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Il tappeto volante può ancora volare?

2.2 Cancellare la materia, aggiungere strati di significato

2.3.1 Il tappeto volante può ancora volare?

Uno dei miti riguardanti il tappeto orientale che più ha interessato gli artisti è certamente quello del tappeto volante. Da simbolo per eccellenza di escapismo, gli artisti contemporanei hanno ripreso i suoi caratteri mitici per destrutturarli e identificare le costruzioni stereotipate, le fantasie e i desideri inespressi che si nascondevano dietro questo tropo orientalista. In questa sede, verranno presi in considerazione tre approcci, scelti per la loro capacità di scomporre il tema del tappeto volante, mettendo in campo strumenti e poetiche artistiche differenti e anche opposte.

Uno dei primi ad affrontare il tema del tappeto volante è stato David Hammons (1943)107 nell’opera Flying Carpet (1990)108. Su un tappeto persiano appeso alla parete come un

quadro, l’artista ha disposto del pollo fritto109, collocandone le parti non casualmente, ma seguendo la griglia compositiva del tappeto sottostante, in un’improvvisazione sarcastica che mima la disposizione seriale del Minimalismo110. Come spesso accade per le opere di David Hammons è difficile stabilire con certezza quale sia l’intento dell’artista nella creazione e presentazione dell’opera, ma rimane la possibilità di fare alcune constatazioni.

107 Per un profilo dell’artista si vedano: David Hammons: blues and the abstract truth, catalogo della mostra a

cura di JOHN FARRIS,ULRICH LOOCK (Berna, Kunsthalle, 16 maggio – 29 giugno 1997), Berna, Kunsthalle, 1997; SALAH M.HASSAN,CHERYL FINLEY, a cura di, Diaspora, memory, place. David Hammons, Maria

Magdalena Campos-Pons, Pamela Z, Monaco, Prestel, 2008; KELLIE JONES, EyeMinded. Living and writing

contemporary art, Durham e Londra, Dake University Press, 2011. Kellie Jones è una delle principali critiche

d’arte che si è concentrata sul lavoro di Hammons. Il volume contiene interviste e saggi dedicati specificatamente al lavoro dell’artista, nonché scritti di ordine generale che ben contestualizzano la scena artistica afro-americana degli anni Settanta e Ottanta. Infine, si segnala l’interessante contributo di ELENA

FILIPOVIC, David Hammons. Bliz-aazard Ball Sale, Londra, Afterall Books, 2017: dall’analisi di una delle più famosi azioni dell’artista, la vendita di palle di neve in Cooper Square, New York, nel 1983, la storica dell’arte rivisita l’intera carriera di Hammons.

108 La prima volta che l’opera venne esposta in una cornice istituzionale fu in occasione della prima

monografica dedicata all’artista, David Hammons: Rousing the Rubble, 1969-1990, tenutasi al MoMA PS1, New York, 16 dicembre 1990 – 10 febbraio 1991.

109 Si tratta di un materiale largamente usato da Hammons non solo per il suo significato intrinseco, ma anche

per la sua capacità di lasciare una traccia sui materiali, ad esempio sullo spazio espositivo (si veda ad esempio l’opera Untitled (Fried Chicken Drumsticks and Chains), 1990, dove il pollo fritto, direttamente appoggiato sulla parete, lascia una traccia di grasso), attivando un processo di decomposizione e stimolando altri sensi oltre la vista, come l’olfatto.

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Innanzitutto, bisogna notare lo stato del tappeto utilizzato: i bordi sono consumati e alcune sezioni sono rovinate così che diventa difficile leggerne la decorazione. Come in altre opere dell’artista, si potrebbe ipotizzare che anche questo tappeto sia un oggetto di recupero. Certamente l’artista non era interessato a utilizzare un tappeto nuovo e perfetto e forse lo stato di degrado del manufatto concorreva alla costruzione del significato dell’opera, indebolendo lo stesso valore di status culturale e sociale del tappeto persiano.

Inoltre, il contrasto fra il tappeto orientale, simbolo di esotismo, ricchezza e lusso, e il pollo fritto, un prodotto tipico americano e sinonimo della cultura consumistica di massa, produce un indebolimento delle costruzioni dei cliché esotici creati dalla cultura dominante, americana in particolare, bianca, capitalista e imperialista in generale, sull’Altro. Innanzitutto, è interessante il paragone fra il tappeto, inteso come oggetto volante, come sottolinea il titolo dell’installazione, e il pollo, animale che, seppur dotato di ali, non è in grado di volare. Inoltre, il pollo fritto, con il suo richiamo al consumo dei fast food, veloce e di bassa qualità, rimanda al consumo concreto di tappeti orientali, in particolare persiani, di cui negli anni Novanta esistevano versioni alla portata di tutti, a basso costo111. Ma, più 111 Il mercato di tappeti orientali, un tempo dominato dalla presenza iraniana, si era spostato in India, Cina e

Pakistan, paesi in cui i tappeti venivano prodotti a basso costo. Dal momento che vi era ancora un’alta domanda di tappeti persiani, questi Paesi producevano copie dal disegno molto stereotipato. Tale fenomeno andò peggiorando, soprattutto negli Stati Uniti, nel 1987, quando l’embargo sui prodotti iraniani, stabilito dal

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sottilmente, il confronto potrebbe esplicitare quel fenomeno di consumo di immagini mentali costruite dall’Occidente su tutto ciò che riguarda l’Oriente, sottolineando la preferenza per immagini prefabbricate e non aderenti alla realtà, piuttosto che il loro abbattimento in favore di un dialogo sincero e equilibrato con tutto ciò che non rientra nei canoni prestabiliti dalla cultura dominante. Il confronto estremo fra elementi provenienti da sfere concettuali e culturali diverse, Occidente e Oriente, cultura alta e bassa, viene utilizzato da Hammons per indebolire e prendersi gioco di queste stesse costruzioni, cosicché l’opera realizzata si configura come un’immagine parodica dei nostri desideri, manie consumistiche e miti.

Sempre al consumismo del tappeto orientale, inteso come simbolo di un magico Diverso, può essere connessa l’opera dell’artista Farhad Moshiri (1963)112, Flying Carpet (2007). In

questo caso, l’artista ha impilato l’uno sull’altro 32 tappeti prodotti a macchina e all’interno di essi ha “tagliato” la forma di un aereo militare. La nuova pila così ottenuta fu esposta accanto alla precedente, segnalandone allo stesso tempo la continuità e la rottura. I tappeti utilizzati non erano tutti orientali, ma è significativo che l’unico tappeto visibile al pubblico fosse un tipico tappeto persiano113. Come ha ben sottolineato il curatore, Aram Moshayedi, il lavoro si colloca all’interno della più ampia ricerca dell’artista riguardo al valore dell’autenticità rispetto ai materiali di lusso, all’opera d’arte e al contesto museale114.

L’opera sembrerebbe ironizzare sul tappeto persiano come “brand”, in grado di rappresentare un’intera cultura e offrire la possibilità di inserire all’interno dello spazio domestico un oggetto determinante lo status sociale. Tuttavia, la natura industriale dei tappeti usati, la loro stessa moltiplicazione e il fatto che solo uno di questi rientri nei canoni del tipico tappeto persiano, sono fattori che rimandano al mondo consumistico e globalizzato, in cui il valore di alcuni oggetti non è dettato dalla qualità materiale e dall’unicità, ma dagli archetipi che esso personifica. Così la natura fisica dell’opera, assieme

presidente Carter nel 1979, venne esteso anche ai tappeti. Questo divieto creò un’ulteriore aura di mistero e di desiderio nei confronti del tappeto persiano autentico, diventato un bene sempre più difficile da trovare e, quindi, più costoso.

112 Per un profilo completo dell’artista si vedano le seguenti pubblicazioni: Iran Inside Out. Influences on

Homeland and Diaspora on the Artistic Language of Iranian Contemporary Artists, catalogo della mostra a

cura di SAM BARDAOUIL,TILL FELLRATH (New York, Chelsea Art Museum, 26 giugno – 5 settembre 2009), New York, Chelsea Art Museum, 2009; Farhad Moshiri, con testi di JÉRÔME SANS,OLIVIER WICK, Parigi, Galerie Perrotin, 2010; Farhad Moshiri. Fire of Joy, con testi di MICHELE ROBECCHI, Parigi, Galerie Perrotin, 2012; Farhad Moshiri, a cura di DINA NASSER-KHADIVI, Milano, Skira, 2016, vol. I, II; Rebel, Jester, Mystic,

Poet: Contemporary Persians, catalogo della mostra a cura di FERESHTEH DAFTARI (Toronto, Aka Khan Museum, 4 febbraio – 4 giugno 2017), Londra, Black Dog Publishing, 2017.

113 Ciò si evince bene dal video dell’installazione dell’opera presso l’Aga Khan Museum, Toronto, per la mostra

Rebel, Jester, Mystic, Poet Contemporary Persians, tenutasi nel 2017, cfr:https://www.youtube.com/watch?v

=lHD6RqXl10U, [Data di ultima consultazione: 3 Giugno 2020].

114 Cfr. ARAM MOSHAYEDI, All that is Goldified Glitters, in NASSER-KHADIVI, Farhad Moshiri…cit. pp. 12-

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al titolo, sembrano attaccare la visione orientalista dell’Oriente, impersonificato nell’oggetto del tappeto persiano, come terra promessa di piaceri sensuali, esotismo e magia. Inoltre, alla morbidezza e all’aspetto innocuo del tappeto si contrappone il contorno e la forma minacciosa dell’aereo di guerra115, anche se bisogna sottolineare che Moshiri, in tutti i suoi lavori, mantiene uno stile ironico e distaccato, per cui anche se rimane riconoscibile il modello da guerra, l’approssimazione della forma dell’aereo ricorda anche gli areoplani di carta realizzati dai bambini116. Nell’opera coesistono così due immagini legate al tappeto orientale, da un lato quella del tappeto volante, dall’altro quella del “bombardamento a tappeto”117, in cui il bombardamento è da intendersi di natura culturale, più che politica e

militare.

115 L’iconografia dell’aereo di guerra potrebbe essere legata a molteplici fonti. L’artista ha affermato di aver

tratto ispirazione per l’opera da un documentario che rappresentava alcune tessitrici afghane intente alla realizzazione dei famosi War Rugs (DAFTARI 2017, p. 28), ma la curatrice e storica dell’arte Fereshteh Daftari ha intravisto nell’uso dell’iconografia di guerra un riferimento non solo agli interventi militari statunitensi di quel periodo in Iran, ma anche alle varie minacce legate alle controverse questioni riguardo il nucleare (cfr.

ibidem).

116 Rispetto a questo aspetto ironico e giocoso del suo lavoro, MOSHIRI ha affermato «happiness is a more

effective vehicle when talking about sadness and violence», in JÉRÔME SANS, An Artified World. Interview with Farhid Moshiri, in Farhad Moshiri… cit., pp. 18-23, qui p. 19.

117 Minoo Moallem ha sottolineato come le due immagini siano fortemente collegate: entrambe presuppongono

la possibilità di una visione dall’alto del mondo e quindi di un totale controllo su esso. Inoltre, entrambi rispondo a una logica imperialista, il primo solo nel mondo dell’immaginazione, il secondo in quello reale (MOALLEM 2018, p. 54.). Il tappeto volante era infatti il mezzo che permetteva il viaggio nelle terre orientali, che diventavano così vicine, esperibili e consumabili.

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Sia Hammons che Moshiri si accostano allo stereotipo del tappeto volante e, nel tentativo di indebolirlo, applicano un abbassamento e depotenziamento dello stesso tappeto orientale: Hammons raggiunge ciò tramite il confronto con il pollo fritto e l’utilizzo di un tappeto di recupero; Moshiri tramite l’utilizzo di tappeti di bassa qualità, l’inserimento di una iconografia di guerra e la distruzione stessa del manufatto. In entrambi i casi comunque il tappeto viene privato delle sue qualità formali ed estetiche, così che il mito del suo carattere esotico, magico e lussuoso, trovi anch’esso una forma di indebolimento. Il mito ha un’accezione completamente negativa e la sua distruzione passa attraverso la devalorizzazione del tappeto orientale, della sua storia e della sua tradizione.

Completamente opposto è l’atteggiamento di Viron Erol Vert (1975)118 rispetto al mito del tappeto volante, a cui dedica il ciclo di opere iniziato con Air Abraham (2011)119.

Rispetto ai due artisti precedenti, Vert fa un passo ulteriore: mentre Hammons e Moshiri recuperano il mito del tappeto volante così come costruito dalla cultura occidentale, egli risale alle origini primarie del mito, studiando per diversi anni la narrazione e la descrizione del tappeto volante all’interno dei testi sacri e classici. Ciò che l’artista intende analizzare è la capacità del tappeto volante, in quanto mito, di stabilire dinamiche transculturali e di dimostrare il fenomeno degli scambi/scontri culturali, tramite la sua continua ricezione, interpretazione e modificazione.

Proprio per evidenziare la natura frammentaria del mito costituito, Vert ha deciso di mantenere solo alcuni aspetti precipui del tappeto orientale e della sua tradizione, abbandonandone altri. Il tappeto è stato realizzato da famiglie artigiane in Turchia, Paese a cui si lega parte delle radici biografiche dell’artista, usando la tecnica tradizionale, il doppio nodo turco, e tinte naturali. Sembra che l’artista voglia mantenere il proprio lavoro nel solco della tradizione culturale, riconoscendo nelle tecniche artigianali una presenza identitaria forte. Dal punto di vista della composizione decorativa, Vert sembra abbandonare completamente il riferimento al tappeto tradizionale, se non per il mantenimento di uno stile prettamente geometrico che è stato a lungo carattere specifico dei tappeti anatolici. In realtà, 118 Per avere un profilo dell’artista si vedano: Viron Erol Vert. The Name of Shades of Paranoia, Called

Different Forms of Silence, catalogo della mostra a cura di UTE MÜLLER-TISCHLER (Berlino, Galerie Wedding, 10 febbraio – 8 aprile 2017), Berlino, Distanz, 2018; BONAVENTURE SOH BEJENG NDIKUNG, a cura di, Villa

Romana 2018: Lerato Shadi, Jeewi Lee, Viron Erol Vert, Christophe Ndabananiye, Firenze, Villa Romana,

2019; HELMUTS CAUNE, The political act of enjoying life. A conversation with artist Viron Erol Vert, in “Arterritory”, https://arterritory.com/en/visual_arts/interviews/23371-the_political_act_of_enjoying_life, [Data di ultima consultazione: 4 Giugno 2020].

119 Da questo primo lavoro è nata una serie di sette tappeti, completata nel 2013, il cui punto di partenza rimane

la riflessione sul tappeto volante, ma a cui si aggiunge anche l’investigazione, dal punto di vista scientifico e culturale, di alcune stelle del sistema sociale.

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anche alla base del suo disegno vi è un elemento antico, il Sigillo di Salomone (conosciuto anche come Stella di David), un personaggio connesso al mito del tappeto volante120, che viene però rimodellato, aggiungendo anche strutture geometriche utilizzate per la costruzione dei primi aerei. L’artista traccia, ad esempio, una linea continua fra l’antico simbolo religioso e i disegni degli aquiloni tetraedrici progettati da Alexander Graham Bell (1847-1922), aventi entrambi come base la forma esagonale. La decorazione creata da Vert diventa quindi essa stessa la manifestazione dell’intersezione di influenze culturali diverse, geograficamente e temporalmente, così come lo stesso tappeto volante.

Se da un lato Hammons e Moshiri si sono concentrati sul “denunciare” in modo ironico l’immagine orientalista del tappeto volante come schema mentale più ampio applicato a ciò che non coincide con il pensiero dominante, Vert è più interessato alla creazione di un nuovo mito del tappeto volante. Il suo obiettivo è quello di superare la lettura orientalista occidentale e utilizzare questo stesso oggetto mitologico come nuovo elemento di unione tra Oriente ed Occidente, tra passato e presente. Il recupero del mito ha qui una valenza positiva 120 Nell’originale leggenda sul tappeto volante, come raccontata dal Kebra Nagast, il cui nucleo originale è

fatto risalire al periodo fra IV e VI secolo d.C., anche noto come Libro dei Re, Salomone viene indicato infatti come il legittimo proprietario di tale oggetto magico. La sua figura è centrale per un altro motivo: egli è menzionato nei testi sacri delle tre maggiori religioni abramitiche, diventando così anche un elemento di connessione fra religioni, pensieri e culture differenti, spesso in contrasto, come anche nella realtà contemporanea.

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e il nuovo tappeto volante creato dall’artista non ha lo scopo di sottolineare distanze di pensiero, ma piuttosto delineare una continuità e comunanza, diventando così la base per un rinnovato dialogo.

A differenza degli artisti presi in considerazione nelle due categorie precedenti, il valore del tappeto, come tradizione tessile o oggetto fisico, perde qui di importanza. Per questo motivo, Mondino e Rasulov non sentono l’esigenza di recuperare il tappeto come medium, ma nelle opere permane solo un aspetto caratteristico del tappeto, ovvero quello decorativo. Nello stesso modo, Hammons e Moshiri preferiscono tappeti di bassa qualità e Viron Erol Vert abbandona addirittura l’iconografia del tappeto orientale, salvando solo la tecnica. Ciò che accomuna invece il lavoro di artisti così differenti per contesto geografico e appartenenza a generazioni diverse, è l’indagine del tappeto orientale come costrutto culturale in primis (un elemento comunque presente anche in artisti precedentemente affrontati). Quelli trattati in questo paragrafo sono una prova del fatto che gli artisti contemporanei, in particolare dall’inizio degli anni Novanta, non si sono più solo limitati a considerare il tappeto orientale per i suoi valori estetici, ma hanno sentito l’impellenza di indagarne anche le implicazioni ideologiche, culturali, sociali che fanno parte della stessa trama di questo manufatto artistico. Per quanto vi siano artisti che ancora sognano un Oriente dove fuggire, come Aldo Mondino, o che rimangono affascinati dal valore culturale e simbolico del tappeto, come Farid Rasulov, o dalla sua antica tradizione tessile, come Viron Erol Vert, è ormai diventato necessario accostarsi a questi aspetti con uno sguardo nuovo, scevro da illusioni e facili interpretazioni. Il tappeto orientale diventa dunque stimolo per investigare e riformulare i confini geografici e concettuali, invertendo quel processo di strutturazione e consumazione di identità immaginarie.

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3 Case Studies

Gli artisti analizzati nel secondo capitolo sono solo un esempio di coloro che hanno deciso, negli ultimi trent’anni, di utilizzare il tappeto orientale, nelle sue diverse forme e concezioni, all’interno della propria pratica artistica. Alcuni di essi ne hanno fatto un elemento continuativo della propria poetica, come Faig Ahmed, ma la maggior parte lo ha usato in maniera saltuaria, come ad esempio David Hammons, e altri ancora sono arrivati al tappeto orientale dopo anni di sperimentazioni con tecniche tessili, come Alighiero Boetti, o con la forma stessa del tappeto, come Mona Hatoum, o con la storia e il contesto culturale che esso può rappresentare, come Farhad Moshiri e Sepideh Mehraban.

Ci sono poi artisti che nel corso della propria carriera artistica hanno dedicato al tappeto orientale uno spazio più o meno preponderante nella propria pratica, impegnandosi in un’opera di “vivisezione” e valorizzazione dei vari aspetti artistici, culturali, sociali che esso può rivestire e comunicare. In questo terzo capitolo, si è deciso quindi di soffermarsi su due case studies che permettano di comprendere come l’impatto del tappeto orientale nel contesto dell’arte contemporanea possa essere ricco e diversificato, anche nella pratica artistica di un solo autore. Sono stati così presi in analisi due artisti molto distanti fra di loro, Nevin Aladağ (1972) e Rudolf Stingel (1956), accomunati dall’aver introdotto questo manufatto artistico all’interno delle proprie opere, anche se con modalità spesso diametralmente opposte. Proprio per queste diversità, ho scelto di analizzare i due artisti in maniera differente. Per Aladağ è stato scelto un approccio cronologico, che permette di indagare i nuclei centrali del suo lavoro e la loro evoluzione, sottolineando i diversi aspetti del tappeto orientale che Aladağ ha esplorato e l’importanza di questi all’interno della sua crescita artistica. Per Stingel ho invece preferito un approccio tipologico, così da analizzare le due modalità differenti con cui l’artista ha utilizzato il tappeto orientale, nelle sue installazioni ambientali e nei dipinti su tela. Sebbene queste pratiche appaiano fra di loro distanti, grazie alla chiave di lettura del carpet paradigm, è possibile identificare i punti in comune che esse condividono.

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3.1 Nevin Aladağ

Passeggiando per le vie di Monaco, nel 2001, ad alcuni sarà capitato di imbattersi in una lunga striscia rosso vivo, una lingua di fuoco, che usciva da una delle finestre del caratteristico Hotel Mariandl. Si trattava di un tipico tappeto da corridoio, una passatoia lunga quindici metri che la giovane artista Nevin Aladağ (1972)121 aveva installato su una

delle facciate dell’edificio in occasione della mostra Hotel Mariandl. Il tappeto utilizzato per l’opera Laüfer (2001) non aveva un particolare valore storico, culturale o estetico. Era uno di quei tappeti dai colori e dalle decorazioni abbastanza anonimi, in cui si può scorgere un’influenza di elementi originariamente orientali, avente la funzione di abbellire spazi interni, come hotel, uffici, condomini e spazi istituzionali.

Questa operazione artistica, una delle prime che Aladağ compie dopo essere uscita un anno prima dall’Accademia di Belle Arti di Monaco, dove aveva studiato sotto la guida dello scultore Olaf Metzel (1952), mostra già alcuni tratti che diverranno fondamentali nella poetica dell’artista. Inoltre, l’opera segna l’avvio di una relazione con il tappeto, non solo strettamente orientale, che Aladağ porta avanti ormai da vent’anni.

121 In questa sede verranno analizzate solamente le opere in cui l’elemento del tappeto in generale, e di quello

orientale in particolare, occupano un peso preponderante. Inoltre, verranno prese in considerazioni anche i

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