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Si è scelto di intitolare questa sezione “tracce autobiografiche” per sottolineare come l’esperienza di vita sia presente, anche se in maniera diversa e spesso filtrata nei testi. Si è ritenuto necessario dedicare uno spazio a tale tema non solo perché esso attraversa e alimenta le scritture, ma anche perché gli studi femministi e postcoloniali hanno dato rilievo al genere autobiografico guardandolo come un modo per le donne per far sentire la propria voce.

Le riflessioni sul genere autobiografico sono numerose in letteratura; una disanima interessante è offerta da Marziano Guglielminetti in Biografia ed autobiografia, nel V volume, Le

questioni, della letteratura italiana Einaudi curata da Asor Rosa. Sul secolo XX lo studioso

modi di raccontare gli altri e se stessi» (Guglielminetti 1986, 886). Nel nostro caso, i testi si collocano sulla medesima linea, nel senso che non possiamo includerli nel genere autobiografico, sebbene dall’esperienze personale traggano spunto.

In particolare, per ritornare all’ambito dei postcolonial studies, l’attenzione all’io offre la possibilità di ripensamento dei paradigmi del centro. Smith e Watson si sono soffermate su tale questione che presenta elementi utili anche alla presente analisi:

attention to “the colonized subject” and to what has been termed marginal or minoritized discourse has spurred rethinking of the paradigms of subjectivity. And a central site in that revisionary struggle has been autobiographical discourse, the coming to voice of previously silenced subjects. Since “autobiography” in the West has a particular history, what we have understood as the autobiographical “I” has been an “I” with historical attitude – a sign of the Enlightenment subject, unified, rational, coherent, autonomous, free, but also white, male Western […] Theorists of postcoloniality have thus recognized autobiography as one of the cultural formations in the West implicated in and complicit with processes of colonization. This critique has had a profound effect on our approach to women’s autobiographical practices. If this autobiographical “I” is a Western “I,” an “I” of the colonizer, then what happens when the colonized subject takes up a generic practice forged in the West and complicit in the West’s romance with individualism? […] Can a colonized subject speak in or through cultural formations other than those of the colonial master? Is she always already spoken for? (Smith e Watson 1998, 27-28).

La messa al centro dell’io, che, nei casi in analisi, appartiene a personaggi lontani dal paradigma tradizionale descritto da Smith e Watson va nella direzione indicata dalle studiose. La distanza è data dalla tipologia di soggetto che prende la parola e dalla condizione in cui vive, nel loro caso un soggetto ex colonizzato, più in generale potremmo dire che si tratta di donne, spesso marginalizzate, in condizioni esistenziali e materiali complesse.

Occorre precisare che la presenza spesso centrale di un io narrante non impedisce di riflettere su situazioni condivise da una collettività. In tal senso il concetto di White secondo cui «much of this body of literature serves to illuminate general aspects of human conditions through analysis of individual situations» (White 1995, 13) funziona anche con i casi in questione.

È parso più appropriato parlare di “tracce autobiografiche” data anche la consapevolezza che la fase autobiografico-diaristica che ha caratterizzato la nascita della “letteratura della migrazione” è superata e le strategie con cui l’esperienza personale entra nella narrazione sono meno esplicite. I primi testi della “letteratura della migrazione,” scritti da uomini, si possono

considerare infatti delle autobiografie vere e proprie, che hanno avuto il merito di fungere da “palestra” per la scrittura. Parati commenta nei seguenti termini tale fase:

seen as a less sophisticated, first-generation expression of a first-person experience in a foreign culture, autobiography becomes a genre from which to begin that is later rejected in order to embrace multivoiced forms of expression. However, autobiography as a genre that borrows from many other genres is already a quite sophisticated form of expression (Parati 2005, 80).

Senza negare la complessità del genere autobiografico, esso ha rappresentato, all’inizio, un contenitore entro il quale poter esprimere e raccontare la propria esperienza di vita legata alla migrazione. Paul White, nel considerare il nesso tra autobiografia e migrazione, sostiene che tale genere abbia rappresentato anche l’occasione per riflettere su se stessi e sulla propria condizione:

a very high proportion of creative writing relating to migration and its impact is, however, strongly autobiographical. Motives for the production of such writing may be many and varied. Artistic or commercial considerations play a part, but there are also, in many cases, strongly personal motivations drawn from a possible need for catharsis, or to allow the act of writing to contribute to the re-definitions of identity (White 1995, 9).

Leggere l’autobiografia nell’ottica di genere significa acquisire consapevolezza di quello che essa ha significato per le donne, non solo per le autrici, ma anche per le lettrici che hanno modo di specchiarvisi. In tali termini ne parlano Smith e Watson nell’introduzione al già citato Women,

Autobiography, Theory. A Reader:

autobiography has been employed by many women writers to write themselves into history. Not only feminism but also literary and cultural theory have felt the impact of women’s autobiography as a previously unacknowledged mode of making visible formerly invisible subjects […] Most centrally, women reading other women’s autobiographical writings have experienced them as “mirrors” of their own unvoiced aspirations (Smith e Waston 1998, 5).

Partendo dal presupposto che l’autobiografia appartiene alla tradizione occidentale, nel momento in cui la parola viene presa da coloro che non vi appartengono si ha l’appropriazione di un genere che viene aperto a prospettive inedite, come Smith e Waston sostengono in alcuni passaggi successivi del saggio. Tale ripresa e riadattamento di un genere del “centro” rientrano a

pieno titolo in pratiche definibili decolonizzanti, secondo l’accezione che ne stiamo dando. Nel caso dei primi testi della “letteratura della migrazione” vi era notevole aderenza tra scrittura ed esperienza di vita, mentre nei casi in esame la relazione è più complessa ed articolata. In sede di intervista è infatti emerso come il vissuto influenzi sempre la scrittura, senza che però questa sfoci nell’autobiografia. Questo paragrafo, infatti, non vede, a differenza degli altri, un rilievo dei testi nella forma della citazione, che non si dimostra efficace per un paio di ragioni: la prima in quanto i riferimenti autobiografici sono veloci passaggi nella scrittura oppure fungono da spunto iniziale che poi si allontana dall’esperienza reale. La seconda ragione è opposta, in quanto in alcune opere il vissuto delle scrittrici diventa parte fondante ed intrinseca alla narrazione al punto da rendere impossibile identificare dei rimandi specifici. Si indicheranno ora alcuni esempi di ciascuno dei due casi, mantenendo sullo sfondo le interviste, in cui si è dedicato uno specifico spazio al tema. Se si prende Media chiara e noccioline, ad esempio, l’idea iniziale che vede la protagonista figlia di una donna italiana ed un uomo indiano è autobiografica, sebbene, come la scrittrice stessa dichiara, la storia voli poi verso altre direzioni. In alcuni passaggi del testo, inoltre, Valentina parla della sua passione per la pittura, nonché vi sono riferimenti ai periodici femminili con cui collabora. Sovrapponendo queste informazioni all’intervista comprendiamo come si tratti di elementi autobiografici collocati in una storia e riferiti ad un personaggio che però vengono mantenuti distanti con il ricorso all’ironia.

Un procedimento affine si coglie ne La mano che non mordi: il rimando agli studi all’Accademia di Brera o alla vita a Parigi rappresentano elementi reali della vita di Vorpsi. Inoltre, il fatto che la protagonista albanese ritorni per breve tempo nei Balcani rappresenta un elemento autobiografico da cui la narrazione si avvia. Anche le sensazioni che la protagonista vive ritornando, la percezione che ha di se stessa e di quelle terre trova riscontro nell’intervista in cui emerge il punto di vista della scrittrice, non filtrato dalla fiction.4

Se si guarda al racconto “Documenti, prego” Mubiayi stessa afferma che esso è tratto da uno spunto autobiografico, di cui ripropongo l’interpretazione che lei ha dato:

nasce da una scintilla autobiografica, cioè il percorso che si fa per arrivare ad avere un permesso di soggiorno. L’idea che sta dietro a quel racconto è l’assurdità di non essere riconosciuti senza un pezzo di carta e questo non solo dal punto di vista istituzionale, ufficiale – cioè tu ti devi identificare con un pezzo di carta – ma anche da un punto di vista psicologico, perché tu non sei nessuno fino a che non avrai quel pezzo di carta e non ti senti nessuno e quindi automaticamente hai un atteggiamento subordinato, dimesso e una serie di conseguenze che poi

si ripercuotono in tutti gli ambiti del tuo essere, della tua vita, del rapporto con la società esterna, ma anche con la tua famiglia o con chi vivi.

In altri suoi racconti troviamo minimi rimandi autobiografici, come ad esempio il riferimento all’Egitto come luogo di nascita della protagonista in “Rimorso” e la madre egiziana in “Concorso.” Al pari di Vorpsi e Kuruvilla, le allusioni alla propria esperienza personale appaiono facilmente individuabili ed abbastanza circoscrivibili nei testi.

L’ultima opera che potrebbe rientrare in questo gruppo è Amiche per la pelle, in cui la protagonista condivide con l’autrice la nazionalità. Si tratta di un particolare necessario a dare avvio alla vicenda, che poi si allontana del tutto dalla parabola biografia di Wadia. Sebbene non vi siano rimandi diretti, il fatto di aver vissuto la migrazione spinge l’autrice a scriverne, anche perché, come lei stessa sostiene nell’intervista,

le ambientazioni dei miei scritti sono per lo più indiane, i personaggi pure, perché accanto a quella italiana si tratta della realtà che conosco meglio. Lo faccio anche con lo scopo di sottolineare che provengo da una società multiculturale. Sono cresciuta in una palazzina di quattro piani abitata da quattro famiglie di religione diversa, ed è stata la cosa più bella del mondo. Un po’ lo faccio anche per dare un po’ di colore, un tono diverso che chiaramente un lettore occidentale si aspetta. Non ha senso che una che viene da lontano e può raccontare cose diverse si metta in gara con gli scrittori italiani. Io che ho avuto il privilegio di crescere in un ambiente così ricco di colori, odori, suoni e culture ho il dovere di divulgarlo.

La seconda modalità che permette di parlare di tracce autobiografiche, senza circoscriverle a dettagli come negli esempi precedenti, si ritrova nelle opere di Ubax Ali Farah, de Caldas Brito e Očkayová. Nel primo caso la vicenda personale della protagonista, figlia di padre somalo e madre italiana, nonché la storia dei somali nella diaspora, sostanziano il romanzo in maniera tale da renderlo inseparabile dall’esperienza di vita della scrittrice. Nel suo caso vi è una parabola simile a quella di altri autori, che hanno iniziato con l’autobiografia dal taglio quasi diaristico (Ubax Ali Farah definisce i suoi primi racconti molto autobiografici) per poi passare ad altri generi. In

Madre piccola, le vicissitudini dei personaggi somali, l’attenzione per il linguaggio e le sue

sonorità, la citazione di testi appartenenti alla tradizione somala rendono pressoché impossibile individuare una linea di demarcazione netta tra la vita della scrittrice e ciò che narra.

Un discorso affine si può fare a proposito di 500 temporali: l’ambientazione a Rio, la sensibilità nei confronti delle fasce più disagiate della popolazione, i dettagli che corredano il

testo, gli inserimenti linguistici smascherano l’appartenenza dell’autrice a quei luoghi ed a quella cultura. Questo non significa che si tratti di scrittura autobiografica, come de Caldas Brito precisa nell’intervista:

la mia non è una scrittura autobiografica, anche se quello che scrivo possiede qualche episodio autobiografico. Mi piace inventare storie, ma ritengo che l'autobiografia possa essere utile come approccio alla scrittura.

Anche in questo caso, il genere autobiografico strettamente inteso viene visto come un’occasione di avvicinamento alla scrittura, in cui poi la fantasia prende il sopravvento.

Infine il burattino di Očkayová incarna, paradossalmente perché si tratta di un personaggio fiabesco, molti aspetti dell’esperienza dell’autrice, che si sentiva – perlomeno all’inizio della sua esperienza migratoria in Italia – “tagliata fuori.” In un’intervista, ne parla nei seguenti termini:

una doppia appartenenza. Che all’inizio mi ha fatto soffrire perché era una specie di scissione, di sdoppiamento. Sentivo la cultura d’origine, ma sempre più forte quella acquisita. Vivevo due condizioni: ubiquità e schizofrenia. Sentivo che c’era una nuova personalità che si stava sovrapponendo.” “E poi?” “Prima sentivo di dover scegliere, poi tutto si è ricomposto nel raddoppiamento, quindi nella ricchezza” (Guermandi 1997).

La condizione dell’immigrato sfiora, come la scrittrice ha avuto modo di illustrare in altri interventi, quella del burattino: rifiuto, displacement, senso di estraneità e talvolta di minaccia proveniente dalla società di cui si è parte, che si mostra ostile al cambiamento ed alla “diversità.” È in questo senso, si potrebbe dire, che emerge l’esperienza migratoria di Očkayová, il suo senso di mancata, o doppia, appartenenza, di cui lei stessa ha parlato e su cui ritorneremo nell’ultimo paragrafo.

I personaggi che prendono voce nei testi incarnano spesso paradigmi antitetici a quelli attribuiti all’io del “centro,” proponendosi con il loro bagaglio di dubbi, domande e contraddizioni. L’invito che Lionnet articola nel suo saggio, riferito alle donne del “Terzo mondo,” offre uno spunto interessante:

we have to articulate new visions of ourselves, new concepts that allow us to think

otherwise, to bypass the ancient symmetries and dichotomies that have governed the ground and

Il ripensamento, il superamento di assetti predefiniti rappresentano le linee guida che orientano la lettura dei testi e che permetteranno di indagare le potenzialità decolonizzanti degli stessi.

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