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Teorie evolutive sul design ‘non intenzionale’

6. Charles Robert Darwin (Shrewsbu- ry,  12 febbraio  1809  –  Londra,  19 aprile 1882) è stato un biologo, geo- logo, zoologo e botanico britannico, celebre per aver formulato la  teoria dell’evoluzione  delle  specie  anima- li  e  vegetali  per  selezione natura- le  agente sulla  variabilitàdei carat- teri (origine delle specie), e per aver teorizzato la  discendenza  di tutti i primati (uomo compreso) da un an- tenato  comune (origine dell’uomo). Pubblicò la sua teoria sull’evoluzione delle specie nel libro  L’origine delle specie  (1859), che è rimasto il suo lavoro più noto. Raccolse molti dei dati su cui basò la sua teoria duran- te un viaggio intorno al mondo sulla nave  HMS  Beagle, e in particolare durante la sua sosta alle Isole Galápa- gos.

7. D. Pario Perra, Op Cit., Milano 2010, pp. 10

sottolineando il ruolo attivo legato all’atto creativo, in esplicito contrasto con il mondo del consumismo (o ‘pos- sessismo’7); infatti diviene fondamentale osservare non

tanto l’atto creativo in sé o il suo risultato, quanto piutto- sto il processo di trasformazione compiuto dall’autore nei confronti dell’oggetto. Sembra quasi che l’autore esprima un’attitudine a sottolineare gli “indicatori culturali di una progettualità collettiva” dell’oggetto di (re)design piuttosto che a comprenderlo in sé, allo stesso modo in cui Darwin applica un approccio sociologico alle ricerche sulla teoria dell’evoluzione; in tale direzione, ad esempio, Pario Perra cerca di far leva sull’immaginario del “possessore origina- rio” dell’oggetto, facendo osservare a quest’ultimo nuove possibilità, ed invitandolo a praticarle nel quotidiano.

Si delinea così una affinità con gli objets trouvés di Du- champ, per il quale era fondamentale non la provenienza dell’oggetto, ma l’idea che ne metteva in discussione il significato. Allo stesso tempo, però, Duchamp sosteneva che l’atto creativo8 non dovesse essere compiuto soltanto

dall’artista, ma che fosse il risultato dell’interazione con il pubblico, che così prendeva parte al processo creativo; se- condo lui era lo spettatore a mettere in relazione “la mate- ria intima dell’artista” con il mondo esterno attraverso l’atto di decifrare ed interpretare l’opera, divenendo quindi egli stesso un elemento fondamentale del processo artistico. Per Duchamp la possibilità di valutare un’opera d’arte av- veniva attraverso ciò che egli stesso definiva “il coefficien- te artistico” di un’opera: una sorta di relazione matematica tra ciò che è inespresso, ma desiderato dall’artista e ciò che era espresso (quindi interpretabile dallo spettatore) ma non voluto dall’artista.

Si può affermare che lo scopo della ricerca sia la de- scrizione di ciò che potremmo definire ‘un’estetica del processo’, più che del prodotto, tant’è che i progetti spon- 8. Il concetto espresso è stato

liberamente tradotto ed inter- pretato dalla conferenza “Marcel Duchamp THE CREATIVE ACT, Session on the Creative Act, Convention of the American Federation of Arts, Houston, Texas, April 1957” riportata in R. Le- bel, Marcel Duchamp, Grove Press, New York, 1959, pp. 55

tanei sono stati catalogati in 5 “livelli di progettazione” in relazione alla complessità del processo creativo al quale sono soggetti: il punto di partenza sono gli “oggetti ele- mentari”, che non subiscono alcuna modifica strutturale, ma cambiano semplicemente uso rispetto all’originale (l’o- blò della lavatrice che diventa un portafrutta). Il secondo passaggio è dato dagli oggetti che subiscono una modifi- ca semplice, attraverso operazioni elementari come taglio, piegatura, scavo, addizione di un piccolo elemento, ecc.; si pensi ad esempio alla grattugia realizzata col barattolo di fagioli, alle posate piegate per diventare un portacan- dele o un bracciale, e ancora al fertilizzatore nato dalla bottiglia di plastica capovolta e adattata. Nel terzo livello di catalogazione troviamo invece gli “oggetti ottimizzati”, i quali cominciano già a mostrare una più elevata capacità di astrazione e una maggiore capacità di astrazione e di elaborazione da parte del progettista, che deve compiere una sequenza coordinata di operazioni per raggiungere l’obiettivo; in questo caso il nuovo utilizzo è spesso molto lontano dall’originale, come nel caso dei compact disc usa- ti per allontanare gli uccelli, del fusto utilizzato come cati- no o barbecue , o della panchina fatta con gli skateboard. Si passa poi agli “oggetti elaborati”, che dimostrano anche la capacità di applicare discipline diverse per la risoluzione di un problema, fino all’ultimo livello, che comprende gli “oggetti completi” dei quali la caratteristica fondamenta- le è la semplicità concettuale con cui si è passati dall’uso previsto all’uso reinterpretato e nei quali il valore fonda- mentale è acquisito come stretto legame tra l’utilità e la semplicità di realizzazione: così un ferro da stiro diventa scaldavivande, le bacchette cinesi sono ‘occidentalizzate’ con una molla, e una pellicola di polietilene permette di realizzare un dissuasore dai furti.

ti, complementare si collocano le autrici di Design by Use,9

Uta Brandes e Miriam Wender, per le quali la tesi centrale della loro ricerca si focalizza sull’idea che “forme simili ven- gono utilizzate con lo stesso scopo, anche se gli oggetti d’origine sono differenti”3, sostenendo pertanto che “la for-

ma segue l’uso” ed ironizzando sull’aforisma modernista “la forma segue la funzione”. Ciò che definiscono Design non intenzionale (NID), si verifica quando un oggetto viene utilizzato in maniera differente rispetto alla sua ideazione. L’approccio al NID osserva la nascita di una funzione, e il significato degli oggetti attraverso l’uso quotidiano. Uno degli aspetti più interessanti della ricerca è dato dall’evi- denza di voler mettere in relazione la nascita degli oggetti NID con lo sviluppo della società industriale e dei consu- mi: infatti è soltanto attraverso la produzione di massa de- gli oggetti, che le persone vengono spinte ad una neces- sità di diversificazione attraverso l’uso. Va precisato che il NID non è un processo o una pratica progettuale, poiché nulla è il frutto di una riflessione programmata o preor- dinata, ma nasce piuttosto dalla necessità di risolvere un problema pratico. Non esiste quindi una vera riflessione di carattere progettuale, ma non si può nemmeno dire che gli obiettivi vengono raggiunti per coincidenze o fortuna o che non siano il frutto di una volontà o una scelta stra- tegica: il riuso è molto spesso il risultato del desiderio di risolvere un problema.

Ancora una volta, risulta essenziale la relazione tra uti- lizzo e scelta: l’uso implica una scelta, e questa può anche rivelarsi differente da quella del progettista; ciò ci insegna a valutare un oggetto non soltanto per le sue qualità in- trinseche, ma anche per quello che potremmo definire il suo ‘potenziale di riuso’.

9. U. Brandes, S. Stich, M. Wender, Design by Use. The Everyday Metamorphosis of Things, Birkhäuser Verlag, Berlin 2009, p. 55

Il primo passo che ci conduce dal mondo del proget- to industriale a quello dell’architettura, riusciamo a com- pierlo osservando il lavoro di ricerca condotto dagli studi 2012Architects e Suite75 in circa sei anni di attività.

L’approccio utilizzato da questi gruppi può essere facil- mente sintetizzato dal sottotitolo del libro Superuse: “con- structing new architecture by shortcutting material flow”, cioè realizzare un nuovo progetto d’architettura accorciando quella che si potrebbe definire la catena produttiva di un certo materiale da costruzione. Infatti ciò che nella realiz- zazione di un prodotto viene definito material flow - lette- ralmente ‘flusso del materiale’- non è altro che la descrizio- ne della nascita del materiale come un flusso continuo: dal trasporto delle materie prime, alla prefabbricazione di par- ti, elementi e componenti, fino alla realizzazione del pro- dotto finito. Generalmente un edificio è costituito da una gerarchia di elementi la cui combinazione in proporzioni e misure predeterminate produce il risultato; in quanto struttura gerarchica l’edificio parte dalla base più semplice possibile, che è solitamente costituita dal ‘materiale grez- zo’; la combinazione di alcuni materiali grezzi produce ciò che viene definito il materiale da costruzione, che a sua