Alla ricerca di un nuovo canone estetico
6. T RA PERFORMANCE E RECORDING
La rilevanza del dibattito è tale che anche Theodore Gracyk, già intervenuto con un importante saggio sulla questione dei fondamenti estetici della musica popolare (1992) ne rende conto nel volume Rhythm
and Noise: An Aesthetics of Rock (1996), in cui emerge compiutamente la
tensione tra “autenticità” e “inautenticità”, tra “arte” e “mercificazione”, che caratterizza lo sviluppo della musica rock. Graczyk concorda con la tesi che i criteri dell’estetica tradizionale non sono i più appropriati per comprendere la musica rock, visto che solitamente presuppongono una visione delle opere d’arte come trascendenti e immutabili, trascurando quindi il contesto sociale di origine e recezione del nuovo genere musi- cale. Ricostruendo il processo di genesi e sviluppo del rock, come un oggetto culturale, dai brani di Elvis Presley (1954) sino alle opere dei Nirvana di Kurt Cobain (1994), Graczyk ritiene che la “registrazione” è l’obiettivo estetico principale: il rock è una tradizione di musica popolare che è stata creata e diffusa attraverso i centri di tecnologia di registrazione (1996, 1). Anche se il jazz e altre musiche folk esistono sui record, per la maggior parte, si tratta di composizioni nate e sviluppate nelle esibizioni live, mentre, per il rock, sin dalle prime apparizioni, il medium è il disco e «la tecnologia esiste come un elemento della musica stessa» (Ivi, 37).
La tesi ontologica che Graczyk sviluppa nella prima parte del suo libro è che il lavoro artistico principale nella musica rock non è una ‘thin’
sound structure costruito nei diversi spettacoli, come accade nella musica
una registrazione e correttamente costruita attraverso la riproduzione di una copia della registrazione. Graczyk non trascura affatto il ruolo degli spettacoli dal vivo nella musica rock2; tuttavia, contrariamente a Baugh, non ritiene che la performance sia l’aspetto preminente, data la rilevanza delle “tracce” registrate3. Graczyk preciserà tale aspetto, in un saggio successivo, in cui scriverà che, certo, i musicisti più popolari ricavano una parte significativa del loro reddito dagli spettacoli dal vivo, così come i fan più accaniti seguono gli artisti preferiti da uno spettacolo all’altro nel circuito dei concerti, pagando persino prezzi esorbitanti per assicurarsi i primi posti. Tuttavia, il pubblico generalmente trascorre più tempo nel- l’ascolto della musica registrata rispetto alla musica dal vivo e l’industria discografica investe e prospera soprattutto con le registrazioni (2008).
Al di là di ogni giudizio estetico, secondo Graczyk, è il rapporto tra le registrazioni originali e le copie prodotte che definisce l’autenticità della musica rock: «The aesthetic value of popular music (or rock in specific) hinges on the objectivity of its artistic products: original recordings that are distributed as legitimate copies of singles and albums. Let us call this kind of an art-work-original ‘a mix’ that it is produced in the mixing process of the final recording. From this standpoint, the status of popular music as a distinct art form is dependent on the status of ‘a mix’ as the original type that determines its copies as tokens: that is, as an ontological general category that determines its concrete instances» (1996, 96). Comparando gli stili sonori con quelli di altri generi musicali, il libro esamina le registrazioni più importanti della musica rock, documentando le testimonianze dei musicisti e dei maggiori critici. Ciò è particolarmente interessante perché il processo produttivo raramente è reso pubblico e sono assai rare persino le fotografie scattate negli studi di registrazione.
Gracyk riprende poi il tema già esaminato nel saggio Romanticizing
Rock Music (1993), in cui aveva dimostrato l’inadeguatezza del modello
interpretativo che riconduce la musica rock all’estetica romantica, come sostenuto dalla storica sociale americana Camille Paglia (1992). Secondo Gracyk, invece, la musica rock non deve essere equiparata a nessuna delle
2 La critica gli venne mossa da Stephen Davies, secondo cui Graczyk ignora o sminuisce
l’importanza delle performance dal vivo, come prova il fatto che «more groups play rock music than ever are recorded; almost every recorded group began as a garage band that relied on live gigs; almost every famous recording artist is also an accomplished stage performer; [and] although record producers are quite rightly acknowledged for the importance of their contribution, they are not usually identified as members of the band» (2001, 32).
3 L’anno seguente, in Listening to Music (1997), Gracyk affermava che i musicisti sfrut-
tano i vantaggi della tecnologia di registrazione, ma ci si aspetta che siano in grado di suonare dal vivo i brani come nei dischi. In ogni modo, l’esperienza di ascolto della musica registrata non è una perdita estetica rispetto all’ascolto della stessa musica in performance dal vivo.
forme artistiche, bensì documentata nel percorso che dalle prime espressioni informali, che affascinarono tanti giovani americani negli anni ‘50, l’ha portata, nel decennio dopo, ad essere un fenomeno di enorme successo mondiale, con importanti risvolti culturali e commerciali. In questo processo non vi è alcuna perdita di autenticità, come ritiene Paglia. Anche l’altro tentativo di individuare l’autenticità della musica rock nella sua relazione con la cultura popolare, da cui la crisi dovuta alla sperimentazione – questo è l’argomento esposto da Cohn e Belz nelle loro storie del rock –, secondo Gracyk, non è convincente perché è tutto da dimostrare che i musicisti rock abbiano cominciato a parlare a se stessi invece di parlare per loro pubblico (1996, 188). Per contro, egli ritiene che il concetto di autenticità nel rock sia interrelato con lo spirito libertario che attraversa gran parte delle sue espressioni musicali e non (Ivi, 221-223). Il rock sarebbe caratterizzato, almeno nell’immaginario collettivo, da una “sensibilità dionisiaca”, ossia un temperamento selvaggio e ribelle che cerca di resistere, trasgredire e sovvertire le norme sociali, come fosse un “marchio di successo” (Ivi, 183).
Il tema dei contenuti valoriali veicolati dal rock e della sua “identità politica” torna nel volume I Wanna Be Me: Rock Music and the Politics
of Identity (2001), con cui Gracyk, dopo aver svolto un vasto resoconto di
come la popolare esprime significati e valori culturali, in un mercato di massa che incoraggia l’ascolto decontestualizzato e la riappropriazione, confuta la rappresentazione del rock come intriso di razzismo (accusa, a cui è dedicata la terza parte del volume) e sessismo (esaminato nella seconda parte). Graczyk si impegna in un progetto di demistificazione molto dibattuto negli USA (Lynn Stoever, 2004), cercando di ribaltare una reputazione negativa e posizionare il rock al centro di una cultura che valorizza la libertà. In questo studio, egli rivede anche sue precedenti tesi sulla rilevanza dei testi nella musica rock. Infatti, se nel saggio precedente egli aveva scritto che «Per essere franchi, nella musica rock i più testi non contano molto» (Graczyk, 1996, 65), adesso, soffermandosi sulle forme con cui le persone utilizzano i brani rock per costruire la loro identità, assume seppur implicitamente che i testi sono una parte importante.
Nel solco delle tesi proposte da Gracyk si colloca Andrew Kania, il quale sviluppa le riflessioni sull’appropriazione attraverso l’analisi dei testi e delle pratiche musicali dei Rolling Stones, Paul Simon, George Harrison, David Bowie, Sex Pistols, Velvet Underground, Nirvana e molti altri artisti (2005). E l’anno seguente, egli riepiloga il dibattito con Davies sull’ontologia della musica registrata e approfondisce il rapporto tra il pubblico della musica rock e la sua fruizione, definendo i brani rock come ontologicamente “opere-per-la riproduzione” (2006). Contrariamente a
quanto affermava Davis, Kania ritiene che il pubblico sia in grado di cogliere, non solo la qualità delle performance dal vivo di una canzone, valutando criticamente tra le diverse interpretazioni, ma anche le diffe- renze tra le performance e le registrazioni, le quali ha delle specifiche proprietà sonore, che non appartengono alle performance. Ad esempio, le versioni “cover” o rifacimenti sono discussi e valutati in riferimento alle qualità delle registrazioni precedenti, e non semplicemente come nuove registrazioni di canzoni già conosciute. Elevare le tracce registrate allo status di vere e proprie opere musicali implica che i produttori discografici e tecnici del suono sono importanti quanto cantautori e interpreti; e ciò può comportare anche dei problemi di attribuzioni di paternità.
Kania e Gracyk scrissero a quattro mani un saggio che sviluppa il confronto tra performance e registrazione, indagando le rispettive carat- teristiche distintive e la natura delle loro relazioni 2011). I due studiosi partono dalla considerazione che oggi la più comune esperienza musicale, nella maggior parte del mondo, è quella dell’ascolto di una registrazione. È una novità significativa se si considera che per molti secoli la musica è stata vissuta solo dal vivo, dal momento che la tecnologia di registrazione non esisteva. Ed è anche per tale ragione che gran parte della filosofia della musica è radicata nell’idea che la musica è una performance art e quella soprattutto va valutata (Ivi, 80). Un pubblico reale è una condizione necessaria dall’esistenza di una performance, che è sempre un fatto essen- zialmente comunicativo tra il pubblico e il performer, che volutamente si esibisce con l’intenzione di riprodurre della musica sia che si tratti di esecuzioni di composizioni sia che si tratti di libere improvvisazioni (Ivi, 81). Riguardo ai criteri di valutazione, alcuni sembrano applicabili a qualsiasi tipo di performance, quali il suono degli strumenti o il canto le melodie e armonie, e altri elementi che vengono valutati nel contesto del genere di musica che stiamo ascoltando. Altri criteri dipendono dal tipo di
performance. Così, ad esempio, nel valutare l’improvvisazione consi-
deriamo i rischi che corre il musicista, mentre nel giudicare l’esecuzione di una composizione sarà importante la fedeltà alla partitura, pur apprez- zando le capacità interpretative. Nella valutazione un ruolo importante lo svolge anche il tipo di pubblico presente: «A good performance for a first- time listener, for instance, may emphasize broad structural and expressive elements of the piece, while a good performance for a seasoned listener may emphasize the role of a particular motif that should not be foregrounded for a first-time listener. There are, of course, illegitimate perspectives, such as that of the mono-maniacal percussionist who values the loudness of the cymbals over all else. And there may be some difficult cases. [...] But there will doubtless be cases that fall in a hazy border
between the legitimate and illegitimate. The variety of legitimate perspectives arises precisely because the kinds of musical works we have been considering are intended for multiple performances» (Ivi, 83).
In merito alle registrazioni, Kania e Gracyk ribadiscono che, sino ai primi anni Novanta, gli studiosi hanno dato per scontato che l’ascolto di musica registrata costituisse l’ascolto di musica in quanto tale, senza soffermarsi a discutere se la risposta del pubblico fosse diversa perché registrata. Per contro, occorre considerare due aspetti. Anzitutto, con l’avvento della musica elettronica alcune opere dipendono dalla tecno- logia e dalla riproduzione della registrazione. Non ci sono performance: come scrive Davies, esse sono opere-per-la-riproduzione. Tali “manufatti di registrazione” dovrebbero essere distinti da altri due: le registrazioni di esecuzioni di particolari performance di opere musicali, e le registrazioni di composizioni, che si costruiscono negli studi, spesso con l’impiego di effetti sonori irriproducibili dal vivo: «Thus, two different recordings of Glenn Gould’s interpretation on ships to Bach’s music and thus have different ontological status of Bach’s Goldberg Variations possess distinct functional relatio: Gould’s 1981 studio sessions and his 1959 Salzburg live performance furnished a recording of a composition and recording of a performance, respectively. More listening does not necessarily reveal the appropriate category. The functional relationship to perfor- mance practice, rather than the kind of musical work that is presented, determines which kind of recording presents the music» (Ivi, 85).
Graczyk e Kania ritengono, quindi, che le registrazioni in studio e di spettacoli impegnano gli ascoltatori con due tipi distinti di opere musicali. In secondo luogo, vi è la preoccupazione che tanta parte della cultura musicale, ormai, prenda unicamente la forma dell’ascolto di registrazioni. Se Davies (2001) temeva che una musica centrata sulla registrazione potesse desensibilizzare gli ascoltatori gli aspetti interattivi e performativi della musica dal vivo, i due studiosi sono convinti che tali preoccupazioni siano parzialmente mitigate dalla consapevolezza che il pubblico ha una chiara comprensione che si tratta di forme che promuovono valori diversi e rispondono a differenti funzionalità: «Musical performances and recordings are all alike in being essentially aimed at providing listeners with musical experiences. But this broad commonality masks a host of differences both between and within each category. Musical perfor- mances differ in their nature and aims. Some musical recordings are aimed at replicating the experience of one or another kind of perfor- mance. But other recordings are works of art in their own right, to which, in fact, some performances may bear a derivative relation. Philosophers and other theorists of music, particularly those interested in the listener’s musical experience, ought not to ignore such matters» (Ivi, 88-89).