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Studi di genetica comportamentale

5.2. Neuroscienze criminologiche

5.2.2. Studi di genetica comportamentale

Nello studio del comportamento aggressivo e criminoso la genetica molecolare sta assumendo sempre più importanza, causa, ancora una volta, delle raffinate tecniche di neuroimaging. Anche in questo settore la teoria sostenuta da alcuni consiste nella riconducibilità dell’agire criminale all’esistenza di una predisposizione genetica, con evidenti ed ovvie influenze sullo sviluppo del cervello, pure a livello morfologico.

“Allo stato attuale delle conoscenze si può affermare che non esista alcun gene in grado di causare direttamente lo sviluppo di un determinato comportamento, sia esso normale o deviante320. Non vi è, in altre parole, nessun gene causativo321 che porti a comportamenti violenti o criminali.”322.

319 Ivi, cit., pag 63. 320

Cfr. F. Casasole, Neuroscienze, genetica comportamentale e processo penale in Diritto

penale e processo, 1/2012, pag 110-117; cfr. anche Pietrini, Pellegrini, Siamo davvero liberi? Il comportamento tra geni e cervello in Sistemi intelligenti, n. 2, Agosto 2010, online

su http//:www.infinitamenteverona.it2014wp- contentuploads20140310_pellegrini.indd_.pdf.pdf

321 Sono quelli che, se presenti in forma alterata, portano inevitabilmente allo sviluppo della

patologia ad essi associata, Pellegrini, Ruolo dei fattori genetici nella modulazione del

comportamento in Manuale di neuroscienze forensi, pag 74.

322

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Bisogna capire, allora, se esistano geni di suscettibilità323 allo sviluppo di comportamenti illeciti.

Le prime ricerche324 sull’aggressività furono effettuate su topi modificati geneticamente. In essi veniva inattivato il gene MAOA, codificante per la monoammino ossidasi A, enzima responsabile del metabolismo delle catecolamine (molecole che agiscono come neurotrasmettitori). Gli animali manifestavano un comportamento molto aggressivo, che si poteva inibire riportando alla funzionalità il gene.

La svolta però avvenne con uno studio del 1993. Alcune donne olandesi imparentate tra loro, stanche della violenza e degli abusi dei loro parenti, si rivolsero a un genetista per verificare se essi non condividessero qualche tara ereditaria. Fu trovato che gli autori dei reati avevano anche difficoltà di apprendimento. Sottoposti ad esami, la conclusione fu che il loro comportamento poteva essere ricondotto alla mancata azione di un gene che essi condividevano. Gli uomini della famiglia, infatti, erano portatori di un raro allele del gene MAOA, situato sul braccio corto del cromosoma X. La sua inattività fa si che vi sia un’alta concentrazione di serotonina, dopamina, norepinefrina ed epinefrina, anomalia che può causare alterazioni strutturali e funzionali in particolare un’iperattività di amigdala e ippocampo, coinvolti come visto nella regolazione delle reazioni emozionali e un risposta diminuita delle aree corticali orbito frontali coinvolte invece nella modulazione degli impulsi.

Questo studio è stato confermato in modo più generale nel 2002325, dimostrando come per i comportamenti antisociali sembri decisiva l’interazione tra predisposizione genetica e ambiente familiare e sociale.

323 Sono quelli la cui presenza in forma alterata non significa che l’individuo in cui si trova

svilupperà necessariamente quella patologia, ma solo che avrà una probabilità maggiore rispetto ad altri, vedi L. Algeri, Neuroscienze, infermità di mente e credibilità del

dichiarante, in Diritto penale e processo, 11/2013, pag 1359.

324 Lavazza, Sammicheli, Il Delitto del cervello. La scienza tra mente e diritto, cap 3

325 Pellegrini, Ruolo dei fattori genetici nella modulazione del comportamento in Manuale di

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Ancora una volta coinvolto è il gene che codifica per l’enzima MAOA, centrale nel metabolismo della serotonina, importante neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione del tono dell’umore e nella modulazione del comportamento. Questo gene esiste in ben quattro varianti alleliche, due che comportano una maggiore espressione del gene stesso e quindi una maggior attività enzimatica e due che invece hanno una ridotta espressione e quindi che hanno una ridotta attività dell’enzima.

Gli studiosi hanno lavorato su un campione di 442 trentenni neozelandesi tratti da un campione di 103 selezionato alla nascita nella città di Dunedin per essere seguito costantemente nel suo sviluppo psicofisico. Tra i ragazzi l’8% aveva subito gravi abusi, mentre il 28% era stato sottoposto a maltrattamenti più lievi. Molti a trent’anni avevano commesso reati o manifestato condotte devianti antisociali.

Gli autori sono andati a controllare l’espressione del gene. È stato visto che la tendenza a “sviluppare comportamenti violenti è scarsa sia per gli individui che hanno un’alta attività enzimatica, sia per quelli che hanno un’attività ridotta, se l’ambiente psico-sociale in cui sono cresciuti era sano e protettivo. Se invece sono cresciuti in un ambiente malsano, che li ha esposti ad abusi e maltrattamenti fin dall’età infantile, i soggetti, con la variante del gene che codifica per l’enzima a bassa attività, mostrano una frequenza di comportamenti violenti maggiore. Costituisce, quindi, un fattore di maggiore vulnerabilità, e non un dato certo e deterministico.

Altri studi, condotti con fMRI, hanno mostrato come individui maschi con allele a bassa attività del gene MAOA hanno una riduzione del volume dell’amigdala, del cingolo anteriore e della corteccia orbitofrontale, strutture cerebrali che rivestono un ruolo importante nella risposta a stimoli emotivi e nella modulazione del comportamento aggressivo. Questo dimostra, oltretutto, la connessione tra studi sull’anatomia e la funzionalità del cervello e la genetica comportamentale.

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Molti altri studi326 sono stati effettuati con riguardo ad altri geni, su cui non ci soffermiamo. È stato riportato solo questo perché lo riprenderemo in relazione ad un caso giudiziario italiano.

Si ripropongono, a seguito delle ricerche ora esposte, gli stessi interrogtivi. Può ritenersi responsabile un soggetto che è stato determinato, tra gli altri, anche dal fattore genetico? In caso di risposta positiva, si potrebbe parlare di un’“attenuante genetica”327?

Certamente non sembra lecito pensare che una predisposizione su base genetica sia idonea ad annullare completamente la responsabilità328. Allo stato degli studi attuali non sarebbe accettabile visto che non c’è una certezza deterministica che dimostri che quel gene orienta, in maniera necessaria e sufficiente, alla commissione di reati. Però, ci sono dimostrati effetti di tipo probabilistico. Se sicuramente sono da escludere implicazioni sulla nozione di responsabilità, non è possibile fare altrimenti per il concetto di colpa e, conseguentemente, di giusta pena.

Siamo solo, però, agli “inizi di un percorso di esplorazione finalizzato a dirimere l’antica questione se colui che si macchia di reati sia da considerarsi cattivo, bad, o malato, mad.”329.

Bisogna anche considerare “che tutte le spiegazioni avanzate in chiave biologica possono illustrare la genesi dell’aggressività, che è però cosa diversa dal crimine, non solo perché esistono crimini non dovuti all’espressione dell’aggressività […], ma soprattutto perché la parola crimine non designa un fenomeno naturale, ma è una qualificazione culturalmente data un comportamento, sicché una spiegazione in chiave biologica costituisce un indebito trapasso da sfere epistemologiche diverse”330

.

326

Vedi L. de Cataldo Neuburger, La prova scientifica nel processo penale,pag 330; cfr Bianchi, Gulotta, Sartori, Manuale di neuroscienze forensi, pag 81 e ss dove in tabella si riepiloga gli studi condotti a seconda dei vari polimorfismi.

327 In tal senso vedi più accuratamente esposta nella seconda parte. 328

Cfr. Pietrini, Pellegrini, Siamo davvero liberi? Il comportamento tra geni e cervello in

Sistemi intelligenti, n. 2, Agosto 2010, loc. cit.

329 Pietrini, Rota, Il comportamento tra geni e cervello in O. Di Giovine, Diritto penale e

Neuroetica, cit., pag 26.

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L’aggressività spesso è sinonimo di violenza ed eventualmente di atto penalmente rilevante, ma non sempre è così. È più espressione di una potenzialità, biologica o psicologica, a tenere un comportamento violento.

È bene ribadire che questa è la posizione più debole di determinismo che sembrerebbe la più moderata, forse in senso compatibilista, ma anche quella sperimentalmente più attendibile, se non altro per le evidenze empiriche.

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