A estória não quer ser história. A estória, em rigor, deve ser contra a Historia1 1. História vs estória
L’etimo greco-latino ‘historia’ possiede un doppio esito in lingua portoghese: il lemma ‘história’, con l’acca iniziale a denotare la sua origine di cultismo, e il lemma ‘estória’, appartenente a un registro maggiormente popolare. I dizio-nari che riportano la seconda forma la associano al significato di ‘leggenda’, ‘racconto’, ‘ficção’, «relato de fatos não comprovados (ou fictícios)»; l’Aurélio, uno dei più autorevoli dizionari brasiliani, addirittura afferma: «Recomenda-se apenas a grafia história, tanto no «Recomenda-sentido de ciência histórica, quanto no de narrativa de ficção, conto popular, e demais aceções».
Nell’Africa lusofona però la parola estória ha assunto un valore particolare, soprattutto in contesto letterario, sostituendosi spesso alle espressioni ‘conto’, ‘novela’, ‘narrativa de ficção’, e caricandosi di una patina ideologica che la contrappone, questa volta positivamente, all’história. Le nuove letterature, ca-poverdiana, guineense, saotomense, angolana o mozambicana, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, scrivono estórias, come (e in quanto) estórias, prima di loro, scriveva un grande innovatore del portoghese letterario, João Guimarães Rosa. Proprio sull’uso di questo lemma da parte del grande scrittore brasiliano, ha scritto Luciana Stegagno Picchio:
Si tratti della storiellina-apologo di due pagine di Tutaméia o del romanzo fiume Grande Sertão, Rosa dà sempre ai suoi racconti il nome di estórias: dove «estória», nella sua forma-accezione popolare, vale per «fantasiosa ricostruzione o invenzione di fatti» che la «história» vuole invece poggiati su documenti; ma può anche indicare una scelta stilistica (mascherata) di non impegno, un far letteratura di cose umili, indegne di es-sere trattate in regime di história, o anche farsi universale, idea, «aneddoto» (e come l’aneddoto, irripetibile, unicum), laddove l’história è invece costantemente riproposta «storica» di situazioni esterne2.
Figure come l’angolano José Luandino Vieira o il mozambicano Mia Couto, per fare solo due tra i nomi più noti, scrivono estórias con un preciso intento po-litico. Questo perché l’História, quella con l’acca maiuscola, è stata una speci-fica prerogativa dei colonizzatori, che per secoli hanno controllato e manipolato la storia ufficiale secondo il loro punto di vista; e perché nell’História ufficiale
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1 A. Lefevere, Traduzione e riscrittura. La manipolazione della fama letteraria, trad. it. S. Campanini, Utet, Torino, 1998, p. 118.
2A. Lefevere, On the Refraction of Texts, in Mimesis in Contemporary Theory: An Inter-disciplinary Approach. I: The Literary and Philosophical Debate, a cura di M. Spariosu, Benjamins, Philadelphia-Amsterdam, 1984, p. 217.
3A. Lefevere, Refraction. Some Observations on the Occasion of Wole Soyinka’s Opera Wonyosi, in Page to Stage. Theatre as Translation, a cura di O. Zuber-Skerritt, Rodopi, Amster-dam, 1984, p. 91.
4 A. Lefevere, On the Refraction of Texts, cit., pp. 224-225, 232, 237.
5 Cfr. P. Cattrysse, Film (Adaptation) as Translation: Some Methodological Proposals, in «Target», 4, 1, 1992, pp. 53-70; B. McFarlane, Novel to film. An Introduction to the Theory of Adaptation, Clarendon Press, Oxford, 1996; S. Cardwell, Adaptation revisited. Television and the classic novel, Manchester University Press, Manchester and New York, 2002; R. Carroll (a cura di), Adaptation in Contemporary Culture. Textual Infidelities, Continuum, Lon-don-New York, 2009; R. Stam, Introduction: The Theory and Practice of Adaptation, in Lit-erature and Film. A Guide to the Theory and Practice of Film Adaptation, a cura di R. Stam, A. Raengo, Blackwell, Oxford, 2005.
6 N. Dusi, Il cinema come traduzione. Da un medium all’altro: letteratura, cinema, pittura, Utet, Torino, 2003, p. 7.
7Ivi, p. 11.
8Ivi, p. 7.
9Ivi, p. 16.
10Cfr. L. Hutcheon, A Theory of Adaptation, Routledge, New York-London, 2006, p. XIII (trad. it.: Teoria degli adattamenti, a cura di G.V. Distefano, Armando, Roma, 2011).
11Ivi, pp. 176 e 177.
12 M. Rak, Introduzione, in G. Basile, Lo cunto de li cunti, con testo napoletano e trad. a fronte, Garzanti, Milano, 1986, p. LXVIII.
13G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. it. R. Novità, Einaudi, Torino, 1997, p. 42.
14N. Dusi, Il cinema come traduzione, cit., p. 124.
15Ivi, p. 247.
16J. David Bolter, Richard Rusin, Remedia-tion. Competizione e integrazione tra vecchi e nuovi media, Guerini, Milano, 2002.
17G. Celati, Conversazioni del vento volatore, Quodlibet, Macerata, 2011, p. 110.
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NOTE74
non sono mai entrati i personaggi che interessano al loro modo di intendere e fare la letteratura, né tantomeno sono entrate le loro vicende: quelle dei mar-ginali, degli ignorati, degli abitanti dei musseques, le immense bidonville che orbitano attorno alle città maggiori.
L’estória è dunque l’História vista dal basso, quella che non è mai stata rac-contata prima, quella che passa non attraverso i documenti scritti, ma attra-verso il resoconto collettivo ed orale di un popolo; una storia che le nuove letterature africane hanno recuperato per farne l’oggetto centrale della narra-zione.
2. La traduzione della storia
Questa contrapposizione tra História e estória ne presuppone un’altra più grande, che proviene dalla tradizionale concezione di ‘Storia’ che l’Europa ha formulato, la quale fa coincidere il suo inizio con l’apparizione delle prime fonti scritte. Questa equazione esclude dalla storia propriamente detta non solo interi periodi cronologici, ma anche vastissimi territori che non basano la tra-smissione della conoscenza sulla scrittura, come avviene appunto in gran parte dell’Africa sub-sahariana. Paesi, popoli, culture che associano la tradizione al-l’oralità, che a sua volta si basa sul racconto e sulla memoria; una memoria che è dei singoli ma che si fa, attraverso le generazioni, racconto collettivo. In tale contesto, si annulla l’opposizione tra Storia (História) e narrazione (ficção), che è invece presupposto della concezione di tradizione europea.
Nel momento in cui un sistema basato sull’oralità si traduce in letteratura, deve farlo cercando di riprodurre le sue tecniche proprie, inscenando una plu-ralità di voci, letteralmente scrivendo l’oplu-ralità, ovvero varianti della lingua uf-ficiale che diano conto del parlato, cercando una mimesi, non pedissequa ma creativa, di una lingua africana attraverso la lingua del colonizzatore, oppure reinventando il modo in cui il colonizzato usa, o meglio si appropria, della lin-gua della classe dominante.
Non è un caso dunque che l’estória si accompagni sempre ad una profonda ricerca linguistica, compiuta già, ancora una volta, da João Guimarães Rosa e in seguito, primo nell’Africa lusofona in maniera così compiuta e innovativa, da José Luandino Vieira. Lo stesso Luandino ha raccontato, in una lucidissima intervista, l’individuazione della strada che avrebbe influenzato così tanti scrit-tori dopo di lui:
depois, quando já estava na cadeia e já tinha escrito Luuanda, o Doutor Eugénio Fer-reira, responsável pela divulgação, pela defesa e pela apresentação da maior parte da literatura latino-americana em Angola naquela época, mandou para a cadeia […] um livro que se chama Sagarana. […] Era o Sagarana de João Guimarães Rosa, que eu li
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uns meses mais tarde. E então aquilo foi para mim uma revelação. Eu já sentia que eranecessário aproveitar literariamente o instrumento falado dos personagens, que eram aqueles que eu conhecia, que me interessavam, que reflectiam […] os verdadeiros per-sonagens a pôr na literatura angolana. Eu só não tinha ainda encontrado o caminho. Eu sabia qual não era o caminho, sabia […] que o registo naturalista de uma linguagem era um processo, ma que não valia a pena esse processo porque, com certeza que um gravador fazia melhor que eu. Eu só não tinha percebido ainda, e foi isso que João Gui-marães Rosa me ensinou, é que um escritor tem a liberdade de criar uma linguagem que não seja a que os seus personagens utiliza: um homólogo desses personagens, dessa linguagem deles. Quero dizer: o que eu tinha que aprender do povo eram os mesmos processos com que ele constrói a sua linguagem, […] utilizando os mesmos processos conscientes ou inconscientes de que o povo se serve para utilizar a língua portuguesa, quando as suas estruturas linguísticas são, por exemplo, quimbundas […]3.
Il passaggio successivo di questo percorso si ha quando tale approccio narrativo, linguistico e tematico decide di non limitarsi a raccontare le altre storie al di sotto della Storia, ma pretende di raccontare, dal suo punto di vista, avveni-menti che fanno parte della Storia, ovvero quando decide di dare la propria ver-sione della Storia. Nel momento in cui ciò avviene, siamo di fronte a una nuova sintesi, una rinnovata coincidenza tra História ed estória. Si tratta, letteral-mente, di una traduzione dell’História in estórias, di una sostituzione, o con-trapposizione, o affiancamento – in sintesi, di una dialettica – tra tradizione scritta e narrazione orale.
D’altronde, come ha suggerito África Vidal, la Storia stessa è traduzione:
Algunos mencionan explícitamente que escribir un texto historiográfico implica hacer una traducción de la realidad en función de las creencias e ideologías de quien hace la historia y de quien encarga su narración. […]La historia única crea estereotipos, y el problema con los estereotipos, recuerda Adichie, no es que sean falsos sino que son incompletos. Que nos intenten convencer de que solo hay una historia nunca es ca-sual: por eso es interesante que entendamos cada libro de historia que llega a nuestras manos como una traducción de lo que en realidad pasó4.
In questa chiave, è possibile leggere la storia ufficiale e la storia narrata attra-verso la letteratura come due traduzioni dello stesso “testo”. A differenza di una comune traduzione interlinguistica però, in questo caso il testo di partenza non è più direttamente accessibile, ma può essere riscostruito solo attraverso il confronto sinottico tra diverse versioni, come nel caso di un’edizione critica di un’opera il cui archetipo sia andato perduto. Si tratta di una dialettica non sempre riducibile o sintetizzabile, cui sottende una concezione della storia mag-giormente complessa e meno univoca.
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3. Ualalapi
Ualalapi, prima opera dello scrittore mozambicano Ungulani Ba Ka Khosa (pseudonimo di Francisco Esau Cossa, n. 1957), pubblicata per la prima volta
nel 19875, è il testo perfetto per esemplificare quanto detto finora, in quanto
rappresenta in modo estremamente felice e chiaro l’idea della estória come ver-sione alternativa, o traduzione, della História.
Il tema centrale dell’opera è l’ascesa e la caduta di Ngungunhane (o
Gun-gunhana), ultimo re o imperatore, o meglio hosi6, del regno di Gaza, entità
po-litica il cui territorio copriva la fascia costiera compresa tra il fiume Zambesi e l’attuale città di Maputo, per un totale di circa 90.000 km2, buona parte dei territori centro-meridionale dell’attuale Mozambico.
Ngungunhane venne definitivamente sconfitto dai portoghesi nel 1895; al momento della sua sconfitta, fu inizialmente condotto a Lisbona, dove fu mo-strato alle folle trasportato in una gabbia attraverso le vie della città, come sim-bolo dell’avvenuta pacificazione dei territori d’oltremare. Dopodiché venne esiliato nelle isole Azzorre dove, abbrutito dalla nostalgia e dall’alcol, morì nel 1906. Con l’indipendenza del Mozambico, avvenuta nel 1975, la sua figura fu rivalutata, e letta dalla nuova classe dirigente mozambicana come un simbolo della resistenza al colonizzatore. Ciò portò, nel 1983, all’avvio di un processo di traslazione della salma, che si concretizzò nel 1985, per i 10 anni dell’indipen-denza, anno in cui, nell’impossibilità di identificare i resti di Ngungunhane, una monumentale cassa di legno di 225 chili, contenente una manciata di terra del cimitero azzorriano in cui era stato sepolto, venne portata in corteo di fronte alle folle festanti, e poi collocata nella Fortaleza da Nossa Senhora da Conceição a Maputo, a pochi passi dalla statua in bronzo di Mouzinho de Albuquerque,
l’ufficiale di cavalleria portoghese che l’aveva sconfitto7.
Ngungunhane, denominato all’epoca il leone di Gaza, è una figura che è stata sottoposta, nel tempo, a diverse ‘traduzioni’. Su di lui e sulla storia della sua sconfitta esiste un’ampia storiografia lusitana coeva, come anche
mono-grafie storiche attuali8, nonché romanzi portoghesi, come Os leões não dormem
esta noite del giornalista e scrittore Guilherme de Melo9, che ne romanticizza ed epicizza l’immagine, sottolineandone la figura di grande uomo tradito dalla storia e dalla superiore forza degli eventi.
L’opera di Ungulani ha struttura e finalità ben diverse, su una linea di rico-struzione degli eventi che non va né nella direzione della demonizzazione della storiografia d’epoca, né della trasfigurazione, ideologica, simbolica o eroiciz-zante della fase post-indipendenza. Il libro è diviso in sei estórias, inserite nello stesso continuum ma indipendenti e parzialmente slegate, ognuna delle quali si propone di raccontare le vicende da diversi punti di vista e in cui ad una voce narrante principale si frappongono commenti di altri interlocutori; la cornice presenta, o suggerisce, la scena di una storia raccontata oralmente attorno ad
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un fuoco, con diverse voci che intervengono chiedendo chiarimenti o spiega-zioni, tipica situazione di narrazione e trasmissione di conoscenza nell’Africa
sub-sahariana10.
Ogni estória è aperta da diverse epigrafi, che riportano stralci estratti da fonti storiografiche dell’epoca, ufficiali o meno, ma anche citazioni bibliche ed evan-geliche (Giobbe, Apocalisse, Matteo). Oltre alle epigrafi, le diverse estórias sono inframezzate anche da sei ulteriori brevi testi, intitolati Fragmentos do fim, che presentano, in chiave narrativa o ancora una volta attraverso l’uso di docu-menti, la vicenda dal punto di vista portoghese. Fin da subito si pone, struttu-ralmente, una tensione dialettica tra citazione storiografica, depositaria sempre di una visione unicizzante, parziale e distorta dei fatti, e narrazione di carattere o derivazione orale, che contiene il punto di vista africano.
Una narrazione ‘a salti’, compiuta per frammenti, si oppone dunque al ten-tativo costante di ricostruire il continuum delle vicende storiche, di colmare le lacune, che l’opera storiografica spesso compie, seguendo una modalità perfet-tamente definita da una delle epigrafi dell’opera, firmata dalla scrittrice
por-toghese Agustina Bessa Luís: «A história e uma ficção controlada»11. Attraverso
le estórias di Ualalapi il lettore ha invece la possibilità di riempire le lacune au-tonomamente, di ricostruire gli eventi a suo modo, partendo da una moltepli-cità di testimonianze.
Va detto, a questo proposito, che Ngungunhane non deve essere considerato il protagonista della storia, bensì una sorta d’antagonista, contemporanea-mente eroico e terribile, forte ma anche crudele, in particolare verso le popo-lazioni africane da lui assoggettate, per le quali rappresenta fondamentalmente un conquistatore e un tiranno. Come ha affermato lo stesso Ungulani: «Eu achei que partindo da tradição – a história é recente, nem tem cem anos – os dados poderiam ser apresentados de outro modo. Na versão popular, o Gun-gunhana é considerado um invasor das terras do Sul, como todos os zulus, e eu
podia a partir daí chegar também aos familiares que o traíram»12.
In effetti, le diverse narrazioni contenute nell’opera non riguardano sempre direttamente Ngungunhane, bensì girano attorno alla sua figura, spiegando come la sete di potere l’abbia portato a infrangere tutte le tradizionali regole di successione e governo, rompendo l’equilibrio precedente e causando la sua ca-duta e l’assoggettamento del suo popolo al dominio coloniale.
La prima estória, intitolata Ualalapi come l’intera opera, è narrata dal punto di vista dell’omonimo guerriero, fedele al dovere, al suo popolo e alla sua tra-dizione, costretto dalla sua stessa fedeltà a eseguire gli ordini del suo signore, Mundugazi, che vuole la morte del fratello, erede al trono, per assurgere al po-tere al suo posto; Ualalapi finirà per impazzire per il suo atto, mentre Mundu-gazi salirà al trono con il nome di Ngungunhane.
La seconda estória è intitolata A morte de Mputa e racconta la fine di un altro dei guerrieri fedeli a Ngungunhane, fatto uccidere perché accusato
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mente di aver insultato la prima moglie dell’imperatore. La vicenda è raccontata dal punto di vista di Domia, figlia di Mputa, che cerca vendetta, ma trova solo violenza e morte.
La terza estória s’intitola Damboia, nome della zia di Ngungunhane che aveva spinto Ualalapi all’omicidio, favorendo l’ascesa al trono del nipote. Nel testo è narrata la sua morte per una misteriosa e terribile malattia, accompagnata da una serie di infausti prodigi che colpiscono la terra per tre mesi, tempo esatto della sua agonia. La storia è raccontata sia dal punto di vista della ‘vulgata’ che gira tra il popolo, sia da quello, più ravvicinato e diretto, che il narratore ha raccolto direttamente dalla testimonianza di una serva di Damboia.
La quarta estória s’intitola O cerco ou fragmentos de um cerco e racconta l’as-sedio dell’esercito di Ngungunhane alla fortificazione di Chirrime, dove si è asserragliato il re del popolo chope, nell’ambito di una campagna di conquista territoriale avvenuta nel 1889 e dovuta alla volontà dell’imperatore di spostare
la sfera di influenza del suo impero verso sud13. L’assedio si conclude con una
vasta e cruenta mattanza.
La quinta estória, intitolata O diário de Manua, racconta la vicenda di uno dei figli di Ngungunhane, che viene deportato dalla sua terra e condotto in Portogallo, dove assume la lingua, la religione e i comportamenti dei
porto-ghesi, divenendo in tutto e per tutto un assimilado14e rifiutando la propria
cul-tura e la propria tradizione. In questo modo Manua maledice sé stesso, infrangendo i tabù della sua gente; ma la sua massima infrazione è individua-bile nell’uso del peggiore e più pericoloso strumento dei bianchi, ovvero la scrit-tura, come testimonia il diario a cui fa riferimento il titolo dell’estória. Restituito alla sua terra, Manua è divenuto un alcolizzato alienato e privo di identità e cultura, disprezzato dal proprio popolo e dalla sua stessa famiglia, destinato ad una morte solitaria e ignorata nella propria stessa casa.
La sesta e ultima estória è intitolata O último discurso de Ngungunhane e rac-conta il momento in cui l’imperatore di Gaza, ormai sconfitto e catturato, viene imbarcato sul piroscafo che lo porterà in esilio in Portogallo; prima di partire, pronuncia, anzi grida, di fronte alla folla che assiste, un apocalittico discorso profetico. In questo racconto finale viene presentata la figura di un vecchio, seduto di fronte al fuoco, che chiosa le vicende di Ngungunhane raccontate da un suo interlocutore, il narratore dell’opera. Il vecchio afferma di aver appreso la vicenda del re direttamente da suo nonno; inoltre racconta che lo stesso nonno, una volta morto e sepolto, ha continuato a parlare per una settimana e mezzo, in una chiara rappresentazione simbolica del protrarsi dell’oralità al
di là della morte e del suo fondamentale valore di memoria storica15.
Di contro, la parola scritta appare ancora una volta, nel discorso profetico di Ngungunhane, come il principale strumento usato dai colonizzatori per as-soggettare il popolo africano, in contrasto con il valore vivo e creativo della pa-rola enunciata: