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La superstizione del piano

Il male della burocrazia, neH’ambiente in cui oggi deve operare l’uomo d’affari, è intimamente legato al male dell’interventismo sta­ tale nell’economia, alla superstizione che crede nelle virtù taumatur­ giche dei piani e dei programmi.

Quando un settore economico, un’industria o un’impresa più non riescono a prosperare, si pretende in mala fede — in nome di una specie di diritto divino al mantenimento dei profitti — o si crede in buona fede che basti tracciare un piano per porre rimedio ad ogni cosa, come se l’interventismo statale e burocratico riuscisse a compiere il miracolo di render produttivo chi più non lo è o mai lo è stato e soltanto in grazie ai privilegi già ottenuti in passato dal­ l’organizzazione politica è riuscito sino ad oggi a campare, sfruttan­ do i consumatori. « Siccome le donnicciuole — scriveva il Foscolo nel-l'O rtis__ ripongono la loro ventura nelle superstizioni e nei presagi », così molta gente crede oggi di poter risolvere una crisi con un Mini­ stero, un problema di costi con un Commissariato, i danni di un am­ ministrazione fallimentare con un burocrate. E si assiste allora agli interventismi che con strane bacchette magiche intendon ribassare prezzi, render fertili terreni miserrimi, arricchir di minerali pregiati pietrami sterili, far fiorire l’arancio sulle montagne e coltivare il

grano sulla rena delle spiagge. Si intende risolvere il problema del turismo, ad esempio, creando uffici stampa e centri di propaganda, e quello dell’industria delle marmellate o dell’industria meccanica con decisioni di uffici che innalzino dazi compensatori. Quando non sia disonestà, questa è superstizione che porta alla lunga a conseguenze catastrofiche, ed è pari a quella delle fattucdhiere o dei medici del me­ dioevo, 1 quali consigliavano di forar con uno spillo la statuetta di cera di un nemico o di portare al collo un ragno per guarire dell’epi­ lessia.

Sulla nostra navicella in pericolo, per l’acqua penetrante da troppe falle, non basta discorrere piacevolmente sull’opportunità di aumen­ tare la ciurma o di farle pitturare, contro i pericoli del naufragio, un paio d’occhi sulla prua, secondo un’antica credenza dei cinesi. Ed è come se, invece di turarle, si allargassero le falle, quando alla funzione regolatrice dei prezzi e della concorrenza tra i produttori si vuol sostituire nel commercio estero e interno, nell’industria e nell’agricol­

tura, il decreto delle autorità, con interventi brutali venuti dall’alto per sostituirsi al mercato. Il voler comandare all’economia e il far calzare — come generalmente fanno i regimi burocratici e interven­ tisti — chiodati stivali militaristi anche al mondo dei produttori, si­ gnifica operare assurdamente e ingiustamente, perchè stivali del ge­ nere, lungi dall’essere quelli delle sette leghe appartenenti al gatto della favola, finiscono per ridurre gli uomini a stasi improduttiva o al terrore di un immenso campo di concentramento dai due miliardi di schiavi.

Il che non significa che non si debban mai far piani e mai lo Stato debba intervenire nell’economia. Si tratta di lasciar fare a ¡tutti coloro che instaurano la concorrenza produttiva e di non lasciar fare agli altri, che tendono invece a crear monopoli. G li interventismi cui ab­ biamo invece sinora quasi sempre assistito, le discipline di varia specie cui si è preteso sottomettere l’industria si sono troppo spesso limitati a favorire il lupo del monopolio, infierendo contro 1 agnello

della concorrenza e attribuendo a quest'ultima le inevitabili conse­ guenze dei privilegi legali concessi ai monopolisti (i).

Le troppe discussioni su piani e interventismi rivestono quindi spesso il carattere inutile delle disquisizioni bizantine sul sesso degli angeli, perchè tutti un piano lo fanno, anche senza saperlo, come senza saperlo faceva della prosa Monsieur Homais del « Borghese gentiluomo » di Molière. Progressisti e conservatori, destre sinistre c centro, gruppi e singoli che intendano raggiunger qualcosa fanno sempre un piano o programma. Anche il borsanerista, quando si sve­ glia di buon mattino per tradurre in pratica l’ideale dell’ « uno bugge­ ra l’altro », come in una sua nota poesia romanesca lo definiva d Belli. L'essenziale è che i piani portino a buon fine e che gli interven­ tismi statali che ci auspichiamo per l’avvenire servano a distrugger la gramigna di tutto il malfatto dagli interventismi statali del passato, concedendo ai mercati libertà di produzione e di commerci e com­ battendo i vincolismi delle organizzazioni monopolistiche d’ogni co­ lore.

Purtroppo, invece, v ’è da constatare di continuo dhc i piani del­ l’interventismo non agiscono in tal senso. Se 1 ordine naturale delle cose dei fisiocratici del lasciar fare e del lasciar passare non era pro­ prio — come pretendeva il Siissmilch nel 1741 — « grande, perfetto e bello », e non di rado finiva per favorire lo sfruttamento del mono­ polio, si è peggiorato assai da quando i timonieri dei vari governi in­ terventisti hanno mutato la rotta e ad un forse discutibile ordine divino nell’economia naturale hanno voluto sostituire quello umano della loro pianificazione. Perchè tale pianificazione parte comunemen­ te da una situazione falsa e malata, e la prende come base per costruire diagrammi statistici che, a mezzo di comode quanto arbitrarie extra- polazioni, vi sottopongono curve eleganti, secondo le quali in un qual­ siasi anno del futuro questa o quella industria dovrebbero produrre

(1) Luigi Einaudi: Una disputa a torto dimenticata fra autarcisti e liberisti, Rivista d< Storia Fxonemica, giugno 1938.

la tal quantità, di beni, e nessuno più si domanda se la produzione nc sia economica o di che lagrime e di che sangue, di che costo e sforzo il miracolismo dei pianificatori sia destinato a far grondare la mag­ gioranza dei cittadini.

Questi pianificatori, che sarebbero i benvenuti se tagliassero i rami malati e sradicassero la gramigna, sembrano al contrario riser­ bare il massimo entusiasmo alla coltura e conservazione dei bubboni infestanti le varie economie, e allóra si deve concludere che essi, uccidendo la libertà del mercato, si rendono colpevoli di un gravis­ simo crimen lesi populi (i).

E non può non aumentare, in chi ancora non sia vittima della superstizione alla moda, il sospetto che i vari sacerdoti del piano, pervicaci nel prometter mirabilia, siano alquanto simili al Frate Ci­ polla del Boccaccio, che mostrava agli ignoranti certaldesi carboni volgari, gabellandoli per quelli della graticola di San Lorenzo.

La miglior ricetta per guarire sembra dunque consistere, non in superstiziosi fanatismi pianificatori, ma nel ritorno al regime della libera economia di mercato, perchè la storia ha sufficientemente d i­ mostrato che alla libertà, e non agli interventi o ai piani, si deve se nel volgere di un secolo il benessere popolare si è quadruplicato e se le grandi masse popolari non debbono più nutrirsi per tutto l’anno delle rape, delle castagne e della cattiva broda di pane nero di cui scriveva il Turgot nel 1770.

(i)'Bcr. prima dei fìsiocratici,. il Guicciardini si era servito di questa espressione per diten­ dere la libertà economica e l'iniziativa privata contro gli interventisti pianificatori del 1500. Egli scrisse infatti nei » Ricordi»: « Quanto un privato erra verso il principe e commette

crime» lesae majestatis, volendo fare quello che appartiene al principe, tanto erra uno principe

e commette crimen lesi populi, facendo quello che appartiene a fare al populo e a ’ privati: però merita grandissima riprensione il duca di Ferrara, facendo mercatanzie, monopoli e altre cose meccaniche che aspettano a fare a’ privati ».