''Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine''. Lo scrive Chateaubriand agli inizi dell'Ottocento, nel Genio del Cristianesimo. Il fascino esercitato dai resti imponenti e solenni, dalle tracce, dalle vestigia e dai detriti, è alla base dell'estetica del sublime; questa alimenta lo sgomento misto ad ammirazione di fronte alla bellezza delle rovine. Dalla seconda metà del XVIII secolo si va affermando il gusto per le architetture gotiche che, rispetto alle misure neoclassiche, appaiono sproporzionate e irregolari. Il gusto per l'informe porta a una nuova fascinazione delle rovine; già nel Rinascimento era emerso questo interesse riferito all'antichità greca, poiché attraverso le sue rovine si poteva indovinare la forma compiuta e pura delle opere antiche e originali. Il Neoclassicismo aveva cercato di reinventare
queste forme, da Canova a Winckelmann.
Ora invece, agli inizi dell'Ottocento, la rovina è apprezzata per la sua incompletezza, per i segni che il tempo, inesorabilmente, vi ha lasciato, per la vegetazione incolta che la ricopre, per i suoi muschi e le sue crepe.
L'idea che le rovine costituiscano un esempio alto di forma simbolica e culturale deriva dal fatto che ogni manifestazione della vita non è l'espressione di una esperienza immediata ma è l'espressione di una memoria a venire, di qualcosa che si ripete, che si ripropone. A questo proposito, Dilthey osserva che ciò che più conta è l'esperienza rivissuta: è possibile rivivere l'evento e, metodologicamente, comprendere quanto accaduto. L'essenziale della vita sta sempre in un processo di riflessione continua e di
rielaborazione emotiva del senso o dei vari sensi del passato.
Simmel considera la rovina come un'opera a sé, ovvero non è ciò che sopravvive di un'opera in via di decomposizione, ma è una forma completamente nuova, la cui prestazione consiste nel permettere al fruitore la percezione di un diverso rapporto fra le forze naturali e quello spirituali. Per Simmel non esistono epoche di decadenza: la decadenza, di cui la rovina è la categoria principe, non obbliga soltanto a guardare con tristezza verso un passato grande ma purtroppo irripetibile, ma ha la propria legittimità e produce, anche se solo nella modalità del frammento e del torso, opere altrettanto valide e significative di quelle del passato. Il rovinismo non si estingue, comunque, con l'immaginario sette-ottocentesco. Torna nella contemporaneità e a questo proposito abbiamo fatto spesso riferimento al testo di Marc Augé. L'etnologo ha ripensato alle rovine distinte dalle macerie che vanno smaltite e rimosse. Nell'eterno presente della metropoli, il paesaggio naturale è sopravvivenza al passato e riserva del futuro; nuova rovina sfuggita alla storia:
''Nell'arte e nell'architettura contemporanee la rovina non indicherebbe comunque più l'incerto e problematico rapporto con il passato, a cui un artista come Piranesi anela, bensì quello con il futuro (...). Le rovine sarebbero un segno di vita, qualcosa che si oppone alla ''fine della storia'', che è il destino verso cui si avvia la spettacolarizzazione del mondo''.
In qualunque ambito si consideri l'evento rovinoso, i resti sono significativi solo per chi abbia consapevolezza della temporalità, della storicità dell'uomo. Altrimenti la rovina resta muta: non rivela nulla. Essa è tale solo negli occhi di chi la osserva, di chi il proprio presente lo vive nel profondo, ovvero con la consapevolezza del passato e la responsabilità del futuro. Solo a queste condizioni ciò che resta costituisce una rovina.
Altrimenti è maceria. La rovina è un racconto, la maceria un ingombro: la prima risponde a una volontà di ricordare, la seconda al desiderio di eliminare il passato. E dunque, quando chi osserva i resti di un evento rovinoso non è in grado o non ha voglia di considerarli come una testimonianza, perché li ha già posti fuori del proprio passato, della propria storia, allora per lui quelle rovine non sono altro che materiale d'ostacolo, inutilizzabile e, se possibile, da rimuovere.
La nostra epoca ''non ha più il tempo'' di produrre rovine, monumenti della memoria, dunque, ma macerie. Il tempo, quindi, è contiguo all'esperienza delle rovine. Le rovine sfuggono al tempo reale, alla diretta, poiché risvegliano nell'osservatore la ''coscienza della mancanza'': l'occhio si posa su di esse come se fossero un oggetto contemporaneo e, nello stesso tempo, una data incerta a loro attribuita rende quasi impossibile un riferimento a un'epoca fissata nella memoria storica come immagine. Così via dei Fori Imperiali a Roma è vista come un paesaggio, nel quale è possibile intravedere diverse temporalità, dove è anche quasi impossibile distinguere gli interventi nelle varie epoche. A Roma ''si ha l'impressione (di vedere) una sorta di immensa rovina senza età, nella quale chi passeggia innocente può trovare il puro godimento di un tempo che nessun monumento e nessun sito riescono a imprigionare''.
Le rovine di Roma, così come quelle di Berlino o di Tikal, o quelle sparse in tutto il mondo orientale, riescono a sottrarsi alla spettacolarizzazione. Esse riescono a farci percepire un tempo che sfugge al ''tempo della storia''.Le rovine sono espressione dell'assenza, e con le loro molteplici epoche e irricostruibili storie rappresentano la speranza.
Abbiamo parlato di tempo puro, un tempo che confonde epoche lontane e quelle attuali. Il paesaggio delle rovine è la duplice prova di qualcosa che è andato perduto e di qualcosa che è invece attuale.
Le rovine ''ci fanno fugacemente avvertire una distanza fra un senso passato, scomparso, e una percezione attuale, incompleta (...). La percezione di questo scarto è la percezione stessa del tempo,
della subitanea e fragile realtà del tempo, cancellata in un batter d'occhio dall'erudizione e dal restauro come dallo spettacolo e dall'aggiornamento''.
Estremamente legato al concetto di rovine è il ruolo del verde che rappresentano un filtro tra carcere e società. Ogni traguardo, ogni vista verso il mondo esterno è filtrato dal verde; il verde, gli alberi hanno come scopo quello di ricordare al detenuto come sia la natura a dettare i tempi e i giusti modi di vivere. I giardini come luoghi privati e chiusi, atti ad alimentare il riposo quotidiano dello spirito e del corpo come diceva Barragan: “vorrei descrivere con chiarezza il riposo spirituale e fisico che si può ottenere con l’abitudine di trascorrere ogni giorno qualche momento in un giardino provando la sensazione di un possesso intimo e privato” un tale giardino invita l’uomo ad usare la bellezza come pane quotidiano, lo induce ad abbandonarsi inconsapevolmente e senza sforzo ad un’atmosfera di spontanea meditazione.