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Gli sviluppi della legislazione italiana in materia di ammortizzatori sociali dagli ann

CAPITOLO 3: IL SISTEMA DI AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA E IN EUROPA

3.1 Gli sviluppi della legislazione italiana in materia di ammortizzatori sociali dagli ann

Nel corso del tempo, la legislazione italiana si è premurata di far sì che vi fosse una minimizzazione del rischio di perdita del posto di lavoro cercando di limitare le possibilità che il datore di lavoro potesse far ricorso al licenziamento; inoltre ha tentato di agevolare le opportunità occupazionali e di ricollocazione dei lavoratori. La progressiva crescita del numero di disoccupati che si è verificata dagli anni ’80 ad oggi ha imposto un cambio di rotta iniziato con le apposite proroghe alla Cassa Integrazione Guadagni degli anni settanta e ottanta per arrivare alle recenti modifiche apportate alla Nuova Assicurazione Sociale Per l’Impiego (NASPI). Questa nuova inclinazione nasce dal riconoscimento del fatto che i soggetti che escono dalla situazione di occupazione hanno poche opportunità di rientrare nel mondo del lavoro in tempi brevi, soprattutto se si tratta di individui piuttosto avanti con l’età e con un basso livello di specializzazione.

Le caratteristiche distintive della legislazione vigente in Italia al termine degli anni ’90 consistevano innanzitutto nella presenza di una copertura assicurativa obbligatoria prevista per i dipendenti privati a cui fosse venuto meno il posto di lavoro; a fronte di una certa generalità dei destinatari vi era però una contenuta difesa del reddito riconosciuto che si aggirava intorno al 30% della retribuzione fino ad allora percepita e per un tempo massimo di 180 giorni. Nel contempo era prevista una Cassa Integrazione Guadagni nel settore industriale che consisteva in una prestazione economica erogata dall’INPS a fronte del verificarsi di una sospensione o di una riduzione dell’attività lavorativa per un motivo non riconducibile alla sfera del lavoratore. La sua caratteristica principale era rappresentata dal fatto che i lavoratori erano ancora formalmente dipendenti dell’impresa per l’intera durata di percezione del sussidio, con la speranza che si tornassero a creare le condizioni ottimali per riprendere l’attività lavorativa a pieno regime.

A partire dal 1997 si guardò ad un progressivo passaggio dall’adozione di politiche passive (rappresentate ad esempio dalla Cassa Integrazione Guadagni o dai sussidi alla disoccupazione) all’adozione di politiche attive che andassero ad intaccare le cause stesse della disoccupazione. Prima fra tutte fu l’istituzione dei centri per l’impiego a cui seguì l’attivazione di corsi di formazione e di diverse forme di sostegno a favore dell’imprenditorialità.

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La politica attiva viene anche detta time consuming e mira ad impegnare l’individuo durante il periodo di inattività cosicché rimanga sempre aggiornato e non sia incentivato a svolgere una professione irregolarmente. Attraverso l’attuazione di politiche attive è possibile inoltre scongiurare il rischio che si verifichi un situazione di azzardo morale in cui il beneficiario del sussidio possa aver incentivo a prolungarne il periodo di godimento. Nell’ultimo decennio piuttosto che modificare l’importo e la durata dei sussidi si è preferito ritoccare la struttura e le forme di controllo dei diversi sistemi assicurativi. E’ stato posto maggior interesse all’incentivazione alla ricerca di una nuova occupazione del soggetto disoccupato ponendo degli obblighi in capo a quest’ultimo che, se non rispettati, potevano far venir meno il diritto all’assegnazione del beneficio. Parallelamente a questo si furono ampliate le forme di monitoraggio sull’effettiva offerta di lavoro nei diversi mercati.

Il finanziamento di questa tipologia di aiuti ha assunto un carattere sempre più assicurativo, cosicché vi fosse un effetto di maggior responsabilizzazione dell’assicurato. Per quanto riguarda il sistema degli ammortizzatori sociali per i soggetti in età lavorativa l’Italia si è spesso discostata dagli orientamenti intrapresi dagli altri Paesi Europei, nello specifico:

1) Per l’importanza attribuita a quelle forme di sussidio erogate nei confronti dei lavoratori che avevano momentaneamente sospeso la loro attività lavorativa ma risultavano ancora dipendenti dell’impresa; negli altri Stati non era prevista una ragguardevole attenzione a questa casistica;

2) Per il modico importo degli aiuti previsti nei confronti di quei soggetti il cui rapporto lavorativo fosse venuto meno per motivi diversi da una sospensione o da un licenziamento collettivo;

3) Per la richiesta di un’importante storia contributiva come prerequisito per l’ottenimento del sostegno economico quando altrove venivano adottati schemi meno vincolanti;

4) Per il limitato ammontare di risorse economiche destinate al sostegno al reddito dei disoccupati che trovava riscontro in un limitato periodo di tempo di copertura delle prestazioni assistenziali. Dalla tabella 3.1 è osservabile infatti come, in riferimento all’anno 2012, la spesa sociale pro-capite dell’Italia destinata alla lotta alla disoccupazione sia stata inferiore alla media Europea. 49

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Tabella 3.1: Spesa pro capite per la tutela dei lavoratori a fronte del fenomeno della disoccupazione , 2012.

Paesi Anno 2012 (Valori in Euro)

EU 28 389,65 Danimarca 803,77 Germania 391,88 Irlanda 1.282,67 Grecia 332,42 Spagna 783,48 Francia 607,42 Italia 241,99 Portogallo 272,01 Finlandia 748,98 Svezia 526,80 Gran Bretagna 217,25 Fonte: Eurostat, 2015.

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Dagli anni ‘90 si è cercato di dare un’impronta europea al sistema di ammortizzatori sociali italiano (europeizzazione): a causa dei stringenti vincoli a cui è sottoposta la finanza pubblica nel nostro Paese si sono voluti stabilire dei budget di spesa per queste forme di ausilio; in seconda battuta si è perseguita una politica volta ad irrobustire le forme di assistenza ai disoccupati con l’intento di prestare maggior interesse a quei contesti di indigenza a cui finora non si era posta sufficiente considerazione.

Inoltre si sono volute soddisfare le esigenze di trasformazione del mercato del lavoro che chiedeva maggiore flessibilità nell’articolazione dell’organico per effetto del verificarsi di molteplici flessioni nel fabbisogno di manodopera.

Lo sviluppo di forme di dialogo sociale, di accordi non governati a livello nazionale bensì ad un livello internazionale o transnazionale assume sempre più rilevanza in un’epoca, come quella attuale, di globalizzazione dei fenomeni economici. Quest’ultimi infatti hanno delle importanti ricadute all’interno dei sistemi assistenziali nazionali, spesso in termini di deregolamentazione e di affievolimento dei diritti e delle prerogative che gli schemi nazionali di diritto del lavoro negli anni hanno garantito, anche in tema di ammortizzatori sociali.

Diviene di considerevole importanza un ripensamento della contrattazione collettiva, che nasce originariamente come un fenomeno tipicamente localizzato in un territorio funzionale, ma che oggigiorno, per effetto della dimensione sempre più multinazionale degli attori economici, necessita di essere inserita in un contesto internazionale o transnazionale.

La facilità nella mobilità dei capitali che porta alla realizzazione di delocalizzazioni produttive da parte delle imprese, richiama la necessità di strumenti uniformati sempre più su scala globale. Il comportamento spesso opportunistico delle imprese, che sfruttano le differenze di standard regolativi cercando i sistemi normativi più convenienti in termini di locazione produttiva, traendo profitto da questi meccanismi di low shopping, ci porta a sentire la necessità che si stipulino accordi non solo all’interno di un confine territoriale o di una categoria di imprese, ma piuttosto su uno scacchiere più ampio (sovranazionale). Le difficoltà dello sviluppo di una contrattazione collettiva transnazionale sono notevoli: per esempio a livello europeo, pur considerando l’Europa come un modello avanzato e innovativo in termini di promozione dei diritti sociali e di impulso del dialogo sociale rispetto ad altre macro regioni economiche, non ci si è ancora dotati di una cornice normativa adeguata per sviluppare un modello di contrattazione collettiva transnazionale. La mancanza di questa contrattazione collettiva a livello europeo è dovuta essenzialmente a 2 motivi: per una ragione di natura politica interna in quanto al giorno d’oggi le organizzazioni sindacali si sentono più vicine ai bisogni locali, sul piano regionale, piuttosto che internazionale e per una mancanza di capacità umane e finanziarie.

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A livello europeo c’è comunque la volontà di creare una nuova direttiva che mira a raccogliere i contenuti degli accordi quadro europei. Questa manovra implicherebbe dei vantaggi come un rafforzamento del potere contrattuale dei rappresentanti dei lavoratori che si seggono al tavolo della trattativa con i rappresentanti dei datori di lavoro. Và sottolineato infatti che nel tempo, e soprattutto nel nostro Paese, la posizione dei sindacati dei lavoratori si è indebolita, in primis per una eccessiva frammentazione di ideali al loro interno.

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