2. Per una definizione concettuale delle emozion
2.1 Teorie e concezioni classiche delle emozion
Seguendo la suddivisione storica appena introdotta possiamo considerare William James come il primo psicologo ad aver formulato una rudimentale teoria sulle emozioni: la cosiddetta “Teoria
periferica” (James 1884; Lange 1885). Contrariamente al senso comune, tale teoria affermava che
gli esseri umani quando accade un avvenimento per prima cosa sperimentano dei cambiamenti fisiologici e somatici e solo la successiva sensazione complessiva prodotta da tali modificazioni può definirsi un emozione:
“Il senso comune dice che ci accade qualcosa di brutto, siamo dispiaciuti e singhiozziamo (…) La mia ipotesi (…) è che ci sentiamo dispiaciuti perché piangiamo, arrabbiati perché accaloriamo, impauriti perché tremiamo” (James,
1890. pag 31 ).
In maniera del tutto indipendente le stesse considerazioni venivano avvalorate,
contemporaneamente anche dalle ricerche del fisiologo norvegese Lange (1885). La teoria periferica appare come il primo tentativo di legittimare la psicologia allo studio delle emozioni definendola in chiave empirica come la presa di coscienza di cambiamenti riflessi che avvengono nella muscolatura e nelle viscere. In aperto contrasto con James e Lange, il neurofisiologo Walter Cannon, enunciò la “Teoria centralista”, (Cannon 1927; Bard 1928) nel tentativo di dimostrare l’indipendenza delle emozioni dalle sensazioni viscerali e somatiche. Grazie ai risultati di alcuni esperimenti di laboratorio su alcuni animali Cannon - operando progressive resezioni delle vie nervose dalla periferia fino al sistema nervoso centrale - concluse che le espressioni emotive apparentemente non risentivano di un mancato feedback dai visceri. Secondo l’autore infatti i centri di attivazione, di controllo e di regolazione delle emozioni sono localizzati nel talamo che sarebbe in grado simultaneamente di inviare informazioni verso la corteccia - dove risiedono le rappresentazioni psicologiche delle emozioni - e verso gli organi effettori (muscoli, visceri, vasi sanguigni) che daranno il via alle risposte viscerali e motorie funzionali alla situazione. Altre obiezioni alla teoria periferica di James e Lange derivano, secondo Cannon, dalle dimostrazioni che i cambiamenti fisiologici caratteristici delle emozioni si attivano anche in altri comportamenti che nulla avrebbero a che fare con le emozioni (ad esempio il batticuore relativo ad uno sforzo fisico) ed inoltre gli stessi cambiamenti fisiologici sono troppo lenti rispetto alla velocità con cui viene
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percepita un’emozione. Spesso la letteratura ha riconosciuto nelle ricerche di Cannon il punto di inizio storico di un disinteresse verso i fenomeni emotivi - che perdurerà per diversi decenni- da parte della psicologia a scapito della fisiologia. Tuttavia gran parte di questo disinteresse della psicologia ai fenomeni emotivi sembra in realtà ascrivibile a concezioni teoriche interne alla psicologia stessa. Sicuramente la nascita nella psicologia del behaviorismo con Watson (1913) ha avuto un ruolo centrale nello soffocare l’interesse della psicologia verso le emozioni. Secondo Watson la nuova scienza del comportamento avrebbe dovuto eliminare lo studio di tutte le tematiche soggettive ed in generale tutto ciò che fosse riconducibile alla studio della coscienza concentrandosi soltanto sui comportamenti osservabili. Guidato dal desiderio di fare della psicologia una scienza “dura” al pari di altre, come ad esempio la fisica, Watson in alcuni suo scritti (1919, 1920, 1924) affronta più volte la questione delle emozioni riducendole a pochi riflessi emotivi derivanti da strutture di risposta fisiologiche geneticamente ereditate. Agli inizi del novecento anche la nascente psicologia clinica ha contribuito in modo significativo al disinteresse verso lo studio dei fenomeni emotivi. Alcuni tra i primi psicologi clinici hanno definito le emozioni addirittura come comportamenti inadeguati e primitivi, atti a fronteggiare determinati eventi, connotandole in alcuni casi come cause di una situazione in cui il soggetto si trova sotto “scacco”, soggiogato da questa emotività (Janet 1902). Anche la nascita della psicoanalisi, nonostante il manifesto interesse verso fenomeni che andavano oltre la consapevolezza, non cambia di molto questa visione negativa delle emozioni. Freud stesso, fondatore della psicoanalisi, può essere annoverato tra i sostenitori di una visione quasi patologica dei fenomeni emotivi. In realtà Freud, non elaborò mai una vera e propria teoria delle emozioni, tuttavia nelle sue prime formulazioni teoriche definisce le emozioni come scariche energetiche, pulsioni - che emergono turbando l’esistenza dell’individuo - provenienti dalla sfera dell’inconscio, definito come “Es” (Freud, 1915- 1917). Se in successive revisioni teoriche lo stesso autore approderà ad una visione maggiormente dinamica - che integra in parte le emozioni nel dominio della coscienza sotto il controllo dell’Io secondo una visione più adattiva delle emozioni (Freud 1925) - tuttavia non fornirà mai un modello esaustivo in grado di rispondere di una funzionalità o disfunzionalità delle emozioni nell’uomo. Inoltre il lavoro di Freud lungo tutto il suo complesso e vasto sviluppo teorico, focalizzerà sempre l’interesse verso lo studio di emozioni negative (si pensi ad esempio alla centralità dell’ansia e dell’angoscia nella psicoanalisi) come segnali di disagio o conflitto interno all’individuo (Freud 1933). Appare chiaro come le prospettive teoriche fin qui sintetizzate si siano occupate in modo frammentario delle emozioni, spesso connotandole con un significato negativo. Nonostante ciò
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alcune concezioni e approcci tra quelli descritti, trovano conferma anche nei risultati ottenuti da alcune recenti ricerche in campo psicologico. Ad esempio l’importanza del concetto jamesiano che vedeva nelle variazioni espressivo-corporee le cause del nostro esperire le emozioni ha ricevuto conferme in passato ad esempio dagli studi di Laird (1974) - che mostrarono come modificazioni volontarie della muscolatura facciale corrispondono a cambiamenti nello stato affettivo – e più di recente anche modificazioni della postura corporea studiate da Stepper e Strack (1993) o nella respirazione studiate da Philippot e collaboratori (2002), hanno confermato l’attualità del pensiero di James almeno in parte per quanto concerne gli aspetti relativi all’esperienza soggettiva presenti nelle emozioni (Rimé 2008). Anche le posizioni del “behaviorismo radicale” di Watson nonostante il proprio contributo teorico all’avanzamento delle conoscenze in ambito psicologico, come spesso accade ad impostazioni teoriche “drastiche”, si può affermare che abbiano avuto nel tempo un effetto contrario ai propri intenti portando gran parte della psicologia nordamericana a rivalutazioni proprio dei temi soggettivi ed in particolare delle emozioni.