrizio e Bernardino Naro, Filippo e Marcantonio V Colonna durante i primi decenni del Seicento, ad ornamento delle rispettive residenze e cappelle di famiglia. I cicli richiesti per abbellire le sale dei palazzi comprendevano le tipologie decorative allora più diffuse, paesaggi, architetture dipinte e grottesche, con la rinuncia, almeno nei casi considerati, ad episodi narrativi, di soggetto profano o sacro. Anche i fregi a battaglie dei palazzi Altemps di Roma e Gallese possono rientrare in questa tipologia decorativa a carattere puramente ornamentale, dal momento che mancano in essi precisi intenti narrativi. Il racconto storico compare, invece, nelle decorazioni per le cappelle di famiglia, dove gli elementi puramente ornamentali, ridimensionati se non esclusi del tutto, lasciano il campo alla narrazione sacra. Per la realizzazione dei cicli puramente decorativi i committenti si affidano ad esperti del genere, più o meno noti, comunque, riconosciuti come tali. Tarquinio Ligustri per i paesaggi e le architetture dipinte, Prospero Orsi per le grottesche, Vincent Adriaenssen per le battaglie, vengono opportunamente scelti a dimostrazione del fatto che, pur trattandosi di cicli puramente decorativi, vi era, tuttavia, da parte del committente una sicura e vigile attenzione alla qualità dell’opera. Pertanto, in questi casi i committenti scelgono a partire dalla notorietà degli artisti in determinati generi, formulano una selezione sulla base delle potenziali capacità messe in campo. Il percorso che conduce alla commissione passa, quindi, attraverso la pregressa affermazione dei pittori sulla scena artistica romana, come fattore discriminante nell’indirizzo della scelta. L’abilità specialistica garantita dal pittore può orientare la scelta, richiamando gli interessi specifici del committente, ma da sola non basta ad assicurare il buon esito della commissione. Perché questa si realizzi intervengono altri fattori, interni ai gruppi d’appartenenza o di riferimento di un committente piuttosto che di un altro. Gruppi familiari, sociali, politici, culturali attraverso l’espressione di interessi, finalità, ideali condivisi inevitabilmente finiscono per influenzare le scelte in campo artistico, o meglio, creare le condizioni per le scelte attuate dal singolo. Nell’ottica della genesi sociale dei comportamenti, il gusto del singolo esce ridimensionato, limitato, costretto dalle dinamiche interne al gruppo che pongono, ovvero, impongono condizioni alla scelta. Pomian ha messo in evidenza quanto determinante sia lo status sociale del collezionista rispetto all’entità dei suoi

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investimenti, la spesa per gli oggetti artistici è direttamente legata alla posizione che occupa nella gerarchia sociale: più la posizione è elevata più la costrizione alla spesa aumenta, in ragione del proprio prestigio sociale.603 Dunque, ogni scelta è subordinata a strette logiche di appartenenza (familiari, politiche, sociali), dalle quali discendono i comportamenti dei singoli. Da questo punto di vista, i quattro esempi di committenza famigliare esaminati, offrono una casistica esemplare.

I criteri adottati da Massimo Massimi nella selezione degli artisti da coinvolgere in commissioni pittoriche derivano in maniera evidente dall’appartenenza del nobile al circuito dei committenti ideologicamente vicini all’Oratorio di San Filippo Neri.

La condivisione di una medesima ‘politica culturale’ individua il gruppo di appartenenza e all’interno di questo trovano motivazione le scelte in campo artistico di ogni singolo rappresentante. Si può parlare di vero e proprio circuito, dal momento che i medesimi artisti circolano da un mecenate all’altro, realizzando opere simili, per tipologia o per contenuti iconografici. I recenti studi sul mecenatismo dei vari Mattei, Giustiniani, Crescenzi, Paravicino e Del Monte hanno evidenziato l’incisivo contributo dei comuni ideali culturali di matrice oratoriana nella formazione degli interessi e dei criteri di scelta applicati nel campo della promozione artistica.604 Con modalità analoghe si muove Massimo Massimi, tanto nella ricerca quanto nelle richieste agli artisti e le commissioni al Caravaggio, al Gobbo dei Carracci e al viterbese Ligustri, pittori attivi per le famiglie sopra citate, dimostrano tale comportamento.

Un situazione simile interessa anche le committenze di Fabrizio e Bernardino Naro. Il primo, guardiano e camerlengo dell’Ospedale del SS. Salvatore, nonché confratello della Compagnia del Rosario, tesse rapporti di lavoro con artisti legati alle due importanti istituzioni romane. Giacomo Mola, già architetto dell’Ospedale, provvide all’ampliamento primo-seicentesco di palazzo Naro in via di Monterone e il non altrimenti noto pittore fiorentino Jacomo Berni, in contatto con la confraternita del Rosario presso S. Maria sopra Minerva, decorò la cappella di famiglia nella medesima chiesa. Il contesto culturale dal quale traggono spunto le scelte artistiche di Fabrizio Naro è identificabile, quindi, nei circuiti culturali-religiosi-spirituali gravitanti intorno alle due note istituzioni romane, frequentate prevalentemente dalla più illustre nobilità romana di estrazione laica.

In seguito, dal terzo decennio del Seicento e fino alla metà del secolo i Naro parteciparono, seppur in misura minore, a quello che è stato definito il ‘sistema

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Pomian, pp. 49-55. Sull’argomento si veda anche Goldthwaite 2001, pp. 222-230.

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Cappelletti-Testa 1994; Danesi Squarzina 2001; Danesi Squarzina 2003; Wazbinski; Guerrieri 2000; Grelle 1961; Pupillo 1996.

barberiniano delle committenze’, vale a dire quel circuito esclusivo dominato dalla figura centrale del pontefice Urbano VIII entro il quale agiva un gruppo selezionato di autori per un gruppo ristretto di committenti, a vario titolo legati al papa regnante.605 Il progetto per il monumento funebre del cardinale Gregorio Naro ad opera del Bernini rientra in questo ambito e attesta la possibilità da parte del casato romano di avvalersi di artisti vincolati alla committenza papale. Un’osservazione simile può essere riservata anche al caso della commissione del quadro con la Madonna e due angeli da parte di Bernardino Naro ad Alessandro Turchi, pittore, come noto, particolarmente apprezzato dalla famiglia e dall’entourage di Urbano VIII.606 Infine, le numerose copie di quadri appartenenti alle raccolte Barberini collezionate da Bernardino e Fabrizio Naro junior, provano ulteriormente l’aderenza della famiglia a modelli culturali ed estetici, favoriti, se non imposti dalla corte pontificia, seconda una sorta di gusto riflesso, che dal centro del sistema (papa) si propaga ai satelliti più o meno distanti (familiari, prelati di curia, consorterie famigliari).

Una parte importante delle commissioni patrocinate da Giovan Angelo Altemps risente dell’affiliazione al papato Borghese, nelle persone di Paolo V e del cardinal nepote Scipione Borghese. La decorazione pittorica della villa a Montecavallo (oggi palazzo Rospigliosi-Pallavicini), venduta da Scipione a Giovan Angelo Altemps nel 1617, venne realizzata da un’unica equipe di artisti rimasta immutata anche dopo il cambio di proprietà. Dalla committenza Borghese si passa, quindi, senza soluzione di continuità a quella Altemps nei medesimi ambienti e con i medesimi artisti. Giovan Angelo decide di continuare il già avviato progetto decorativo della villa affidando l’impresa a quegli stessi pittori che avevano operato in molte committenze Borghese, da quelle pontificie a quelle private (palazzo, villa). Gli interessi economici che negli anni coinvolsero Scipione Borghese e Giovan Angelo Altemps si tradussero in un rapporto (vero o presunto) di affiliazione famigliare. Nel proprio testamento del 1620 Giovan Angelo, infatti, affida direttamente al pontefice e al cardinale ‘nepote’, la protezione del