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Transizione alla genitorialità: immaginarsi genitore

Nel documento Le Famiglie Omogenitoriali in Italia (pagine 89-93)

6. Tra quotidianità e vuoto giuridico: testimonianze di famiglie omogenitoriali

6.2 Le sfumature di vuoto formale e informale

6.2.1 Vuoto informale

6.2.1.1 Transizione alla genitorialità: immaginarsi genitore

L’omogenitorialità fa emergere la relazione dinamica e multidimensionale che esiste tra una realtà socioculturale caratterizzata da precisi valori, credenze, saperi e l’azione e il pensiero individuali, nel processo di diventare e sentirsi (buoni) genitori. Una persona,

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nel momento in cui si immagina genitore, non è costretta a costruire la propria esperienza dal nulla in quanto trova nel suo ambiente degli artefatti - oggetti concreti o simbolici - che funzionano da contenitori di informazione culturale organizzata, le “istruzioni per l’uso” di uno specifico mondo (Inghilleri, 1999). I modelli di paterno e materno, le pratiche di accudimento, le regole che consentono di socializzare o invece di mantenere private certe emozioni relative ai propri figli, sono elementi che vanno a costituire una trama significante capace di organizzare (o no) la vita familiare e l’esperienza soggettiva ad essa relativa. L’ancoraggio al proprio contesto risponde al bisogno cognitivo di organizzare il mondo in maniera coerente, ma è anche funzionale a fornire appartenenza e senso del mondo a livello individuale e collettivo. Nelle situazioni nuove o di cambiamento gli artefatti sono particolarmente importanti perché consentono di crearsi delle aspettative e di capire il corso di eventi che, altrimenti, risulterebbero spaesanti. Se questi però sono troppo semplici e poveri di informazione rispetto alla realtà che l’individuo sperimenta, non saranno sufficienti in quanto l’individuo si troverà con pochi strumenti a disposizione per agire sui contesti e modificare le situazioni che incontra quotidianamente. Possiamo dire così che la cultura “garantisce” la possibilità individuale di stare al mondo e di agire attivamente su di esso (Dalal, 2002; Cole, 1996).

Ciò che si ritrova ad affrontare dunque una famiglia omogenitoriale è proprio una sfida. Il processo di categorizzazione del mondo inscritto negli artefatti, una volta che si è consolidato all’interno della storia di un gruppo, innesca meccanismi di attrazione (Elias, 1982). Il funzionamento mentale risponde a un principio di economia che rende questa costruzione sociale automatica e inconsapevole dunque il costituirsi di questa dimensione implicita ha l’effetto di naturalizzare i processi e di farli sembrare strutturali. Questo processo che da una parte contribuisce a rendere fluida l’esperienza di sé nei contesti, dall’altra è proprio ciò che rende più difficile agire un cambiamento degli schemi quando non sono più funzionali. Il meccanismo è un po’ quello degli stereotipi che forse possiamo capire più facilmente: essi sono estremamente utili in quanto ci evitano di analizzare situazioni, luoghi, gruppi od oggetti già conosciuti, ma nel momento in cui ciò che ci troviamo di fronte non corrisponde allo stereotipo, entriamo in confusione e quel concetto astratto che doveva semplificarci le cose ce le ha complicate.

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E’ così che la famiglia omogenitoriale si può trovare nella situazione in cui quel “vincolo ad essere” proposto da un determinato contesto la spinge verso posizionamenti che non le corrispondono, dove le immagini di genitorialità proposte sono troppo semplici per collegarsi alla propria esperienza. I suoi membri rischiano allora di sperimentare uno scollamento tra quello che vivono individualmente e la rappresentazione che ne viene proposta a livello collettivo.

Analizzando le interviste possiamo notare che il vuoto di immaginarsi genitore è appunto abbastanza ricorrente. In primis lo troviamo come vuoto dato dalla società e dalla cultura:

Intervistata n°1: «Non avevamo mai mai parlato di bambini perché era una cosa un po’ (sospira) anomala ecco».

Intervistata n°1: «Io non ci avevo mai pensato, lo davo per scontato [che l’omosessuale non può avere figli]…ovviamente biologicamente si può».

Intervistata n°1: «Noi omosessuali ci sentiamo dire fin da piccoli che se siamo

così non possiamo aver figli e quindi nessuno ha questa prospettiva. Anche io ho sempre pensato che era difficile e impossibile».

L’intervistata non lo pensava proprio perché “lo dava per scontato”, non si poteva quindi non era nemmeno possibile immaginarlo. Anche all’interno della coppia non se ne parlava perché era una cosa non contemplata, “anomala” appunto.

Altro vuoto legato all’immaginario è quello che un soggetto potrebbe non riuscire ad immaginare il proprio corpo, nel nostro caso il corpo di una donna, portatore di una vita. Questo vuoto potrebbe essere interno legato ad una caratteristica propria dell’individuo ma potrebbe anche essere legato ad un influenzamento sociale che per anni ha dipinto la donna lesbica come una donna priva di caratteristiche femminili e anche materne. Una donna potrebbe quindi non accettare un pancione su sé stessa ma per quale motivo? Uno stereotipo sociale, uno stereotipo interiorizzato o semplicemente un motivo che esula dall’omosessualità?

Intervistata n°4: «Per me era un discorso inaccessibile, io non l’avrei mai fatto [l’inseminazione artificiale]».

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Intervistata n°4: «Io fisicamente non sarei in grado di reggere…non lo farei mai…non

lo accetterei proprio sul mio corpo».

Questo vuoto di immaginario è meno frequente nelle intervistate più giovani e nelle intervistate con una precedente relazione eterosessuale. Le coppie riferiscono di non aver pensato prima a dei figli o di aver avuto questo desiderio ma lontano nel tempo perché avrebbe ostacolato la carriera lavorativa o semplicemente perché il desiderio non nasceva all’interno di quella determinata coppia.

Intervistata n° 3: «L’ho maturata molto in la [il desiderio di maternità]… ho sempre

detto no no no. Non so dirti che cos’è che è cambiato. Adesso mi sentivo pronta».

Intervistata n°7: «Allora, lei ha 45 anni, io 37 quindi c’è anche un po’ una differenza di

età quindi diciamo quando ci siamo messe insieme lei era già nella questione figli, io non ci pensavo proprio. Però non è che…cioè mi immaginavo una famiglia…però, con calma».

Intervistata n°9: «Quando ero più giovane in realtà ho sempre avuto abbastanza chiaro

che per me fosse importante salvaguardare il mio percorso di crescita individuale quindi anche sul piano professionale e che la maternità potesse costituire un ostacolo a questo».

Intervistata n°10: «Per me è un’idea che ho sempre abbastanza avuto in mente [la maternità] ma non così presente. In alcuni anni della mia vita diciamo che l’idea è stata

accantonata per favorire altre cose».

Superato il vuoto dell’immaginario, forte è la dimensione della scelta. Anche a livello di letteratura internazionale si sta diffondendo un termine nuovo per definire le famiglie omogenitoriali, un termine che esalta questa famiglia che è stata voluta e scelta: family of choice.

Intervistata n° 7: «Lo scegli tantissimo [il fatto di avere un figlio], rispetto a chi dice dai

vediamo come va, se va va se no, tu lo devi proprio decidere prima. A me piace averlo scelto così tanto».

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Nel documento Le Famiglie Omogenitoriali in Italia (pagine 89-93)

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