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Sviluppo della bioetica, etica morale e cultura

La visione del fenomeno eutanasico dal punto di vista etico-morale si informa su una serie di valori attorno alla vita che, traendo la loro origine da un contesto prettamente storico-religioso, in via di principio sono volti alla sua promozione e alla valorizzazione del suo significato.

Con il trascorrere degli anni però e in virtù dei cambiamenti sociali e scientifici incorsi, tale visione consolidata nel tempo è stata messa in discussione generando tutta una serie di problemi morali nella compagine odierna.

L’etica infatti risulta fortemente collegata alla tematica relativa alla fase finale della vita e questo in relazione a due importanti rilievi: il primo è che in tema di fine vita le molteplici possibilità di intervento determinano altrettante possibilità di scelta, dipendenti a loro volta da diversi fattori di importanza morale; il secondo rilievo riguarda la medicina moderna e il progressivo potere acquisito di controllo sulla morte, discendendo da decisioni che non incidono solo sul quando ma anche sul come concludere la propria esistenza29.

I successi medico-scientifici e tecnici, come si vedrà, compiuti col tempo si sono via via accresciuti e hanno espanso il proprio raggio di azione: hanno reso possibile all’uomo di disporre di risorse terapeutiche maggiormente efficaci contro le malattie e di consentire al paziente di decidere del proprio destino in maniera sempre più informata e consapevole, accettando rischi e scontrandosi a volte con valori e diritti personalissimi.

29 Patrizia BORSELLINO, Le questioni etiche del fine vita, in CEF – Comitato per l’Etica di Fine Vita, 01 gennaio 2010, p.1.

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Le moderne società occidentali, soprattutto nella seconda metà del ventesimo secolo, si sono rese responsabili e al tempo stesso testimoni della trasformazione del modo di affrontare la tematica dell’eutanasia, questo a conseguenza dei profondi cambiamenti verificatisi nelle condizioni del fine vita degli esseri umani.

Da un lato il miglioramento della qualità di vita nelle avanzate società industriali che ha portato un prolungamento della vita media ma al contempo un’estensione del periodo di senilità individuale, consolidando la tendenza a trascorrere la conclusione naturale della vita per invecchiamento in strutture ospedaliere, anche attraverso lunghi periodi di degenza in ospizi e con una sopravvivenza in fase terminale spesso garantita artificialmente30.

Dall’altro lato, queste condizioni sociali del morire si sono combinate con la mutazione avvenuta a causa dei progressi della medicina, grazie a una strumentazione sempre più potente e perfezionata, in grado di mantenere in vita attraverso l’ausilio di macchinari il soggetto morente31.

Così gli esseri umani possono essere fatti sopravvivere anche di fronte a profonde e irreversibili alterazioni delle proprie funzioni biologiche essenziali, quasi sempre correlate ad un deterioramento significativo della propria qualità di vita e di convivenza, anche per lungo tempo, con stati di sofferenza cronicizzati, alle volte riguardanti soggetti privi parzialmente o completamente di autonomia e di coscienza.

In tale contesto si inseriscono dunque le questioni etiche del fine vita, e quindi i problemi di scelta che hanno catturato l’attenzione non solo dei bioeticisti, dei giuristi e degli esercenti professioni sanitarie, ma anche del pubblico.

Tentando di individuare il quadro normativo di riferimento per fornire soluzioni a tali problemi si deve considerare certamente il diritto, come i princìpi della Costituzione, ma anche i codici di deontologia degli operatori sanitari, che

30 Eugenio LECALDANO, Enciclopedia delle Scienze Sociali, Enciclopedia Treccani, versione online, 1993.

31 Ibidem.

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fanno emergere potenziali risposte circa due tipologie di istanze, di autonomia e di umanizzazione32.

Le prime riguardano l’importanza del principio di volontarietà e di autonomia appunto per quanto concerne le cure, più o meno invasive: negli ultimi decenni infatti diverse attività umane essenziali, come quella cardiaca o respiratoria, oppure l’alimentazione e l’idratazione, hanno subìto una compensazione artificiale in cui anche per lunghi periodi di tempo le macchine sono chiamate a supplire a funzioni naturali umane, operando in luogo della persona stessa.

Le seconde invece, quelle di umanizzazione, chiamano moralmente il personale medico-sanitario ad assolvere il dovere di sollevare i malati ormai prossimi alla conclusione della vita dal dolore, migliorandone la qualità della vita in tutti i modi possibili, non essendo più l’obiettivo l’impedire la morte, in assenza di margini di guarigione, ma di garantirne il benessere a tutto campo.

Le riflessioni appena svolte e la metamorfosi in senso democratico dell'etica nelle società progredite oggigiorno impongono sicuramente una riconsiderazione anche delle questioni collegate al problema morale della liceità o meno del fenomeno della buona morte. In questo senso, a partire dagli anni settanta del secolo scorso le problematiche relative all’eutanasia, tra le altre questioni morali legate all’avanzamento medico e scientifico, sono divenute oggetto di interesse e di riconsiderazione da parte della bioetica, disciplina che si occupa della riflessione sui nuovi problemi etici o sul nuovo modo di presentarsi di vecchi problemi, derivanti dalle recenti acquisizioni in campo medico e biologico.

Come detto, il miglioramento delle condizioni di vita e della qualità dell’assistenza sanitaria hanno prodotto come risultato un progressivo allungamento della vita media e dell’invecchiamento; conseguentemente va fatta una riflessione sul confine dei poteri della medicina moderna e dei suoi confini che, nonostante i risultati ottenuti, è tutt’altro che infallibile, anzi in

32 Patrizia BORSELLINO, Le questioni etiche del fine vita, cit., p. 3.

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determinate situazioni è costretta alla resa e alla ammissione della propria impotenza.

La medicina moderna dunque non è mai stata chiamata come ora a compiere una serie di ragionamenti, di dimensione etica, sui limiti da porre alle cure che può offrire ai malati, tra questi anche quelli terminali; i suoi nuovi poteri si contraddistinguono infatti per la profondità e la forza dell’intervento sulla vita, in zone un tempo inaccessibili all’intervento umano e che toccano il valore simbolico dei momenti principali della vita33.

Punto di partenza di una riflessione morale è certamente il concetto di persona e del suo significato anche alla luce delle ripercussioni che lo sviluppo della ricerca farmacologica, biotecnologica e clinica, ha su questa e sullo stato di malattia avanzata o di terminalità che la pervade, spesso legati a processi artificialmente e dolorosamente prolungati nel tempo.

In questo senso viene in aiuto l’articolo 1 della Carta dei diritti dei morenti che contempla il “[…] diritto di chi sta per morire a essere considerato persona sino alla morte […]”: nel caso di persona avviata alla fine della vita sarà dunque necessario prenderla in carico e assumere una certa responsabilità nei suoi confronti, garantendo una risposta globale riguardo i suoi bisogni fisici, psicologici, sociali e della relazione di aiuto, senza allontanarla dalle regole e dai princìpi di cui la vita individuale è informata34.

Da qui sorgono i problemi, tanto a livello generale-sociale quanto a livello strettamente clinico, in ordine alla appropriatezza terapeutica, al fenomeno dell’accanimento terapeutico e alle cure che possono risultare sproporzionate rispetto agli obiettivi da raggiungere a seconda della situazione concreta.

È inevitabile compiere una serie di considerazioni per risolvere gli interrogativi legati al tema. Innanzitutto, si deve riflettere sul fatto che l’evoluzione scientifica imponga appunto un continuo riesame attorno a princìpi etici,

33 Corrado VIAFORA, Introduzione, in C. VIAFORA, Quando morire? Bioetica e diritto nel dibattito sull’eutanasia, Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1996, p. 22.

34 Art. 1, Carta dei diritti dei morenti, in CEF – Comitato per l’Etica di Fine Vita, 1999.

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dovuto alla ridefinizione e al superamento dei limiti biologici già presentato;

riguardo ai malati terminali, c’è da interrogarsi su cosa sia bene e giusto fare nei loro confronti; da ultimo, l’esito del ripensamento di questi princìpi, sul fare o non-fare, dovrebbe trovare una riformulazione chiara e positivizzata, in modo che non provochi incertezza.

Ai quesiti in esame purtroppo non è garantita ancora una risposta univoca; il dibattito è ancora ampio e sembra che prevalgano valutazioni soggettive e personali, anche influenzate dalle opinioni o dall’orientamento personale, nonché religioso delle persone.

Si deve altresì aggiungere che il ruolo dell’etica rispetto al fine vita e alle nuove condizioni del morire, il comportamento che i sanitari dovrebbero seguire nei confronti dei malati sarebbero da far rientrare nella sfera di intervento puntuale da parte del legislatore.

Una certa parte di analisi è certo costantemente svolta dalla bioetica che, con i suoi caratteri di multiculturalità e pluralismo, cerca di comprendere le questioni morali originate dai mutamenti che la medicina ha creato circa la malattia, il dolore e le fasi della vita, nascita e morte, che fanno parte della vita stessa e connaturati biologicamente all’essere umano e alla sua natura.

In termini bioetici, in tali situazioni non si può più parlare di malati ma di morenti, ossia di esseri umani che stanno concludendo il proprio ciclo vitale ma non più in modo puntuale e naturale, ma dilatato in un arco temporale non ben definito legato a supporti della medicina tecnologizzata.

Allora, si può in un contesto simile parlare di un diritto morale a morire? La dignità personale può rappresentare il peculiare e soggettivo paradigma per valutare la coscienza e la concezione di vita di ciascuno?

Una prima analisi sulle scelte pertinenti al fine vita è quella da realizzare circa la trasformazione della terapia in cura, come liberazione dal dolore e dalle sofferenze per i soggetti ormai privi di speranza di guarigione e accompagnamento sereno e dignitoso alla conclusione dell’esistenza, anche

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nel senso di limitazione terapeutica, non come atto rientrante nelle condotte eutanasiche attive o passive, ma come atto eticamente doveroso.

Si può dire che la distinzione tra le due tipologie di pratica medica sta nel fatto che la cura è un intervento che non è finalizzata a impedire o a prevenire processi patologici ma solamente a soddisfare bisogni fisiologici più o meno basilari e comuni anche a soggetti perfettamente sani, mentre la terapia comprende trattamenti che sono volti a impedire o prevenire fenomeni che si classificano come malattie; nella prima rientra il prendersi cura, nella seconda il curare35.

L’obiettivo morale può dirsi sia quello di migliorare la qualità della vita del paziente con una duplice azione: da una parte si opera sulla sua dimensione strettamente biologica, per alleviarne i sintomi, dall’altra su quella extra-biologica, coinvolgendo aspetti psicologici, spirituali, sociali, e di sostegno alla famiglia36.

Per quanto riguarda invece l’analisi pertinente al dolore, inteso come principale nemico da combattere, anche questo deve essere preso in carico dall’altro in un gesto etico manifestando così tutte le potenzialità di questa operazione di umanizzazione37.

Ritornando ora ai poteri di intervento sulla vita, il dibattito gravita attorno ai diversi sistemi di valori nelle questioni di vita e al rapporto tra ordine etico ed ordine giuridico; tradizionalmente a livello sociale e culturale esistono diversi modelli38.

Il primo modello si può individuare nel liberismo, secondo cui la libertà non è da intendersi in senso generico ma si identifica con quella individuale, che si

35 Ignazio SCHINELLA, Accanimento e abbandono: una lettura teologica, in L. CHIEFFI, A.

POSTIGLIOLA, Bioetica e cura: l’alleanza terapeutica oggi, Mimesis, Milano, 2014, p. 215.

36 Fabio PERSANO, Cure palliative in Italia tra etica e diritto, Edizioni Cantagalli, Siena, 2015, p. 71.

37 Emilia D’ANTUONO, Dolore evitabile ed inevitabile, in L. CHIEFFI, A. POSTIGLIOLA, Bioetica e cura: l’alleanza terapeutica oggi, Mimesis, Milano, 2014, p. 242.

38 Ferrando MANTOVANI, voce Eutanasia, in Digesto delle discipline penalistiche, UTET Giuridica, Torino, 1990, pp. 424 e segg.

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esprime come valore assoluto: ogni persona può ricorrere come meglio crede, liberamente e consapevolmente, alle risorse che ha a propria disposizione con il limite di non ledere la libertà e i diritti altrui, il resto è lecito, anche l’eutanasia, intesa come libera scelta del malato.

Il secondo è quello sociologico-utilitarista, in cui il valore della collettività, e quindi della società, prevale su quello della singola persona, che è utilizzabile come strumento per fini che esulano dalla sua persona: l’essere umano è disponibile e una scelta circa il fine vita sarà accettabile e ritenuta moralmente lecita se promossa in base all’utilità collettiva. Corollario della presente teoria è quello della disponibilità della vita, in un’ottica in cui bene personale e bene comune collimano, senza scontrarsi.

Nel terzo modello, quello scientista-tecnologico, l’uomo è considerato, per sua propria natura, capace di intervenire e modificare la realtà, compresa la vita stessa: in quest’ottica però sarà lecito solamente ciò deriverà da una spiegazione razionale.

Da ultimo il modello personalista: l’essere umano incarna con la sua essenza un valore etico intangibile: esso non può essere usato per finalità estranee ed esterne a se stesso ma sarà a tutti gli effetti padrone di sé e delle proprie scelte, da rispettare e sostenere; quest’ultima teoria ha come corollario il principio di indisponibilità dell’essere umano, principio che crea una distinzione tra disponibilità manu propria, ossia disponibilità del corpo attraverso una azione propria, e disponibilità manu alius, disponibilità del proprio corpo attraverso un’altrui azione39.

La prima è giuridicamente lecita e tollerata, dato che addirittura secondo alcuni

“l’esistenza del diritto al suicidio” potrebbe “essere affermata quale diritto inviolabile […] concesso”, mentre la seconda è giuridicamente illecita indipendentemente dalla manifestazione del proprio consenso40.

39 Ibidem, p. 425.

40 Luigi STORTONI, Riflessioni in tema di eutanasia, in S. CANESTRARI, G. CIMBALO, G.

PAPPALARDO, Eutanasia e Diritto: confronto tra discipline, Giappichelli, Torino, 2003, p. 89.

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Questo assunto anche alla luce degli articoli 13 e 32 della Costituzione sulla libertà individuale di curarsi o meno, che non promuovono certo il diritto al suicidio ma l’incoercibilità di disporre del bene vita; lo Stato deve così rendersi neutrale verso le scelte dell’individuo verso se stesso, specialmente per quello che riguarda le scelte di fine vita. La libertà di scelta e decisione è tutelata ma non vi è riconoscimento del suicidio come valore, esso è solamente un comportamento giuridicamente tutelato.

La volontà personale di morire non si può ridurre ad un grido di solitudine che sottende una richiesta di aiuto e di solidarietà che può essere soddisfatta con una maggiore vicinanza al malato o all’anziano da parte di parenti e medici41. La questione è indubbiamente più ampia; l’approccio laico al diritto è “il problema è come elaborare un’etica del diritto che possa ricomprendere con autorità razionale le più diverse concezioni morali, il cui contenuto può definirsi solo negativamente, e cioè per una morale che non abbia come contenuto l’oppressione delle altre”42.

Bisogna, come visto, operare una netta distinzione tra due fenomenologie che hanno natura e caratteri diversi: l’uccisione di un terzo e l’autouccisione o scelta di morte, escludendo una eguale disciplina per le due figure.

In questo senso, il fondamento giuridico dell’autouccisione/sceltadimorte, legato al riconoscimento del diritto a morire e a darsi la morte non ha nulla a che vedere con la natura disponibile o meno del bene vita, che riguarda solo il consenso alle eteroaggressioni; l’importanza del bene vita deve essere direttamente proporzionale alla sua autodisponibilità, richiamando i valori di democrazia e di uno Stato di diritto, mentre indisponibilità è propria di uno Stato autoritario e di un certo orientamento etico.

41 Ibidem, pp. 85-94.

42 Maria Beatrice MAGRO, Etica laica e tutela della vita umana: riflessioni sul principio di laicità in diritto penale, in Riv. It. Dir. E Proc. Pen., 1994, p.1422.

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Secondo questa corrente di pensiero, tanto il suicidio quanto l’aiuto al suicidio, sarebbero assolutamente leciti, quali condotte una non perseguibile e l’altra di agevolazione alla realizzazione di un atto lecito43.

Arrivati a questo punto della riflessione, la domanda da porsi ora è: in che modo cagionare la morte può rispondere ad una ricerca della qualità della vita?

Partendo dal presupposto che ogni vita è degna di essere vissuta, per evitare che il malato sia costretto a chiedere di porre fine alla propria vita attraverso qualche forma di eutanasia o di suicidio assistito, esso deve essere accompagnato in questo cammino verso la conclusione, anche attraverso l’uso di palliativi.

Vi sono due posizioni per intendere il rapporto tra eutanasia e strade diverse:

una pro-eutanasica che considera la morte anche nel suo dovere pubblico di accondiscendere qualunque scelta, permettendo anche il diritto a provocare una morte indolore tramite legalizzazione dell’eutanasia.

Si contrappone la posizione anti-eutanasica, che rispetta sì la morte ma allude al fatto che vi sia un dovere personale al rispetto della propria e dell’altrui morte e al dovere pubblico di riconoscere al morente una morte sopportabile: non si parla qui di eutanasia ma di una eubiosia, una vita serena e tranquilla, nel rispetto della dignità del malato terminale44.

In questo bisogna dare dignità ai malati a tutti gli stadi secondo scienza e coscienza anche laddove ormai non sia più possibile guarire.

Procedendo nell’analisi, dopo il concetto di cura e di dolore, diventa ora centrale un altro elemento imprescindibile in tema di fine vita, quello della dignità personale che attiene alle modalità di porre fine alla propria esistenza.

In tema di dignità non vi sono opinioni condivise: alcuni ritengono che il concetto di dignità umana sia un dato connotato ontologicamente alla natura dell’uomo e quindi su di essa non posso incidere le scelte proprie o altrui; per

43 Luigi STORTONI, Riflessioni in tema di eutanasia, in S. CANESTRARI, G. CIMBALO, G.

PAPPALARDO, op. cit., p. 88.

44 Fabio PERSANO, op. cit., pp. 66-67.

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altri invece la dignità dipende strettamente dalla libertà personale, anche di prendere decisioni sui confini della propria dignità in virtù della propria condizione di uomini liberi45.

In senso tradizionale, il diritto a morire con dignità può avere due significati:

può significare tanto il diritto a scegliere quando morire o può coincidere con il diritto alla corretta assistenza; o è espressione spesso invocata a sostegno della legittimità dell’eutanasia, oppure ha il significato di diritto di ciascuno a terminare la propria vita in modo sereno, circondato dalle persone congiunte, quando arrivi la propria ora46.

Da qui prende le mosse la classica contrapposizione tra bioetica della qualità della vita ed etica della sacralità della vita.

Quest’ultima posizione sostiene che per dare un chiaro rifiuto all’eutanasia si debba fornire al malato terminale un aiuto nel morire, non un aiuto a morire: il malato terminale è soggetto in condizione sfavorevole dal punto di vista fisico e psichico che sicuramente considererà la qualità della propria vita con criteri diversi da quelli generale: questo non esclude che la vita umana possieda in ogni suo istante un valore immenso, anche conducendo il malato in modo continuo ed adeguato ad una liberazione dalla sofferenza fisica, emotiva, psicologica e spirituale

La bioetica della qualità della vita invece avalla la convinzione che il malato si liberi dal dolore attraverso l’eutanasia attiva e indirizzata alla realizzazione di questo preciso problema, riconferendogli la dignità perduta.

Per trovare un punto di incontro occorre una ridefinizione del concetto di dignità alla fine della vita: prima di tutto bisogna evitare l’abbandono del malato in un’ottica di inversione di obiettivo della medicina, non di guarigione ma di

45 Patrizia BORSELLINO, “Dignità”: un concetto utilizzabile alla fine della vita?, in CEF – Comitato per l’Etica di Fine Vita, 01 gennaio 2007, p. 2.

46 Fabio PERSANO, op. cit., pp. 57, 58.

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alleviamento delle sofferenze che genera la malattia, ossia “curare quando non si può guarire”47.

La seconda condizione da soddisfare è impedire ogni forma di mortificazione nei confronti di chi stia morendo che, essendo considerato persona fino alla fine, deve essere ascoltato e devono essere accolte le sue richieste, senza determinarne la morte civile prima che si realizzi la morte sociale.

Dopo questa indagine sul piano metagiuridico e sulla base dell’assetto valoriale e culturale delineato, tornando al tema eutanasia, si può stabilire se questa sia contraria all’ordinamento o diritto inviolabile dell’uomo?

La contesa dottrinale, filosofica politica non è ancora riuscita a prendere una posizione etica netta sul tema.

La concezione che sembra più giusto abbracciare è quella fondata sui princìpi di autonomia personale e vita dignitosa.

Secondo tale approccio liberalista, ciascuno possiede in capo a sé il diritto di scegliere il proprio stile di vita, che a sua volta diventa strumento interpretativo necessario per definire il secondo concetto, ossia la dignità personale, intesa

Secondo tale approccio liberalista, ciascuno possiede in capo a sé il diritto di scegliere il proprio stile di vita, che a sua volta diventa strumento interpretativo necessario per definire il secondo concetto, ossia la dignità personale, intesa