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ED EDIFICAZIONE DI TORRI E ALTRE FORTIFICAZIONI (1171-1190)

1. La torre ‘modello urbano’

È in tutti noi l’immagine, più o meno diretta, di una città medioevale ir- ta di torri, che rievoca un clima di violenza e lotta intestina, torri e costumi guerrieri che sarebbero stati introdotti nella vita cittadina con l’inurbamento dei signori del contado.

In uno studio recente il Settia ha decisamente respinto questa interpreta- zione, ponendo in luce come nelle città l’edificazione di torri risalga al se- colo XI, in qualche caso anche al X. Gli stessi castelli, sorti numerosi nel contado dall’inizio del secolo X, furono a lungo privi di una struttura assi- milabile alla torre, la cui diffusione avverrà a partire dal secolo XII. Egli ritiene di aver individuato “la fase dinamica e creativa” del processo “in certi aspetti della documentazione veronese del XII secolo”, avvertendo che difficile è separare ‘il problema delle torri’ da quello delle ‘case forti’, non solo dal punto di vista edilizio, ma anche perché‚ la loro diffusione av- venne nello stesso tempo: “da un lato l’impianto in aperte campagne o in villaggi sprovvisti di ogni difesa; dall’altro l’inserimento in abitati fortifica- ti e in borghi con caratteristiche semiurbane” (114).

Ci soffermeremo sulla diffusione e funzioni di torri e forticiae nelle campagne veronesi nell’età di Federico I sulla base, oltre che della docu- mentazione utilizzata dallo studioso, di altra inedita e sconosciuta, soprat- tutto per meglio chiarire i rapporti fra comune, signorie ecclesiastiche, mili-

tes [38] della città e del contado. 2. Le torri cittadine a Verona

Il primo documento significativo da noi rinvenuto concerne una fami- glia socialmente e politicamente rilevante del periodo precomunale e co- munale. Nell’anno 1100 Epone, della famiglia capitaneale che sarà più tar-

(114) A. A. Settia, L’esportazione di un modello urbano: torri e case forti nelle

campagne del Nord Italia, «Società e storia», 12, 1981, pp. 275-277; ivi le citazioni ri-

di conosciuta come Turrisendi, menziona nel suo testamento (115) un ap- pezzamento con case, torre, corte nella città, situato probabilmente presso la chiesa di S. Matteo, chiesa di proprietà della famiglia, una cui porzione spettava allo stesso Epone; nel qual caso abitazioni, torre e chiesa sarebbe- ro state assai prossime alla porta di S. Zeno, ora porta Borsari, sulla quale i Turrisendi detenevano i diritti di dazio (116). A titolo esemplificativo ri- cordiamo la torre di Alberto Tenca, nella quale si svolge il processo del 1163 in merito alla lite fra il conte Bonifacio e il comune di Bionde (117).

Un documento assai più tardo è stato edito e studiato dal Biscaro (118): si tratta di una societas de turre stipulata nel 1177 fra alcuni esponenti della famiglia degli Armenardi (119) ed altri, non sappiamo se legati da vincoli di parentela, in merito all’utilizzazione di una torre in S. Quirico, già appar- tenente ad uno dei soci, Vallario. Le clausole della societas sono assai det- tagliate: prevedono aggiunte di nuove parti, quali ponticelli per congiunge- re altre abitazioni, e l’elevazione della torre stessa; altre clausole concerno- no l’uso della torre e i suoi accessi. A noi importa soprattutto sottolineare l’impiego della torre in occasione di tumulti e di assalti in città. Torri ed edifici non potevano, senza il consenso dei soci, essere ceduti ad altri, nemmeno prestati, a meno che costoro non fossero in pericolo di vita per qualche assaltus improvviso.

Se qualcuno dei soci fosse stato impedito o non si sentisse sicuro nella sua casa, avrebbe potuto trovare dimora nei ponticelli [39] annessi. Da que- ste clausole ed altre disposizioni testamentarie risulta evidente la volontà di mantenere la torre con gli edifici collegati sotto il controllo dei consorti e dei loro eredi sì da evitare immissioni nell’ambito del complesso fortificato di elementi estranei, ancor peggio se avversari delle famiglie o della fazio- ne politica, del resto non nominata.

Identiche preoccupazioni, ancor più esplicite, compaiono in una conces- sione di feudo dei 1190 compiuta da alcuni membri della famiglia degli Avvocati. La famiglia possedeva le sue case nel centro cittadino, nella con- trada di S. Maria Consolatrice: il complesso edilizio era denominato curtis

(115) ASV, S. Michele in Campagna, perg. 4 app. *, 1100 marzo 12. A titolo esem- plificativo ricordiamo una ‘torre alta’ presso la porta di S. Zeno: OC, perg. 46, 1058 settembre 24.

(116) Cipolla, Le popolazioni cit., p. 39, documenti degli anni 1125 e 1137. (117) App., n. 5.

(118) G. Biscaro, Attraverso le carte di S. Giorgio in Braida di Verona esistenti

nell’Archivio Vaticano, «Atti del r. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Classe di

scienze morali, lettere ed arti», XCII, 1932-1933, pp. 1003-1005, doc. 1177 gennaio 19. (119) Ibidem, pp. 995-998 e cfr. sopra, nota 34.

Advocatorum (120). Vi era una torre almeno dalla metà del secolo XII, dal

momento che se ne parla a proposito del testamento di Arduino, scomparso prima del 1175. Questi aveva disposto che la sua torre, ai cui piedi si trova- va anche la casa dello stesso, passasse in eredità ai figli maschi, con esclu- sione delle femmine, fino alla settima generazione, «usque dum erint ma- sculi de tota domo Advocatorum» (121). Il termine domus, che poteva si- gnificare, oltre alla casa, anche lo spazio urbano e le relative costruzioni occupate da una famiglia, designa qui un gruppo parentale costituito dalle famiglie dei maschi discendenti da un unico ceppo.

Le strutture difensive della curtis Advocatorum vennero rafforzate fra XII e XIII secolo con l’acquisizione di altri edifici fortificati nella zona, con il rafforzamento delle strutture edili della corte stessa, con l’ampliamento della clientela vassallatica attraverso l’immissione di nuovi elementi fidati (122).

Con l’investitura del 1190 tre degli Avvocati – Bozoto, Nicolò e il loro nipote Alberto – concedono in feudo a due fratelli una casa, dai due vendu- ta, nel quartiere ove si trovava la curtis Advocatorum; gli investiti giurano fedeltà, assumendo obblighi precisi: i domini debbono aver libero il pas- saggio attraverso la casa per raggiungere la torre che fu già di certo Carlas- sario – acquisita anche questa in un periodo anteriore imprecisato dagli Avvocati –; se lo desiderano, possono sopraelevare l’edificio a loro piaci- mento, «quantum sibi placuerint sine contradicione vassallorum», i due fra- telli debbono [40] porre a disposizione degli Avvocati se stessi e la casa nelle operazioni che i primi intraprenderanno direttamente per sé o come capi di una fazione, «pro proprio facto dominorum vel pro eo facto pro quo se capita facient»; nel caso di discordia fra i domini i vassalli seguiranno la

maior pars; se le due parti in contrasto saranno eguali, terranno la casa fin-

ché non torni la concordia (123). Clausole di questo tipo (124) mostrano che in Verona, ancor prima dell’inizio del secolo XIII, quando le discordie divamparono in modo violento ed inarrestabile fra le partes dei Conti e dei Monticoli, le lotte intestine, già nella seconda metà del secolo XII, sfocia- vano frequentemente in scontri armati. Di qui scaturiva la necessità per i membri delle famiglie maggiori, che erano o con processo spontaneo dive- nivano capi delle fazioni, di avere alleati fidati, che concorressero con loro

(120) Castagnetti, La famiglia cit., p. 269. (121) Ibidem, p. 269, nota 103.

(122) Ibidem, p. 270. (123) App., n. 15.

(124) Biscaro, Attraverso le carte cit., pp. 1001-1003, segnala un altro documento:

negli assalti, spesso improvvisi, di difesa e di offesa: sturmenum, assaltus,

werra, come sono definiti nel documento del 1177.

Il vincolo vassallatico-feudale costituisce, come nell’altro episodio sot- tocitato, un mezzo ancora efficace, anzi ravvivato, per la formazione di clientele urbane, atte alle armi e provviste di basi materiali per le lotte inte- stine, quali erano appunto le case fortificate e le torri (125).

Fin dal primo divampare effettivo delle guerre civili in Verona veniamo a conoscere da testimonianze posteriori l’importanza che poteva assumere una torre. In un processo un teste ricorda, con probabile riferimento a fatti del 1207, che Gerardo dei Cagabissi fu sollecitato dalla fazione dei Monti- coli a porre a disposizione, mediante un atto di infeudazione, la sua torre, evidentemente posta in una posizione ritenuta essenziale, per un compenso di lire 10.000 e più (126). Gerardo rifiutò sdegnato, non già come suppone il Biscaro, «per la difesa dell’indipendenza della patria», ma, come il teste stesso dichiara, poiché egli non voleva compiere «scelus neque tradimen- tum de suis amicis nisi ipsi facerent de eo», ove l’espressione sui amici la dice lunga sulle motivazioni del diniego. Non per nulla alla fine dell’agosto del 1207 Gerardo, con altri della sua famiglia, giura i patti [41] di alleanza 127 fra i Veronesi del partito dei Conti e i Mantovani guidati da Azzo d’Este, che si accingono a completare l’espugnazione della città e a cac- ciarne in esilio per sei anni i Monticoli.