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TEMPTAMVSQVE VIAM ET VELORVM PANDIMVS ALAS

< contos intendimus: unde (I, 224) mare velivolum. Sallustius et parvis modo velorum alis remissis.

Siamo dell‟opinione che Dante, prima ancora di accostarsi alla lettura di Servio avesse avuto sott‟occhio anche la glossa del Silvestre. Del resto il viaggio di Ulisse si pone come scopo quello di seguire virtute e canoscenza attraverso l‟esercizio della ragione e dell‟intelletto, così come lo intende Bernardo: rationis et intellectus exercitium.

***

♦ Bernardus Silvestris, ad Aen.VI, 72, FATA, XLII691:

Fatum est temporalis eventus provisorum et cum tria legantur esse fata, eorum nomina et officia congruunt. Est autem una istarum dearum Cloto que interpretatur evocatio cuius est officium colum baiulare. Hanc intelligimus esse generationem. Est autem generatio ingressus in substantiam, id est in initium substantie rei que dicta est evocatio substantie; rem enim de non esse ad esse vocat.

Colum baiulat quia initium vite humane sustentat, a quo initio ducitur totius vite series quasi a colo

filum. Secunda est Lachesis cuius officium est filum trahere, id est vitam ab initio ducere.

689 Commentum, cit., XXXVII, 12.

690 G. Brugnoli, Studi Danteschi, III, Pisa, Ets, 1998, p. 46 e p. 79. Cfr. S. Italia, Dante e Servio, cit., pp. 364-

65.

691 Commentum, cit., XLII, 3-11. Cfr. Fulg., Mythol., I, 8; Myth. Vat., I, 110; II, 14; III, 6, 23; Boeth., Cons.

philos., IV, pr. 6, 9, 13 e le Glosulae ad loc di Guglielmo di Conches; Arnolfo d‟Orléans, Glosulae super Lucan., I, 70; Bern. Silv., In Mart. Cap., I, 3; Remigio d‟Auxerre, In Mart. Cap., I, 3. Un archetipo lo si trova

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Purg. XXI, 25-30:

Ma perché lei che dì e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila,

l‟anima sua, ch‟è tua e mia serocchia, venendo su, non potea venir sola,

però ch‟al nostro modo non adocchia.

Nel dialogo purgatoriale tra Virgilio e Stazio, il poeta latino spiega la missione provvidenziale di Dante, rivelando che proprio per il fatto che questi sia ancora vivo necessita di una guida (Purg. XXI, 25-30). L‟immagine utilizzata da Virgilio per comunicare la condizione di Dante è quella delle Parche.

Nell‟originario passo del poeta latino, tuttavia, il nome di Cloto non compare. Nemmeno all‟altezza di Ecl. IV, 46-47:

«Talia saecla», suis dixerunt, «currite» fusis concordes stabili fatorum numine Parcae.

I versi sopracitati della Commedia «riecheggiano il commento di Bernardo Silvestre all‟Eneide […]. La dominanza ipotestuale, per quanto riguarda il mito delle Parche a questa altezza della Comedìa, è costituita dall‟Eneide, dalla IV Ecloga e dai rispettivi commenti»692.

La definizione della Parca Lachesi come colei che dì e notte fila, congiunta all‟espressione non li avea ancora tratto la conocchia, ha ugualmente il suo ipotesto nel commento di Bernardo: filum diviene fila e trahere diviene tratta. E, inoltre, l‟immagine del fuso che Cloto impone a ciascuno e compila richiama il testo del Silvestre, in cui la funzione di Cloto è di colum baiulare, secondo la corrispondenza colum = conocchia e

baiulare = imporre.

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♦ Bernardus Silvestris, ad Aen.VI, 86, BELLA, L693: «Nam levius ledit quidquid previdimus ante»

Par. XVII, 27:

ché saetta previsa vien più lenta».

692 R. Mercuri, Il mito dell‟età dell‟oro nella «Comedìa» di Dante, cit., p. 11.

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È vero, quello formulato da Bernardo è un detto preesistente e vulgato, che risale ai

Dicta Catonis694. Per intero recita così: «Prospice qui veniant casus hos esse ferendos: / nam levius laedit, quicquid praevidimus ante»695.

Possibile comunque che sia passato nella poesia dantesca attraverso il tramite bernardiano.

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♦ Bernardus Silvestris, ad Aen.III696:

In hac regnat Circe, id est opulentia terrenorum, que dicitur circes quasi cirocrisis, id est iudicium manuum, quia opulentia terrenorum de laboribus manuum697 iudicatur. Filia Solis dicitur quia omnis opulentia ex semine eius, id est solis calore agente in terra, procreatur. Haec propinat pocula ex herbis, id est voluptates ex temporalibus bonis, quibus socii Ulixis, id est socii sapientis, id est insipientes, in beluas mutantur. Belua fit ex homine dum homo, qui naturaliter rationalis et immortalis erat secundum animam nimia delectatione temporalium fit irrationalis et mortalis. Qui enim magis est belua quam cui belue diffinitio convenit? Qui est magis belua quam cui belue inest natura nec aliquid habet hominis preter formam? In diversa genera beluarum mutantur; quidam enim in suem, quidam in leonem, quidam in canem, quidam in vulpem. Hoc manifeste exponit Boethius dicens: «Si in fedis immundisque libidinibus immergitur sus habeatur; iracundia urgetur: leonis animum gestare credatur; linguam litigiis exercet: canis latrans est; insidiator occultis fraudibus surripuisse gaudet: vulpecule mores exequitur»698. Ulixes vero voluptates abiciens rationalis manet.

Inf. XXVI, 90-99:

[…] «Quando mi diparti‟ da Circe, che sottrasse me più d‟un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ‟l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l‟ardore ch‟i‟ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore […»].

L‟interferenza tra Commentum e Commedia è qui di natura tematica. A questo punto una breve digressione su Ulisse s‟impone.

694 P. Renucci, Dante, disciple et juge du monde gréco-latin, Paris, Les Belles Lettres, 1954, p. 24.

695 J.W. Duff (eds.), Minor Latin Poets, Cambridge-London, Harvard University Press-Heinemann, 1968, p.

608.

696 Commentum, cit., XXI, 23; XXII, 1-16.

697 Cfr. Fulg., Mythol. II, 7; ibidem, II, 9; Myth. Vat. III, ii, 6; III, ii, 8; Bern. Silv., In Mart. Cap. I, 2. 698 Boeth., Cons. philos, IV, pr. 3, 17-25.

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Nell‟Eneide Ulisse, rispetto al pius Enea, è detto durus, saevus, pellax, dirus. Al giudizio legato a questa aggettivazione deve aggiungersi, inoltre, la condanna pronunciata nei suoi riguardi dal greco Sinone. Ma egli è soprattutto scelerum inventor, fandi fictor, il suo nome è legato al concetto di “frode scellerata”.

La figura di Ulisse delineata da Virgilio è un modello dal quale non divergono né Ovidio né Stazio nella formulazione del loro giudizio morale. L‟Achilleide, nella quale Stazio chiama Ulisse providus heros, acer, sollers, consiliisque armisque vigil, sagax,

varius, ci mostra la straordinaria eloquenza dell‟Itacese. È grazie all‟arte “rettorica” che

Ulisse stana Achille e lo convince a partire in guerra, la stessa guerra che egli, fingendosi pazzo, tentò di disertare. Strappando Achille ai suoi affetti, Ulisse si guadagna la maledizione di Teti e la vendetta di Nettuno.

Anche le Metamorfosi non si distaccano di molto dalla figura sopra delineata. Anche qui è ribadita l‟arte di ingannare con le parole, ficta verba: così, grazie anche all‟aiuto di Diomede, Ulisse ottiene per sé le armi di Achille, le quali per valore sarebbero toccate ad Aiace (e infatti il mare infuriato le strapperà poi al Laerziade per posarle sulla tomba di questi). Ma Ulisse è qui anche audax, experiens, così come lo descrivono Achemenide e Macareo, il quale attribuisce a Ulisse il merito di aver liberato i compagni dalle insidie di Circe.

Anche Bernardo Silvestre inquadra e valorizza l‟episodio di Circe, evidenziando come Ulisse rifiuti la vita lussuriosa che la maga prometteva ai greci. Per Bernardo che legge in chiave moraleggiante le avventure dell‟Itacese, è fuori di dubbio che nell‟episodio in questione l‟eroe compariva quale il vincitore sul vizio, colui che conosce le passioni ma che non se ne lascia dominare.

Il racconto di Dante riparte da questo momento. Quale il motivo di questa scelta singolare? Il poeta riprenderebbe la narrazione da dove l‟aveva lasciata Ovidio (come questi l‟aveva ripresa a sua volta da Virgilio), e non come “puro dato esteriore”, semmai come “geniale interpretazione” di quanto gli avevano tramandato gli autori latini. Ma cosa sottolinea l‟interpretazione dantesca? Se le vicissitudini di Enea sono allegoria del travaglio umano, la stessa interpretazione morale subisce la storia di Ulisse699.

Più volte nel Convivio la vita morale è figurata come una lunga navigazione che tende verso l‟approdo finale: «[l‟anima] ritorna a Dio, sì come a quello porto onde ella si partio quando venne ad intrare nel mare di questa vita […]»700.

Nella Commedia poi, il riferimento alla partenza di Ulisse dall‟isola di Circe è legato alla sottolineatura del suo ardore conoscitivo. Ci può essere a riguardo un influsso del

Commentum di Bernardo Silvestre, che contrappone ai piaceri elargiti da Circe, la

razionalità di Ulisse. In Bernardo e in Dante Ulisse è l‟uomo razionale, il sapiente che

699 Cfr. G. Padoan, Ulisse «fandi fictor» e le vie della sapienza, in Il pio Enea, l‟empio Ulisse. Tradizione

classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna, Longo, 1977, pp. 170-99; R. Montano, Il «folle volo» di Ulisse, in «Delta» II, n.s., 1952, pp. 10-32; M. Fubini, Il canto XXVI dell‟Inferno, Roma, Signorelli 1952,

pp. 36; poi in Letture Dantesche. Inferno, a cura di G. Getto, Firenze, Sansoni 1955, (3a ed. 1964), pp. 491- 513; in Il peccato di Ulisse e altri scritti danteschi, Milano-Napoli, Ricciardi 1966, pp. 37-76; infine in

Letture scelte sulla Divina Commedia, a cura di G. Getto, Firenze, Sansoni 1970, pp. 355-379.

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intende proseguire nella navigazione conoscitiva, senza farsi distogliere dalla lussuria e dai piaceri (Dante aggiunge: dagli stessi doveri familiari)701.

Tuttavia il giudizio di Dante su Ulisse è fortemente critico, in forza di una tradizione medievale diffidente verso la pura saggezza mondana. È sintomatico: l‟aggettivo

sapiens, nel medioevo cristiano, non implica un giudizio morale necessariamente positivo.

Se infatti veniva riconosciuta come vera l‟affermazione – posta come esordio del Convivio – con la quale Aristotele apriva la Metafisica: «omnes homines natura scire desiderant», era altresì sottolineata la distinzione tra vera sapienza e vana sapienza, cioè tra la sapienza rivolta alla conoscenza del divino e la sapientia mundi. Questa sapientia mundi, come aveva detto san Paolo, era ritenuta «stultitia apud Deum»702. Frequente era la condanna del desiderio peccaminoso di conoscenza, del sapere fine a se stesso, della curiositas703, così come la chiamano i teologi. A tale curiositas fa cenno Agostino come «experiendi noscendique libido»704 e di essa tratta anche l‟Aquinate. Si tratta di posizioni fondamentali per l‟uomo medievale. La sapientia mundi, dunque, non è solamente stoltezza, non è solamente «superbum studium inanissimae gloriae»705, essa può anche essere uno strumento rivolto al male: «Sapientes sunt, ut faciant mala; bene autem facere nescierunt»706. Lo stesso Gregorio la identifica con la fraudolenza: «Huius mundi sapientia est cor machinationibus tegere, sensum verbis velare, que falsa sunt vera ostendere, que

vera sunt fallacia demonstrare»707; già nella Bibbia il falso sapiente è fallax e mendax: «Verba bilinguis quasi simplicia: et ipsa perveniunt usque ad interiora ventris»708.

Per Dante, Ulisse è sì il personaggio razionale di Bernardo Silvestre, ma è al tempo stesso il falso sapiente; fallace e mendace come già in Virgilio, Ovidio, Stazio.

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♦ Bernardus Silvestris, ad Aen.VI, 118 LVCOS [rectius LVCIS], LIII709:

Autem vocat bona temporalia quia habent tres qualitates luci qualitatibus consimiles. Quemadmodum enim nemora propter solis absentiam sunt obscura, ita propter deffectum rationis temporalia. Sicut nemora propter multitudinem varietatemque viarum sunt invia, ita temporalia propter varias vias que ad summum bonum ducere videntur, cum non ducant, invia sunt. Avernus dicitur nemus sine vere quasi sine delectatione; ita et illa sine vera delectationes sunt.

701 Questo, per il Silvestre, il significato dell‟espressione «VNVM ORO» di Enea (Aen. VI, 106): «ut per

creaturarum cognitionem creatorem agnoscat». Cfr. T.H. Silverstein, Dante and Vergil the Mystic, cit., p. 80; G. Padoan, Teseo “figura Redemptoris” e il cristianesimo di Stazio, in Il pio Enea, l‟empio Ulisse, cit., p. 144 e n. 58; G. Padoan, Ulisse «fandi fictor» e le vie della sapienza, cit., p. 184.

702 I Ad Cor., III, 19.

703 Cfr. S. Tommaso, Summ. Theol., II, ii, quaest. 167, art. 1; R. Montano, Il «folle volo» di Ulisse, cit., pp.

150-152; W.B. Stanford, Dante‟s conception of Ulysses, in «The Cambridge Journal» IV, 1953, pp. 239-47.

704 Conf., X, 35; cfr. R. Montano, Il «folle volo» di Ulisse, cit., pp. 152. 705 S. Agostino, De beata vita, loc. cit.

706 Ier., IV, 22.

707 Moralia, X, 29 (PL, LXXV, 947). 708 Prov., XVIII, 8.

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Inf. I, 1-3:

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.

L‟immagine dantesca della selva ha varie ascendenze che è opportuno ribadire. Risultano innanzitutto evidenti le reminiscenze virgiliane in rapporto alla funzione assegnata al personaggio Dante, e ai frequenti richiami testuali. L‟ingresso dell‟Averno è circondato da fitti boschi: «Triviae lucos», «lucis… avernis», «Tenent media omnia silvae», «lucos Stygios», «antiquam silvam», «silvam immensam», «tuta lacu nigro nemorimque tenebris», e ancora: «Ibant obscuri sola sub nocte per umbram / perque domos Ditis vacuas et inania regna: quale per incertam lunam sub luce maligna / est iter in silvis, ubi caelum condidit umbra / Iuppiter et rebus nox abstulit atra colorem»710. La suggestione dell‟ambientazione dantesca e le non poche rispondenze ci riportano dunque all‟Eneide e alla catabasi del libro VI.

Vero è che in Dante la selva costituisce la «proiezione metaforica di uno stato esistenziale individualmente e storicamente localizzabile che, per espressa intenzione del poeta, diviene nel contempo il simbolo di una condizione morale-religiosa non astrattamente categoriale (il peccato) ma paradigmatica (un exemplum), sostanziata quindi non di nuda teorizzazione teologica, bensì di una sofferenza individuale sentita a un tempo come dolore di una collettività inserita in un determinato contesto storico, e come dolore della creatura uomo»711. Ciò comunque non indebolisce il riferimento all‟Eneide. Semmai rende indispensabile il ricorso alla tradizione dei commenti al capolavoro virgiliano.

Ancora una volta è doveroso chiedersi: come Dante leggeva l‟Eneide? Quale significato aveva per lui? Chi era Virgilio per Dante?

Muoviamo da quest‟ultima. Dante non prende in considerazione la tradizione mitica fiorita intorno al personaggio di Virgilio; egli lo considera, secondo l‟autopresentazione del I canto, poeta. Più complesso risulta invece determinare linterferenza dei commenti virgiliani in questo avvio della Commedia.

Da Macrobio dipenderebbe l‟espressione riferita a Virgilio che spande «di parlar sì largo fiume». Le coordinate anagrafiche, che inquadrano la biografia di Virgilio in Inferno I, derivano dalle vite di Servio e Donato712. A Fulgenzio e alla sua De virgiliana

continentia, risalirebbe l‟idea di introdurre in scena lo spirito del poeta latino e di farlo

interloquire, in quanto anche Fulgenzio ricorre alla prosopopea del poeta latino, il quale compare nella Continentia per spiegare quanto di riposto vi sia nell‟Eneide. Anche in

710 Aen., VI, 13; 118; 131; 154; 179; 186; 238; 268-72.

711 E. Ragni, s.v. selva, in Enciclopedia Dantesca, V, Roma, 1976, pp. 137-42; p. 139. Cfr. S. Bellomo, «Una

selva oscura»: Il prologo della «Commedia», in Francesco Bruni (a cura di), «Le donne, i cavalier, l‟arme, gli amori». Poema e romanzo: la narrativa lunga in Italia, Venezia, Marsilio, 2001, p. 43; J. Freccero, Dante. La poetica della conversione, Bologna, Il Mulino, 1989 [ed. or. 1986], pp. 21-52.

712 Cfr. V. De Angelis, G.C. Alessio, «Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi» (Inf. I, 70), in Studi vari di

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questa circostanza si fa cenno al tema della saggezza di Virgilio anche se, in quanto pagano, egli è escluso dalla conoscenza piena.

L‟interpretazione fulgenziana è condivisa e ripresa da Bernardo Silvestre. Questi, come abbiamo visto, riconosce in Enea l‟animo umano e nella sua epopea vede il racconto della sua realizzazione nel mondo, il cui culmine cade nell‟età virile, età nella quale l‟uomo deve giungere alla conoscenza di Dio, raffigurato da Anchise. Il descensus si configura allora come percorso sapienziale e iniziatico ad temporalia, con lo scopo di conoscere se stessi, le creature e il Creatore. Un simile viaggio deve essere preceduto da un processo di purificazione e preparazione filosofica, le cui tappe vanno rintracciate in tutti quegli episodi che condurranno Enea alle porte dell‟Ade. Risalto acquistano i boschi che Enea deve attraversare, e che l‟esegesi di Bernardo approfondisce allegoricamente.

Vi è anzitutto il bosco di Trivia, dove approda la flotta troiana; esso viene inteso come l‟applicarsi dell‟uomo maturo all‟arte dell‟eloquenza. L‟altro bosco si trova invece all‟interno dell‟Averno. Nella preghiera che Enea rivolge alla Sibilla la chiama “custode dei boschi dell‟Averno”. È il passo che suggerisce a Bernardo la postilla da cui abbiamo preso le mosse. Secondo Bernardo si tratta dei beni temporali, bona temporalia.

Enea si configura dunque come colui il quale si perfeziona acquisendo intanto l‟eloquenza, secondo il concetto, noto alla retorica classica (Quintiliano e l‟autore della

Retorica ad Herennium), per cui la sapienza non vale nulla senza l‟eloquenza. Questo

primo aspetto è già significativo per Dante. Nel De vulgari eloquentia compare infatti un‟affermazione riferita a Virgilio, il quale chiama “figli degli dèi” i grandi poeti:

Et hii sunt quos Poeta Eneidorum sexto Dei dilectos et ab ardente virtute sublimatos ad ethera deorumque filios vocat, quanquam figurate loquatur. Et ideo confutetur illorum stultitia qui, arte scientiaque immunes, de solo ingenio confidentes, ad summa summe canenda prorumpunt; et a tanta presumptuositate desistant, et si anseres natura vel desidia sunt, nolint astripetam aquilam imitari.713

Si innesta qui un altro tema proveniente dal Commentum. In vero in Eneide VI, 129-31, “figli degli dèi” sono Ercole, Teseo, Orfeo, Castore e Polluce. Sembra che i poeti non c‟entrino nulla con costoro. Ma Bernardo Silvestre chiosa che per “figli degli dèi” si devono intendere anche i figli di Calliope, gli eloquenti, cioè i poeti-sapienti, ovvero i poeti-teologi:

DIS GENITI: filii Apollinis: sapientes; filii Calliopes: eloquentes; filii Iovis: rationabiles. Hii sunt semidei, id est in anima rationales et immortales, in corpore mortales714.

Dante trovava dunque in Bernardo l‟estensione ai poeti del sintagma virgiliano «dis geniti»715. Ma non è tutto. I versi virgiliani sui “figli degli dèi”, cui sta alludendo Dante,

713 De vulgari eloquentia II, iv, 10-11. Si cita dall‟edizione a cura di P.V. Mengaldo, Padova, Antenore,

1968.

714 Commentum, cit., LVII, 11-13; cfr. Mart. Cap., De nupt., II, 156.Tra i celebri descensus è ricordato quello

di Orfeo, poeta-theologus per eccellenza, figlio di Apollo e Calliope. Cfr. E.R. Curtius, Letteratura europea e

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muovono però da un‟altra prospettiva; essi sono riferiti al viaggio nell‟oltretomba (Aen. VI, 129-31):

[…] Pauci, quos aequos amavit

Iuppiter aut ardens evexit ad aethera virtus, dis geniti potuere […].

L‟importanza capitale che assumono queste parole della Sibilla emerge se si considerano le parole precedenti (Aen., VI, 126-29):

[…] facilis descensus Averno; noctes atque dies patet atri ianua Ditis;

sed revocare gradum superasque evadere ad auras, hoc opus, hic labor est […].

In Virgilio vi è dunque una connessione fra prediletti degli dèi e protagonisti di un viaggio oltremondano. Ora Bernardo Silvestre include fra questi prediletti i poeti. Infatti per il Silvestre la discesa agli inferi rappresenta la cognizione delle verità ultime cui solo i sommi poeti possono giungere. È un altro spunto ben presente a Dante e che viene valorizzato nell‟avvio della Commedia.

Dante medesimo nel Limbo è accolto quale sesto tra i grandi poeti; non vale per lui l‟avvertimento di Minosse, «guarda com‟entri e di cui tu ti fide: / non t‟inganni l‟ampiezza dell‟entrare!» (Inf., V, vv. 19-20). Anche Dante fa parte del novero dei dis geniti, e pertanto dopo il descensus gli sarà concesso, per grazia divina, l‟ascensus. Nasce così, sulla scorta di questa tradizione culturale, la «convinzione di Dante del rapporto di identità tra poeta, visionario, profeta, viaggiatore apocalittico»716.

La selva rapresenterebbe la fase propedeutica – di carattere conoscitivo, tecnico e morale – del viaggio. Sovrapponendo la selva virgiliana dell‟Averno, «nec te / nequiquam lucis Hecate praefecit Avernis»717, letta secondo il filtro del Silvestre, con quella dantesca

notiamo che entrambe sembrano combaciare. La diversità del primo canto rispetto al poema è di per sé un elemento significativo. La selva del proemio è estranea al resto della narrazione, essa è posta fuori sia dall‟inferno sia dalla Commedia medesima, in quanto parla di un poema che sta per iniziare ma non è ancora cominciato718. Il lettore viene così

715 Per N. Mineo i grandi poeti si distinguono dagli altri versificatori per aver utilizzato canoni ben precisi e,

soprattutto, per aver saputo contemperare doti naturali e perizia tecnica: essi sono i diletti da Dio, secondo la definizione del VI dell‟Eneide ripresa da Dante. L‟espressione sopra evidenziata sembra riecheggiare quella veterotestamentaria e riferita a una certa categoria di profeti: «amicos Dei et prophetas eos constituit» (Sap., VII, 27). Siffatto accostamento – sia esso intenzionale o non del tutto consapevole – è utile a mostrare in

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