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La terza satira

Nel documento L'exemplum storico nelle Satire di Giovenale (pagine 177-193)

La terza satira ha la forma di un libero sfogo non del poeta stesso, ma di un suo amico, finalmente deciso a lasciare la capitale: Umbricio, questo il suo nome, ha stabilito di trasferirsi a Cuma, dove la vita è più agevole e la località amena favorisce la tranquillità d’animo. Roma ormai è stata invasa, è divenuta un covo di Graeculi564

astuti, abili a inserirsi nella vita sociale romana arrivando alle più alte cariche e diventando confidenti di potenti che sono poi pronti a tradire, versatili nell’offrire ai Romani qualsivoglia genere di servizio, pronti ad adulare difetti o a recitare a teatro in ruoli femminili meglio delle donne stesse; Graeculi senza morale che portano a Roma la mollezza e la lussuria e ne contagiano gli stessi Quiriti, che riescono a cambiare faccia col mutare di chi hanno intorno, che non risparmiano alcuna donna in favore della propria libidine, delatori al proprio patronus di clienti onesti. I buoni Romani sono perciò costretti a cedere di fronte a questi stranieri, a venir sprezzati dai propri patroni, sottoposti a grandi umiliazioni, derisi per la propria miseria. I Romani sono ormai poveri e la vita costa cara: a Roma tutto si paga – paradossalmente, anche il legame clientelare – e non è più sufficiente vivere dignitosamente; per non sfigurare coi ricchi stranieri bisogna ostentare ogni tipo di lusso e ricoprirsi di debiti. La città poi è sovraffollata, la vita per le persone più indigenti è pericolosa: edifici poco sicuri crollano per la negligenza degli amministratori, gli incendi sono all’ordine del giorno, il traffico notturno che impedisce di dormire causa nevrosi, i carri che intasano le vie coi loro carichi pesanti spesso stritolano poveri malcapitati, tegole o pitali possono uccidere chi di notte passa sotto le abitazioni, sfortunati passanti possono venir assaliti dagli ubriaconi, ladri o assassini che infestano Roma; l’unica opzione per un cliens povero è partire. Una partenza, tuttavia, sofferta, con una grande amarezza di fondo: Umbricio ha dovuto cedere di fronte all’insostenibilità della vita nella grande città, ma indugia presso gli antichi archi565, la porta Capena (substitit ad veteres arcus

564 Secondo Pascucci 1979 (pp. 105-106), l’intera terza satira di Giovenale si configurerebbe come una parodica

“seconda presa e caduta di Troia”: a supporto di questa tesi sarebbero l’invasione dei Greci che scalzano i Romani e stanno praticamente conquistando la città (vv. 60-61: Non possum ferre, Quirites, / Graecam Urbem), il catalogo dei nemici (vv. 69-70: Hic alta Sicyone, ast hic Amydone relicta, / hic Andro, ille Samo, hic Trallibus aut Alabandis), la loro passione per il furto e l’inganno, Umbricio che – novello Anchise – decide di lasciare Roma prima che sia troppo tardi, l’antieroica lotta dell’ubriacone con il debole anziché con il forte (contraria a una tradizionale aristia), l’incendio dell’alloggio di Ucalegone, il linguaggio epico e le riprese da Virgilio. Il significato di tutto ciò potrebbe essere quello esplicato: “perhaps it is a foreshadowing of the death of Rome” (Pascucci 1979, p. 102). D’altro canto i nemici non sono più i Greci di un tempo, quelli nobili e valorosi dell’epica, ma i loro discendenti degeneri, i Graeculi imbastarditi dall’Oriente.

565 Gli antichi archi qui citati potrebbero essere quelli dell’Aqua Appia, acquedotto la cui costruzione risalirebbe

a circa 400 anni prima e che spiegherebbe l’associazione di Capenam con madidam (cfr. Santorelli 2011, p. 304 n. 7), oppure gli archi trionfali dedicati a Romolo e agli Orazi posti dietro la Porta Capena, che veniva per questo chiamata anche Triumphalis. Cfr. Pascucci 1979, p. 90.

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madidamque Capenam) e il santuario della ninfa Egeria a rievocare nella mente l’aspetto di

Roma antica; il luogo non è più quello di un tempo: l’artificialità delle ville che vi sorgono vicino e l’infestazione del santuario da parte di affittuari Ebrei, che deturpano la sacralità del luogo con i loro loschi traffici, è ciò che di più diverso potrebbe esservi dall’antica purezza evocata dall’ingenuum tofum (3, 12-20):

Hic, ubi nocturnae Numa constituebat amicae (Nunc sacri fontis nemus et delubra locantur Iudaeis, quorum cophinus fenumque supellex; omnis enim populo mercedem pendere iussa est arbor et eiectis mendicat silva Camenis), in vallem Egeriae descendimus et speluncas dissimiles veris. Quanto praesentius esset numen aquis, viridi si margine cluderet undas herba nec ingenuum violarent marmora tofum.

La tecnica di Giovenale è quasi – per usare un anacronismo – cinematografica: dalla Porta Capena566 Giovenale e Umbricio scendono al bosco sacro, che appare in tutta la sua decadenza senza più le Camene567 ad abitarlo e gli alberi che – personificati – sono costretti a pagare il fitto all’erario e a mendicare; la Valle di Egeria è piena di grotte dissimiles veris568

e la sacra fonte non è più circondata da erba verde e tufo, ma da splendidi marmi, rendendo il tutto artificiale e lontano dalla sua primitiva spiritualità. Stranieri giudei e marmi estranei hanno invaso anche questo sacro luogo, che diventa quindi il posto perfetto per compiangere l’antica Roma e lamentare l’avvento dell’Oriente in città. Infatti il rimpianto per un passato sentito ormai lontano viene rafforzato tramite l’evocazione quasi visiva dell’antico locus e degli antichi personaggi ad esso legati, il re Numa e la ninfa Egeria, che usavano incontrarsi

566 Infatti la porta Capena, forse più antica delle Mura Serviane (il primo preciso accenno di esistenza risalirebbe

al tempo del re etrusco Tullo Ostilio), si trovava nella valle compresa tra il Palatino, il Celio e l’Aventino, di fronte al lato curvo del Circo Massimo e in prossimità della cosiddetta Valle della Camene: questa valle, che tutt’oggi si troverebbe all’incirca in corrispondenza delle terme di Caracalla, era in antichità boscosa, ricca di grotte e sorgenti d’acqua e considerata sacra agli dèi (cfr. Santorelli 2011, p. 304 n. 7).

567 Le Camene erano ninfe delle sorgenti, divinità antiche di provenienza italica: ne sono note quattro, ovvero la

stessa Egeria, Antevorta e Postvorta – invocate durante il parto perché il feto uscisse nella giusta posizione o, se girato, riuscisse a salvarsi – e Carmenta, da cui gli antichi derivavano il termine carmen. Da ciò esse vennero associate alle Muse greche (cfr. Santorelli 2011, p. 305 n. 11).

568 Secondo Santorelli 2011 (p. 306 n. 13) l’espressione starebbe a significare come le grotte siano talmente belle

da far pensare che le avessero costruite gli déi, ma – considerando la frase seguente – sarebbe più lecito supporre che le grotte non siano più naturali, ma visibilmente corrotte dall’artificio umano.

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proprio in quel posto569. Numa è nel pensiero romano un tradizionale exemplum di pietas e saggezza, nonché il fondatore della religione e dei culti della città; non è strano vederlo perciò affiancato da una divinità, che lo amasse e gli fungesse da consigliera570; proprio a questa divinità e alle Camene il re consacrò il boschetto che divenne di Egeria, in contemporanea con l’istituzione dei sacerdoti Salii e con la consacrazione della sorgente del bosco stesso all’uso rituale delle vergini Vestali: infatti Plutarco nella Vita di Numa (13, 1- 7) racconta che in seguito a una pestilenza a Roma cadde dal cielo nelle mani di Numa uno scudo di bronzo che avrebbe garantito la salvezza della città. Seguendo il consiglio di Egeria e delle Camene, questo avrebbe dovuto essere replicato in undici scudi uguali571 – poi realizzati dall’abile fabbro Veturio Mamurio – cosicché nessuno potesse riconoscere l’originale e rubarlo; alla sua custodia sarebbe stato istituito il sacerdozio dei Salii che il primo marzo di ogni anno, vestiti di tuniche scarlatte, cinture e elmi di bronzo, avrebbero imbracciato gli scudi percuotendoli con piccole spade e danzando a salti attraverso la città572. Al contempo, il luogo in cui cadde lo scudo e i dintorni – quello in cui Numa era solito incontrarsi con Egeria e le Camene – sarebbe stato consacrato alle stesse, la sorgente che lo irrorava sarebbe stata dichiarata sacra e la sua acqua usata dalle vestali per purificare quotidianamente il proprio tempio; la stessa sorgente che si trova citata da Giovenale ai vv. 18-20, deturpata nella sua originaria semplicità dallo sfarzo del marmo, che ne sminuisce la sacralità. La semplice menzione del luogo ubi

nocturnae Numa constituebat amicae è sufficiente quindi a richiamare alla memoria tutte

queste vicende ambientate nel passato semi-mitico di Roma, senza peraltro tralasciare un velo

569 Cfr. Pethes-Ruchatz 2002, p. 584 (s.v. topografia): “I luoghi, più delle parole, permettono di far rivivere nella

mente i grandi uomini e il loro operato […]. L’antica Roma, con i suoi templi, sale e piazze, che, nel compimento ciclico dei riti, sono collegati in una t. sacra, è un palinsesto del ricordo del mito e della storia, su cui, per secoli, si è continuato a narrare e a scrivere”. La medesima riflessione ritroviamo anche negli stessi autori latini; si prenda ad esempio Cic. fin. V, 2, 1-4: Naturane nobis hoc, inquit, datum dicam an errore quodam, ut, cum ea loca videamus, in quibus memoria dignos viros acceperimus multum esse versatos, magis moveamur, quam si quando eorum ipsorum aut facta audiamus aut scriptum aliquod legamus? […] tanta vis admonitionis inest in locis; ut non sine causa ex iis memoriae ducta sit disciplina.

570 Secondo la tradizione furono i consigli della ninfa al re Numa a fondare la religione romana: il mito avrebbe

così la funzione di legittimare i culti della città come “di origine o d’ispirazione divina” con un procedimento affatto nuovo (cfr. Plut. Num. 4, 3: ὅτι μὲν οὖν ταῦτα πολλοῖς τῶν πάνυ παλαιῶν μύθων ἔοικεν, οὓς οἱ Φρύγες τε περὶ Ἄττεω καὶ Βιθυνοὶ περὶ Ἡροδότου καὶ περὶ Ἐνδυμίωνος Ἀρκάδες ἄλλοι τε περὶ ἄλλων εὐδαιμόνων δή τινων καὶ θεοφιλῶν γενέσθαι δοκούντων παραλαβόντες ἠγάπησαν, οὐκ ἄδηλόν ἔστι). Nel passo Plutarco vede una costante nella formazione del mito dell’uomo saggio amato da una divinità presso varie popolazioni – il mito di Attis presso i Frigi, di Rodoite presso i Bitini, di Endimione presso gli Arcadi.

571 Questi scudi sono i cosiddetti scudi ancili, custoditi dal collegio sacerdotale dei Salii e poi fatti sfilare il primo

del mese dedicato al culto di Marte. Gli stessi scudi vengono citati da Giovenale già in 2, 126, dove il gladiatore omosessuale Gracco ricopre la carica di sacerdote salio. Secondo Pascucci 1979 (p. 91), la menzione degli scudi nella seconda satira e quella del re nella terza farebbe supporre che la leggenda di Numa sia intenzionalmente usata per legare le due satire.

572 Sempre secondo Plutarco (Num. 13, 11) i sacerdoti mentre danzavano avrebbero poi invocato il nome di

Mamurio o il ritornello veteram memoriam in ricordo dell’antico fatto (cfr. anche Ov. fast. III, 259-260: Quis mihi nunc dicet, quare caelestia Martis / arma ferant Salii Mamuriumque canant?). Per il racconto della caduta dello scudo dal cielo cfr. Ov. fast. III, 360-392.

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di ironia: la ninfa Egeria non viene chiamata per nome né identificata come un essere divino, ma viene denominata più prosaicamente amica nocturna con una connotazione a chiaro sfondo sessuale573. D’altronde il carattere erotico della scena574 non toglierebbe comunque nulla alla turpitudine raggiunta dal luogo dopo l’invasione dei Giudei e la scacciata delle Camene. L’episodio perciò è mitico, né vi è dubbio sul fatto che Romani come Quintiliano, Giovenale o un fittizio Umbricio lo ritenessero tale. Ciononostante, il mito è parte importantissima della tradizione romana anche a causa della sua esemplarità e questo episodio non fa che enfatizzare l’antica religiosità e l’exemplum storico di pietas costituito da Numa, ponendo un contrasto assai forte col degrado attuale.

Tuttavia, se i Graeculi sono la causa prima, non sono l’unica motivazione della decadenza della città: gli stessi Romani si stanno grecizzando sempre di più, allontanandosi da quella sana rusticitas che faceva di loro un popolo vincitore (3, 67-68):

Rusticus ille tuus sumit trechedipna, Quirine, et ceromatico fert niceteria collo.

Il poeta, con un’invocazione all’incarnazione della romanitas, Quirino, rimpiange quel contadino che una volta caratterizzava il “romano” in senso stretto. Oltre al rimpianto, però, si può notare una certa ironia nell’affermazione, quasi a sottolineare il ridiculum a cui il contadino romano si espone indossando accessori tipicamente greci e lussuosi. Il termine

rusticus infatti assume una sfumatura dispregiativa, soprattutto per quanto riguarda la

grossolanità dello stile letterario opposto all’urbanitas, come in Quint. inst. VI, 3, 17: nam et

urbanitas dicitur, qua quidem significari video sermonem praeferentem in verbis et sono et usu proprium quendam gustum urbis et sumptam ex conversatione doctorum tacitam eruditionem, denique cui contraria sit rusticitas575. Certo è che Giovenale non vuole affatto

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La parola amica ha quasi sempre un risvolto di tipo sessuale: basti vedere lo stesso Giovenale (1, 62) che descrive il giovane che come un novello Automedonte sfreccia con il carro assieme all’amichetta ammantellata (c’è un po’ d’ambiguità riguardo questa amica lacernata: secondo Santorelli 2011, p. 265 n. 38, il fatto che l’amica fosse vestita con la lacerna, mantello maschile di ambito soprattutto militare, farebbe di lei un uomo, amasio del giovane Automedonte).

574 Che gli incontri di Numa con la ninfa non fossero a esclusivo scopo consultivo risulta chiaro: non solo

l’episodio richiama, ad esempio, certe scene dei poemi omerici – nell’Odissea le celebri amanti divine di Odisseo, Circe e Calipso, ne sono anche le consigliere – ma l’intimità di Egeria con Numa viene spesso esplicitamente dichiarata (cfr. Mart. X, 35, 13-14 che, parlando ai vv. 8-9 di castos et probos amores, lusus, delicias facetiasque, dice: Tales Egeriae iocos fuisse / udo crediderim Numae sub antro), arrivando a considerarla addirittura sua moglie (cfr. Ov. fast. III, 275-276: Egeria est, quae praebet aquas, dea grata Camenis; / illa Numae coniunx consiliumque fuit; Mart. X, 68, 6: Pro pudor! Hersiliae civis et Egeriae, in cui Egeria viene accostata quale esempio di rettitudine femminile – e presumibilmente quale moglie di Numa – alla moglie di Romolo Ersilia).

575 Cfr. anche Ernesti 1795, pp. 337-338 (s.v. Rusticus): Rustica vox, quae et agrestis dicitur, veteribus

appellabatur, qua quis priscam gravitatem et simplicitatem imitaturus, aures elegantiores, sonisque urbanioribus adsuetas offenderet. […] Iam quoniam homines rustici et agrestes omnino carent vitae elegantia et

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denigrare le origini agresti degli antichi Romani, ma l’accento sulla rusticitas del soggetto cozza con il suo abbigliamento estremamente raffinato e grecizzato. Il messaggio che il satirico vuole veicolare non è semplicemente il rimpianto per gli antichi contadini romani ma anche il disgusto per l’evoluzione della loro discendenza, esemplificata da uno zotico ignorante che non disdegna di adornarsi alla stregua di un Graeculus e ha scordato le sue origini. Oltre all’immagine dell’antico civis Romanus che si dedicava all’agricoltura, in contrasto con l’abbigliamento greco appare Quirino, divinizzazione del primo re Romolo, fondatore dell’Urbe576

.

La moda greca che sta contagiando i Romani non è solo ridicola, è anche insidiosa: i Greci sono gente pericolosa, disposta a tutto per soddisfare le proprie brame, avida di denaro, pronta a rinnegare qualsiasi ideale e qualsiasi vincolo per ottenere ciò che vuole. L’ipocrisia, l’avidità e la mancanza di scrupoli di questo popolo vengono esemplificate tramite l’episodio di Barea Sorano (3, 116-118):

Stoicus occidit Baream delator amicum discipulumque senex ripa nutritus in illa ad quam Gorgonei delapsa est pinna caballi.

Quinto Marcio Barea Sorano fu console nel 52 d.C. e più tardi proconsole in Asia; venne accusato di complicità con Rubellio Plauto e quindi condannato nel 66 d.C. insieme a Trasea Peto con l’accusa di aver approfittato del proprio mandato in Asia per avviare una sedizione. L’accusa era chiaramente pretestuosa577

, la motivazione concreta doveva celarsi nell’avversione dell’imperatore Nerone per l’imputato, come suggerisce Tacito in ann. XVI, 23, 1: At Baream Soranum iam sibi Ostorius Sabinus eques Romanus poposcerat reum ex

proconsulatu Asiae, in quo offensiones principis auxit iustitia atque industria, et quia portui Ephesiorum aperiendo curam insumpserat vimque civitatis Pergamenae prohibentis Acratum, Caesaris libertum, statuas et picturas evehere inultam omiserat. Sed crimini dabatur amicitia Plauti et ambitio conciliandae provinciae ad spes novas. Il verdetto stabilì che Sorano fosse costretto a darsi la morte assieme alla figliuola Servilia: perciò queste due figure vennero

suavitate morum, etiam in eloquentia et literis agrestia dixerunt veteres, quae essent inelegantia, insuavia, importuna, et a docta quadam humanitate aliena.

576 Cfr. supra, p. 171 n. 549.

577 La pretestuosità dell’accusa dovette essere ben evidente già all’epoca del processo, se Nerone per

l’esecuzione di Sorano attese il giorno in cui Tiridate doveva essere condannato re d’Armenia, verosimilmente – come ipotizza Tacito – per stornare l’attenzione pubblica dal fatto (ann. XVI, 23, 2: Tempus damnationi delectum, quo Tiridates accipiendo Armeniae regno adventabat, ut ad externa rumoribus intestinum scelus obscuraretur, an ut magnitudinem imperatoriam caede insignium virorum quasi regio facinore ostentaret). La seconda ipotesi di Tacito sembra invece meno probabile.

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presto annoverate nella schiera dei martiri che dovettero affrontare il crudele principato neroniano. Tuttavia l’exemplum negativo non è qui rappresentato né da Nerone né da Astorio Sabino, ma da un altro personaggio che intervenne a testimoniare al processo e che suscitò molto scalpore: il delator del proprio amicus fu Publio Egnazio Celere, legato a Sorano da un vincolo clientelare578, nonché – come suggerisce Giovenale – suo mentore nei principi della dottrina stoica, di cui era seguace. La provenienza orientale del personaggio è denunciata dal

ripa nutritus in illa / ad quam Gorgonei delapsa est pinna caballi, una locuzione per indicare

le rive del fiume Cidno, dove sorgeva la città di Tarso. Infatti, la tradizione legava il nome della città a ταρσός (“fila di penne alari”) e alla figura di Pegaso579, il cavallo alato le cui penne sarebbero cadute proprio nel luogo in cui venne fondata la città: non era questa la patria di Celere, che proveniva da Berito (odierna Beirut) in Fenicia, ma il luogo in cui fu nutritus, compiendo i suoi studi580. La figura è stata appositamente scelta da Giovenale in quanto

perfetto esempio di come non ci si debba fidare degli orientali, neppure di quelli che professano di ricercare la virtù e che si danno arie da saggi. Nel passo infatti Celere viene definito non solo Stoicus, ma anche senex, un vecchio che ha tradito un proprio discepolo per denaro: queste sono le tre caratteristiche con cui – in un’accumulatio e una climax di paradossalità – Egnazio Celere viene presentato, senza venir espressamente nominato. D’altro canto, nominarlo non è necessario per la comprensione del testo, perché all’epoca la vicenda di Sorano e Celere era ben nota e quest’ultimo stava già acquistando carattere esemplare, come dimostra Tacito (ann. XVI, 32, 2-3): Mox datus testibus locus; et quantum

misericordiae saevitia accusationis permoverat, tantum irae P. Egnatius testis concivit. Cliens hic Sorani et tunc emptus ad opprimendum amicum auctoritatem Stoicae sectae praeferebat, habitu et ore ad exprimendam imaginem honesti exercitus, ceterum animo perfidiosus, subdolus, avaritiam ac libidinem occultans; quae postquam pecunia reclusa sunt, dedit exemplum praecavendi, quo modo fraudibus involutos aut flagitiis commaculatos, sic specie bonarum artium falsos et amicitiae fallacis581. Pertanto, al tempo di Giovenale Celere

era un exemplum di delazione famoso e facilmente identificabile.

578 Secondo Santorelli 2011 (p. 313 n. 55), l’appellativo amicus potrebbe qui star a rappresentare il patronus,

come Giovenale lascia intendere nei versi successivi (vv. 119-121) dove Umbricio si scaglia contro i Graeculi che non condividono le “amicizie” ma le tengono tutte per sé: Non est Romano cuiquam locus hic, ubi regnat / Protogenes aliquis vel Diphilus aut Hermarchus, / qui gentis vitio numquam partitur amicum, / solus habet. […].

579 Pegaso viene nel passo indicato come Gorgoneus caballus in quanto nato, secondo la tradizione, dal terreno

impregnato del sangue di Medusa, una delle tre Gorgoni, uccisa da Perseo (cfr. Courtney 1980, pp. 172-173).

580

Cfr. Santorelli 2011, p. 313 n. 54.

581 La vicenda conobbe infatti rinnovato interesse all’epoca di Tacito e Giovenale, in occasione del processo allo

stesso Celere, che si svolse in due tempi: l’accusatore di Celere fu Musonio Rufo, deciso a vendicare la memoria di Barea Sorano, il suo avvocato difensore fu invece il cinico Demetrio. Per la prima chiamata a giudizio cfr. Tac. hist. IV, 10, 1: Tum invectus est Musonius Rufus in P. Celerem, a quo Baream Soranum falso testimonio

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Il denaro è divenuto ormai il simbolo dello status dei Romani, non c’è più alcun interesse per i cosiddetti mores o per la moralità in generale (de moribus ultima fiet quaestio): un uomo viene stimato tanto quanto sono grandi le sue ricchezze. La sentenza del povero Umbricio viene introdotta dall’amara presentazione di tre grandi exempla di pietas religiosa del passato (3, 137-139):

Da testem Romae tam sanctum quam fuit hospes numinis Idaei, procedat vel Numa vel qui

servavit trepidam flagranti ex aede Minervam.

Il primo dei tre grandi personaggi citati, Publio Cornelio Scipione Nasica, non viene espressamente nominato, ma indicato tramite la perifrasi “colui che ospitò la dea dell’Ida”. Si

Nel documento L'exemplum storico nelle Satire di Giovenale (pagine 177-193)

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