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Tobia Bertini / “Tobia tu canti come un cigno!”

A Prato, mai rappresentata nemmeno l’opera più “italiana” di Wagner, che è Lohengrin, l’eroe che va in giro sul cigno, per cui fu famoso nel mondo un altro cantante pratese: Tobia Bertini, tenore che il 30 giugno del 1886 per forza di un destino verdiano si trovò a dover seguire la bacchetta di un giovanissimo direttore catapultato fortunosamente sul podio del Teatro Don Pedro Secundo di Rio de Janeiro per una Aida che sta per andare in scena accompagnata ancora a sipario chiuso da rumoreggiamenti del pub- blico inquieto. Ancora Aida e ancora una voce lirica nata a Prato: Tobia Bertini per Radames. E l’improvvisato direttore appena diciannovenne si chiamava Arturo Toscanini. La prima volta di Toscanini, per caso (il pub- blico di Rio protestava senza appello il direttore scritturato ), per via degli orchestrali che conoscevano quel giovanottino, violoncellista, che durante il viaggio in nave dall’Italia al Sud America aveva ripassato al pianoforte tutte le parti coi cantanti. Lui conosceva Aida a menadito. Gli squilli del- le trombe introducono “Se quel guerriero io fossi!”, recitativo del tenore. Romanza: “Celeste Aida”. Si bemolle finale: un uragano di applausi. Quel tenore aveva una bella figura, risultava un Radames credibile nei gesti ol- trechè nella voce, aveva trent’anni, ed era nato a Prato in via del Carmine il 26 ottobre del 1856. L’anno dopo di quell’Aida in Sud America, il 1887 fu la stagione della prima di Otello di Verdi a La Scala di Milano. E la cro- naca curiosamente ci racconta che Arturo Toscanini tornasse in orchestra col suo violoncello (Otello aveva sul podio il maestro Franco Faccio); e in quella medesima stagione della Scala, il nostro tenore Tobia Bertini, si al- ternava in Aida con Francesco Tamagno primo Otello della storia. La prima volta del pratese Tobia era stata a Pistoia come Alfredo Germont in Travia-

ta nel 1879, a ventitre anni. Verdi ancora, come sarà per Iva Pacetti. Verdi anche per Ernani, nel 1899, a carriera già intrecciata d’allori, al Metastasio di Prato. Per quell’ope- ra, del 1844 e quinto titolo della giovinezza verdiana, che nella sto- ria del Metastasio ha il record di tempismo per essere approdato – tra le opere di Verdi- a Prato il giorno di Natale del 1845, ovvero poco dopo la prima veneziana del ’44. E quella sera- ancora la cro- naca racconta – il risorgimentale coro “Si ridesti il leon di Castiglia” infiammò il pubblico. Viva Verdi. Ma sembra che non fosse l’empito patriottico a scatenare la conte- stazione; bensì proprio una frase all’indirizzo del protagonista Ernani-Bertini. “Tobia tu canti come un ci- gno” avrebbe gridato un pistoiese. Siccome i cigni starnazzano, qualcuno la prese come una offesa intenzionale all’indirizzo del nostro tenore: scin- tilla che accese gli animi a tal punto che tra pistoiesi e pratesi si scatenò una rissa con tanto di feriti. Tra aneddoti e storia vera, è giusto ricordare come Tobia Bertini, orfano di padre, imparasse il mestiere di falegname all’Orfanotrofio Magnolfi impegnandosi nel canto e recandosi a studiare a

Cartolina postale: Lohengrin e il cigno (collez. Goffredo Gori) Foto di Toscanini in prova al Metropolitan nel 1953 (archivio Goffredo Gori) Busto marmoreo funebre di Tobia Bertini al cimitero della Chiesanuova (foto Nedo Coppini)

Firenze dal maestro pratese Ettore Contrucci. A Firenze il Bertini, da Pra- to, ci andava a piedi, quando non trovava il passaggio di un provvidenziale barrocciaio. Tobia, ormai diventato famoso, volle mostrare riconoscenza al barrocciaio di un tempo che nel

frattempo era stato costretto a dar via il quadrupede: gli ricomprò il cavallo. Storia vera, segno di un prodigalità che forse privò Berti- ni di una vecchiaia agiata. Ma lo soccorre ancora una volta Giusep- pe Verdi e quella “Casa di riposo per artisti lirici” di Milano che il maestro aveva voluto far costru- ire, definendola “la mia più bella opera”. Tobia Bertini preferì vivere i suoi ultimi anni a Milano nella “Casa di Verdi”, anche se è sepolto nel cimitero pratese della Chiesa- nuova e un marmoreo busto con un bottone sganciato sembra sim- boleggiare la “scapigliatura” di un cantante forse precursore del gran- de Caruso (come lui, anche Ber- tini amava disegnare). Che seppe

Una locandina di Aida in Sud America (archivio Goffredo Gori) A destra, Lohengrin in un singolare calendario del 1898 (collez. Goffredo Gori) Tobia Bertini, Lohengrin (archivio Soc. Guido Monaco)

essere Radames e il Duca di Man- tova, Tannhauser e “il più lirico Lohengrin italiano”. Ma che fosse interprete verdiano, orfani come siamo di possibilità d’ascolto, lo possiamo solo dedurre dalle cro- nache del tempo. Ci basta sapere che “di Tobia Bertini si applaudi- vano anche i recitativi” per dedur- re che la famosa “parola scenica” di Verdi e il proverbiale fraseggio fossero al centro della virtù canora dell’artista pratese. Il cigno wagne- riano dette comunque al nostro tenore ali per volare lontano: la sua prima volta per Lohengrin fu all’Apollo di Roma nella stagione 1884-1885: una sola prova d’or- chestra in sostituzione del già fa-

moso Roberto Stagno. Più tardi avrà una riconoscenza anche della Regina Margherita presente al Teatro Pagliano (oggi Teatro Verdi ) di Firenze. Se si gira per le stanze della “Guido Monaco” o della “Corale Verdi” le tracce di quell’eroe wagneriano associato al cigno bianco – approdato la prima volta in Italia nel 1871 a Bologna – le troviamo diffusamente appese alle pareti. Ma non manca Bertini-Radames.

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