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Molte delle conoscenze sulle specializzazioni funzionali della corteccia sono state raggiunte per lungo tempo grazie allo studio di soggetti con difetti neurologici ereditari, con ferite accidentali, con lesioni chirurgiche effettuate al fine di curare patologie altrimenti intrattabili come ad esempio alcune forme di epilessia, o addirittura portando avanti analisi su soggetti morti. La situazione però è cambiata radicalmente negli ultimi decenni, grazie agli straordinari progressi teorici e tecnologici che hanno favorito lo sviluppo di alcune metodiche che sono in grado di investigare direttamente il funzionamento cerebrale: si tratta delle cosiddette tecniche di neuroimaging.

Tra queste è annoverato ad esempio l’EEG (elettroencefalogramma), per il quale si fa uso di un apparato di elettrodi localizzati sul cuoio capelluto al fine di rilevare le variazioni dei campi elettrici generati dall’attività neuronale. La registrazione dell’EEG per un soggetto permette di mettere in evidenza i cosiddetti ritmi, che rappresentano di fatto andamenti caratterizzati da un’ampiezza variabile e che assumono un significato specifico a seconda della particolare situazione in cui si trova il soggetto: ad esempio il ritmo alfa viene registrato ad occhi chiusi in un soggetto sveglio, in modo particolare

tra gli elettrodi occipitali e parietali; se il soggetto viene invitato ad aprire gli occhi, l’attività alfa scompare ed è sostituita da un’attività di tipo beta. Questa tipologia di onde è dominante in presenza di un soggetto ad occhi aperti ed impegnato in un’attività cerebrale qualsiasi; il ritmo delle onde theta è invece dominante in un neonato, ma presente anche in molte patologie cerebrali dell’adulto, negli stati di tensione emotiva e nell’ipnosi; infine le onde delta compaiono prevalentemente in una fase di sonno profondo, oltre che ad esempio in condizioni di anestesia generale e in alcune malattie cerebrali. Questi sono soltanto alcuni esempi, senza dubbio riduttivi rispetto ad una completa visione d’insieme, ma allo stesso tempo risultano sufficienti per rendersi conto di come un tracciato EEG analizzato attentamente possa fornire preziose informazioni relative al funzionamento cerebrale. Strettamente connesso all’EEG è anche il magnetoencefalogramma, il quale rivela le perturbazioni del campo magnetico sulla superficie del capo che vengono causate dagli effetti induttivi delle variazioni dei campi elettrici nel cervello. Importante è la possibilità di poter utilizzare entrambe le tecniche insieme a manipolazioni cognitive, allo scopo di studiare specifici aspetti dei processi che avvengono all’interno del cervello, tenendo ben presente che i segnali elettrici o magnetici rilevati forniscono un’immagine in tempo reale dell’attività cerebrale. Tuttavia con questo tipo di dati la localizzazione della fonte può risultare problematica: il tentativo di determinare la collocazione del tessuto neuronale attivo può dar luogo a un numero pressoché infinito di ipotesi, evidenziando così la necessità di aggiungere ulteriori limitazioni allo scopo di poter avere informazioni più precise. Pertanto, mentre la risoluzione temporale di queste tecniche è di gran lunga superiore a quella di altri metodi utilizzati per la visualizzazione del funzionamento del cervello, in

molti casi esse sono inadeguate per la localizzazione spaziale di segnali multipli.

Alla luce di queste limitazioni, nel corso del tempo si è cercato di trovare strade alternative per poter ottenere informazioni significative ed affidabili in questo ambito. Alcune tecniche di imaging ottico proposte utilizzano agenti di contrasto esogeni, come coloranti la cui fluorescenza dipende dalla differenza di potenziale, dalla concentrazione di calcio o da altre variabili regolate fisiologicamente; altre si basano invece su fattori alternativi, come la diffusione della luce in risposta al volume cellulare. In realtà la maggior parte di queste metodologie è invasiva e comunque non adatta agli studi sull’uomo, eccezion fatta per alcuni casi limitati: ad esempio la cosiddetta ‘spettroscopia nel vicino infrarosso’ (NIRS, Near Infrared Spectroscopy) misura attraverso il cranio lo spettro di assorbimento della luce da parte dell’emoglobina ossigenata e dell’emoglobina deossigenata, e si sta dimostrando una promettente tecnica di imaging funzionale non invasiva. Al momento, i suoi principali limiti sono rappresentati dal fatto che innanzitutto la luce non riesce a penetrare a fondo nei tessuti, e in secondo luogo il metodo è in grado di misurare le risposte emodinamiche relative al flusso sanguigno in siti discreti, anziché nel cervello preso nella sua interezza.

Una valida alternativa alle limitazioni precedentemente descritte è rappresentata dalla tomografia a emissione di positroni (PET), in assoluto la prima tecnica di neuroimaging dell’intero cervello ad offrire una buona localizzazione della fonte dell’attività neuronale. Essa è in grado di fornire informazioni di tipo fisiologico, al contrario di altri tipi di indagine che invece si soffermano sulla morfologia del particolare distretto anatomico analizzato. Con l’esame PET si ottengono pertanto mappe dei processi funzionali all’interno del

corpo. Questa procedura si basa sull’iniezione di un radio farmaco formato da un radio-isotopo tracciante con emivita breve, legato chimicamente ad una molecola attiva a livello metabolico. Durante un primo periodo di attesa, la molecola metabolicamente attiva (spesso rappresentata da uno zucchero) raggiunge una determinata concentrazione all’interno dei tessuti organici da analizzare, dopodiché il soggetto viene posizionato nello scanner. A questo punto l’isotopo decade ed emette un positrone, il quale si annichila con un elettrone dopo un breve percorso che può raggiungere al massimo pochi millimetri, provocando in questo modo la produzione di una coppia di fotoni gamma, entrambi caratterizzati da un’energia di 511 keV, ed emessi in direzioni opposte tra loro. Questi fotoni sono rilevati nel momento in cui raggiungono uno scintillatore nel dispositivo di scansione, e il punto cruciale di questa tecnica consiste nella rilevazione simultanea di coppie di fotoni: i fotoni che non raggiungono il rilevatore in coppia o almeno entro un intervallo di tempo di pochi nanosecondi non sono presi in considerazione. Per quanto riguarda le coppie considerate rilevanti, dalla misurazione della posizione in cui i fotoni colpiscono il rilevatore si può ricostruire l’ipotetica posizione del corpo da cui sono emessi, permettendo così la determinazione dell’attività o dell’utilizzo chimico all’interno delle parti del corpo investigate. La mappa risultante da questo tipo di analisi rappresenta di fatto i tessuti in cui la molecola campione si concentra maggiormente, e la sua lettura può essere utile ai fini di una diagnosi o della valutazione di un adeguato trattamento. La versatilità della PET risiede nel fatto che essa permette di usare traccianti specifici per poter rilevare molte variabili fisiologiche differenti. Tra i marcatori fisiologici collegati al funzionamento del cervello che la PET può misurare vi sono ad esempio il metabolismo del glucosio e

dell’ossigeno, il volume sanguigno, la distribuzione di diversi recettori neurochimici e il flusso sanguigno cerebrale. Queste misurazioni sono importanti sia per comprendere le basi fisiologiche di vari metodi di neuroimaging sia per scopi clinici: proprio in questo modo infatti è stato possibile rendersi conto ad esempio della distribuzione e dell’affinità dei recettori e dei siti di legame di farmaci, mettendo in evidenza l’eventuale perdita funzionale di una certa classe di recettori associata a sindromi cliniche specifiche. Spesso per quanto riguarda la PET, l’attività neuronale regionale è dedotta da misurazioni del flusso sanguigno cerebrale locale: così come il flusso sanguigno aumenta per fornire energia ai muscoli quando vengono utilizzati, allo stesso modo esso aumenta per portare i substrati metabolici, quali glucosio e ossigeno, alle regioni localizzate del cervello che sono coinvolte nell’attività di elaborazione. Alla luce di ciò sono stati fatti considerevoli passi avanti nella comprensione di processi cognitivi, quali ad esempio la visione, l’attenzione, il linguaggio, l’apprendimento motorio e la memoria.

Fino al recente sviluppo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), la PET non ha avuto rivali per capacità di fornire informazioni circa l’organizzazione funzionale del cervello umano. Tuttavia per una serie di motivi tecnici la fMRI si è rivelata in grado di offrire una risoluzione spaziale e temporale decisamente superiore: il suo sviluppo ha reso possibile la visualizzazione della struttura interna di oggetti composti da materiali chimicamente differenti in modo tridimensionale e non invasivo, con una risoluzione molto più alta rispetto a quella garantita da altre tecniche. Inoltre, dal momento che non richiede la somministrazione di sostanze radioattive, essa non risulta invasiva come la PET, così che uno stesso soggetto può essere esaminato più volte. In un primo tempo la risonanza magnetica veniva

usata prevalentemente in sede clinica, al fine di visualizzare eventuali strutture patologiche cerebrali, mentre più recentemente è stato evidenziato come essa sia in realtà in grado anche di mettere in luce le variazioni emodinamiche provocate dall’attività neuronale. È importante a questo proposito ricordare che il segnale della risonanza magnetica deriva dalle caratteristiche intrinseche dei nuclei all’interno di un campo magnetico esterno. Assai numerosi sono i parametri coinvolti in ogni esperimento di imaging che si basi sulla risonanza magnetica, e l’ampio spettro di valori che si possono scegliere per ciascuno di essi rende la tecnica particolarmente stimolante e versatile. Sin dalle prime dimostrazioni delle sue potenzialità per la misurazione dell’attività cerebrale sono stati messi in luce infatti diversi tipi di variabili a cui è possibile fare riferimento, tra cui la perfusione, il volume sanguigno, l’ossigenazione del sangue. In particolare, la tecnica più usata è quella che viene indicata con l’acronimo BOLD (Blood Oxygenation Level Dependent), la quale trae vantaggio dal fatto che le proporzioni relative di emoglobina ossigenata e deossigenata nel sangue cambiano in seguito all’aumento dell’attività neuronale. Durante l’attivazione, gli incrementi del consumo di ossigeno sono infatti inferiori rispetto a quelli del metabolismo del glucosio e del flusso sanguigno, pertanto l’incremento di ossiemoglobina dovuto all’aumentato flusso sanguigno supera di gran lunga la conversione dell’emoglobina ossigenata in deossigenata dovuta al consumo di ossigeno. Alla luce di ciò, la chiave di volta sta nel fatto che l’ossiemoglobina e la deossiemoglobina possiedono differenti proprietà magnetiche, pertanto il netto decremento nella concentrazione relativa di deossiemoglobina risulta in un aumento del segnale BOLD. Indipendentemente dai limiti da cui inevitabilmente anche questa tecnica è affetta, senza dubbio essa ha permesso di fare

significativi passi avanti al fine di poter conoscere più da vicino ed in maniera più precisa quello che è il funzionamento cerebrale.

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