• Non ci sono risultati.

Dopo aver compiuto un’estensiva analisi cronologica sulla storia della città maghrebina dall’Antichità al primo Medioevo, si analizzeranno ora le fonti materiali disponibili per una lettura della trasformazione degli spazi urbani tra il V-VI e l’VIII-IX secolo. Per i secoli medievali non verrà analizzata la storia dell’arte e dell’architettura islamica, ma più che altro quella del popolamento etnico delle città e del suo grado di incisività sulla creazione, trasformazione e incremento degli spazi cittadini. Nel capitolo precedente è stato sottolineato come l’Islam integri la popolazione berbera all’interno del suo sistema socio- politico molto più in profondità di quanto le civiltà classiche avessero mai fatto; per la prima volta da secoli i Berberi riconoscono infatti nei loro dominatori una struttura sociale se non analoga, quantomeno equiparabile alla propria. Nonostante l’urbanesimo e l’amministrazione statale rimangano concetti estranei alla loro cultura, sarà proprio la lenta ma progressiva assimilazione della cultura araba - attraverso la religione - ad avvicinarli alle città non solamente per un’attività di scambio, ma anche come abitanti e costruttori essi stessi. La città classica, tramite l’importazione di cittadini romani e veterani, il rigido controllo delle frontiere e il fortissimo impulso alla completa romanizzazione, non solo aveva escluso i Berberi dal suo popolamento, ma non ne aveva previsto neanche l’esistenza se non come parte integrante del proprio sistema. Allo stesso modo i Bizantini, senza però rendersi conto quanto ormai la forza indipendentista berbera avesse assunto una piena coscienza e l’Impero mancasse di una solidità politico economica sufficiente per poter reggere un limes che già in sua genesi era destinato a fallire in una provincia così lontana.

Ci si rende conto che molto sfugge della storia del popolamento reale delle città romano- bizantine: se per il periodo medievale i racconti dei geografi ci illuminano sull’etnicità del territorio e degli spazi urbani, non siamo in possesso di alcuna fonte classica che descriva le periferie e i sobborghi delle città, per i quali la fonte materiale è inoltre pressoché assente se non probabilmente a livello di paleosuoli. Pur essendo a conoscenza della loro esistenza (la stessa Tunes è un sobborgo di Cartagine), non abbiamo idea né dell’estensione di queste periferie, né del loro tipo di popolamento, né tantomeno delle

loro modalità costruttive. Basandosi sulle teorie del Courtois475 si è sovente ritenuto che

durante l’Impero romano i Berberi vengano cacciati sulle montagne e nel perideserto (e molto probabilmente così è per la maggior parte di loro). Bisogna però soffermarsi sulla considerazione che, forse, coloro i quali si romanizzano comincino a vivere da romani pur continuando a seguire le proprie tradizioni culturali. Sono dunque anche questi a popolare le periferie delle città antiche, seguendo forse dei modelli di insediamento più propri alla loro cultura che non a quella classica. Ecco come allora, seguendo questa linea interpretativa, la conoscenza delle periferie berbere delle città medievali potrebbe essere d’aiuto per la conoscenza dei sobborghi delle città classiche.

L’Ifriqiya - sia sulle coste sia nell’entroterra - è, per l’orizzonte maghrebino, il territorio maggiormente equiparabile ad una provincia del Mediterraneo settentrionale da un punto di vista storico. Ad un’urbanizzazione intensiva e un alto grado demografico in epoca classica seguono infatti l’invasione e lo stanziamento sullo stato romano di un popolo germanico, una guerra di riconquista e un nuovo insediamento bizantino giustinianeo. Ecco come mai la cultura araba, urbana, statale e in un certo senso ellenistica476, influenza in maniera molto più compiuta questo territorio rispetto agli altri,

più occidentali, del Maghreb. Attraverso la storia del popolamento ci si rende però conto di come anche gli Arabi abbiano cercato di allontanare l’instabile elemento berbero dai loro possedimenti. La cacciata degli Ibaditi dall’Ifriqiya assume i contorni di una ciclicità storica, dove i nuovi immigrati Arabi orientali hanno il medesimo impatto dei veterani romani e degli occupanti bizantini. Essi riescono infatti a creare una provincia il più possibile ad immagine e somiglianza di quelle orientali, araba nella sua strutturazione, e nella quale i Berberi hanno un impatto ridotto. È solamente spostandoci verso Occidente che si assisterà ad un progressivo ed esponenziale aumento del popolamento berbero dei centri urbani.

Tra il V secolo e Giustiniano - Il periodo tardo romano e vandalo

Il periodo che intercorre tra la fine del IV e l’inizio del VI secolo può essere considerato quello in cui si riscontra la scomparsa dei principali poli della città classica tradizionale. Fori, templi e grandi edifici pubblici perdono la propria centralità a favore di nuovi punti nevralgici che si trovano a riorganizzare gli spazi fisici e sociali. Dal momento che edifici di 475 Courtois 1964.

culto cristiani e nuovi sistemi di produttività locale rilevano il ruolo di aggregatore sociale degli spazi di riunione romani, la popolazione urbana si trova ad aggregarsi non più all’interno di un grande spazio ritenuto comune e pubblico, ma piuttosto intorno ad un nuovo edificio che ha occupato quello spazio da un punto di vista fisico-funzionale e al quale ci si rivolge anche idealmente per la propria stabilità non solo economica, ma anche umana.

Lo studio della casistica di occupazione e della stratigrafia tardoantica di diversi siti anche lontani tra loro è alla base delle due illuminanti pubblicazioni di Roskams del 1996477 e dei

lavori di sintesi effettuati da Thébert, Lepelley e Sjöström478. Come già analizzato nel

capitolo relativo all’impatto del Cristianesimo nella città classica, si è notato come alcune centri leghino alla rinascita costruttiva di fine IV non solo una riconsiderazione dello spazio urbano in senso cristiano, ma a volte la creazione tout court di tale spazio, come i quartieri di nuova fondazione a Thamugadi, Cuicul e Bulla Regia dimostrano479. Ciò che

risulta meno chiaro è se tra V e VI secolo il nuovo spazio cristiano rappresenti solamente un’addizione all’antico centro urbano o ne prenda in toto le funzioni480. Nonostante in

alcuni contesti le fonti materiali forniscano preziose informazioni sullo slittamento dell’insediamento da un punto di vista monumentale, non vi è alcuna evidenza sull’effettivo abbandono dei quartieri periferici. Come già ammesso in introduzione di capitolo, dal momento che sfugge la strutturazione sia materiale sia umana dei sobborghi e che le indagini archeologiche riguardano in maniera sistematica soprattutto i centri città, non si può avere la certezza di un effettivo spopolamento di tali aree, ma solo della fine della loro manutenzione monumentale. Ciò che si può notare è invece come gli spazi pubblici centrali, a seconda del loro sfruttamento, conoscano tra il IV-V e il VI secolo sia una privatizzazione, sia un mantenimento della loro funzionalità per la comunità. Alcuni esempi.

Lo sviluppo di cimiteri dipendenti da edifici cultuali o raggruppati intorno a una cappella funeraria a Cartagine481 Lambaesis482, Bararus/Rougga483 e Hippo Regius484, anche se non 477 Roskams 1996a; Roskams, 1996b.

478 Thébert 1983; Lepelley 1992; Sjöström 1993.

479 Courtois 1951; Beschaouch et alii, 1983; Allais 1971.

480 Roskams 1996b, pag. 163.

481 Leone 2002. 482 Roskams 1995.

483 Guéry 1984; Guéry 1985. 484 Lassus 1971.

contemporanei, implica una continuità minima di occupazione dell’originale centro romano attraverso una trasformazione dello spazio pubblico. Si deve però notare che, per i modelli di vita che si stavano sviluppando, lo spazio sepolcrale rileva quella che era stata la funzione dello spazio precedente, con l’aggregazione sociale che continua a sostanziarsi all’interno di uno spazio che, pur cimiteriale, rimane inequivocabilmente sociale. Non si tratta infatti di inumazioni private, ma di cimiteri veri e propri: la nuova retorica cristiana sulla concezione del mondo dei morti porta probabilmente la popolazione a ritrovarsi in un uno spazio comune come prima avveniva nelle piazze. Ciò che cambia è la funzionalità di quello spazio, ma non il suo ruolo. L’inumazione all’interno del perimetro urbano risulta dunque essere un fattore che dimostra la trasformazione ma non il decadimento dell’organizzazione urbana485. Di fianco ai cimiteri vi è da sottolineare l’importante

riscontro di stratigrafia sulla continuità di occupazione anche di quartieri sia artigiani (Cartagine486), sia termali o caratterizzati da bagni pubblici (Sitifis487). Tali continuità d’uso

ammettono dunque ancora di più come esistano determinati bisogni fisici e sociali durevoli che il centro urbano seguita a soddisfare. Per quanto riguarda gli edifici abitativi invece, la fortuna o sfortuna di un’abitazione o di una piccola cappella - mancando in periodo vandalo una manutenzione coerente - sono date dalla casistica casuale di occupazione degli spazi, per cui di fianco a ville romane a continuità di vita si possono riscontrare chiese abbandonate nel V e poi restaurate dalla seconda metà del VI dai bizantini (o viceversa)488. Nel momento in cui un centro urbano smette di essere oggetto

di una pianificazione costruttiva e di una manutenzione sistematica, il principio che detta le direttive di rioccupazione si può esemplificare attraverso una “selezione naturale dello spazio” effettuata dall’uomo inconsciamente, e nella quale hanno valore essenzialmente la maggior agevolezza e facilità e i minori rischi. Ecco come mai a volte edifici o proprietà adiacenti tra loro si possono sviluppare in direzioni totalmente diverse nel corso del tempo489. Su questo argomento ci si sente in dovere di citare le parole del Delogu sul

concetto di trasformazione, che trova in questo lavoro di tesi la sua applicazione più diretta:

“Trasformazione evita di qualificare il senso delle vicende e dei processi, mettendo 485 Thébert 1983, pag. 117.

486 Ennabli 1997. 487 Fentress 1989.

488 L’esempio in questione riguarda le abitazioni aristocratiche a est del teatro e dell’odeon. Humpherey

1976 (Roskams 1996a, pag. 45).

l’accento sul cambiamento come fenomeno storico che ha in sé il proprio significato; un significato che consiste – si può dire – nel modo in cui la società si modifica in relazione alle condizioni in cui vive ed alle risorse di cui dispone. In questo senso la trasformazione può essere apprezzata senza doverla qualificare come evoluzione o involuzione; essa è semplicemente l’elaborazione di successive, diverse conformazioni socio-culturali490”.

Va inoltre doverosamente citata l’interpretazione di quella corrente di ricerca491 che vede

l’utilizzo di materiali da costruzione più poveri (legno e argilla invece della pietra) e la riduzione degli spazi abitativi direttamente connessa con “l’affermazione di nuovi valori culturali introdotti dalle popolazioni barbariche, da una crescente militarizzazione della società e dal Cristianesimo492”. Secondo questa visione, la trasformazione delle ville non è

tanto da mettersi in connessione con un abbassamento della qualità della vita o della ricchezza, ma piuttosto con il modo di vita più austero e sobrio secondo il quale alcuni nuovi aristocratici cristiani avevano iniziato a vivere dalla fine del IV secolo, e in cui “il

surplus prodotto dalle loro proprietà, invece di adoperarsi in altri modi di ostentazione

sociale, viene invece principalmente investito negli edifici di culto cristiano e nelle cerimonie funerarie493”.

Si ribadisce dunque in questo capitolo conclusivo un’osservazione già fatta, ovvero come l’evoluzione della città di V-VI secolo continui su se stessa come aveva sempre fatto. Sebbene le modalità e i tempi di formazione siano differenti rispetto a quelli della città classica, non si riscontrano grandi fratture occupazionali al suo interno, ma solamente la transizione del ruolo di aggregazione sociale dalla piazza aperta alla basilica cristiana e i suoi annessi strutturali. La privatizzazione dello spazio pubblico è prevalentemente in direzione religiosa, ma se si ammette il ruolo della chiesa come nuova fonte di aggregazione sociale si potrebbe anche ammettere il suo ruolo quale nuovo spazio “pubblico”. In tutto questo le città, pur trasformandosi intrinsecamente, conoscono dunque un’occupazione continuativa: nonostante il cambiamento nella gestione politica infatti, la direzione del potere prosegue la medesima amministrazione del territorio dei secoli precedenti, e l’economia della regione continua ad integrare, in un meccanismo di mercato comune, il sistema urbano con l’agricoltura e il commercio. Il cambiamento è

490 Delogu 1999, pag. 4.

491 Lewit 2003.

492 Chavarría Arnau 2004, pag. 15.

quindi nelle modalità di rapporto con il tessuto urbano: al policentrismo delle città antiche, articolato in funzione di un gran numero di punti cruciali differenti494, succede

una riduzione tipologica (ma non numerica) degli spazi di aggregazione sociale, ormai estrinsecati intorno agli edifici che denotano l’immagine del potere: le basiliche per quello ecclesiastico e le successive fortificazioni giustinianee per quello politico. Il periodo tardoromano e vandalo sembra quindi caratterizzato da un dinamismo abbastanza forte da riuscire a rimodellare l’aspetto delle città, ma con una forza minore rispetto al passato riscontrabile sia nella semplificazione dell’architettura degli spazi pubblici sia nell’incapacità di riuscire a mantenere in vita da un punto di vista monumentale tutte le superfici prima urbanizzate495.

La rottura giustinianea

Sono due i fattori principali che concorrono alla profonda trasformazione dei centri urbani in epoca giustinianea: il nuovo stato politico di “guerra” e l’inevitabile calo demografico che ne deriva. Le conseguenze “fisiche” di questi due processi sono immediatamente osservabili anche sul tessuto urbano; in primis attraverso i nuovi edifici militari a forte impatto monumentale e successivamente tramite la “spaccatura” che le nuove fortificazioni operano sul centro urbano, dividendolo in due parti distinte.

L’impatto monumentale e la concezione urbanistica

Come già affermato nel capitolo di riferimento, la gestione giustinianea in Africa fa del tentativo di ristabilimento dell’unità fisico-estetica della città il cardine attraverso il quale ricostruire l’identità politica della provincia. Limite di questo programma è però il fatto che esso si fondi ancora su principi socio-politici romani basso imperiali in un’epoca nella quale sono ormai gli stessi attori/protagonisti ad essersi trasformati. La concezione di rinnovamento che Giustiniano ha in mente la si può estrapolare dalle parole di due delle principali fonti storiche dell’epoca: Evagrio e Procopio di Cesarea. Il primo racconta così la prorompente azione politica dell’imperatore bizantino:

“Giustiniano rilevò in Africa centocinquanta città. Alcune egli le ricostruì completamente:

altre, che erano in gran parte rovinate, le restaurò con più magnificenza. In tutte egli prodigò tutti i generi di ornamenti, le costruzioni pubbliche e private, le cinte di mura e i

494 Thébert 1983, pag. 119. 495 Cfr. Thébert 1983, pp. 120-131.

superbi edifici che fanno lo splendore delle città in modo uguale a come piacciono a Dio; egli moltiplicò i lavori d’acqua sia per il piacere che per l’utilità, creando (strutture) nuove per le città che non ne possedevano prima, riparando le altre in maniera da render loro il loro aspetto di una volta496”.

Ecco invece le parole di Procopio in riferimento alla fondazione di Iustinianopolis, città sulla costa orientale della Byzacena che rileva il centro indigeno di Caput Vada, oggi Ras Kaboudia:

“C’era anche un altro luogo sulla costa della Byzacena, che gli indigeni chiamavano Caput

Vada … L’imperatore Giustiniano decise di trasformare questo luogo in una polis che fosse difesa da una muraglia e resa degna da altri accorgimenti e di essere considerata come una grande e ricca città. E il progetto dell’imperatore fu realizzato. Un muro fu costruito e con esso una città, e la condizione rurale del luogo fu velocemente modificata. E i paesani hanno abbandonato l’aratro e svolgono la vita di una comunità civica, non passando più il loro tempo in attività agresti ma vivendo una vita urbana; essi passano le loro giornate nell’agora e si riuniscono in una ecclesia dove essi dibattono i loro affari; essi parlano gli uni con gli altri e si occupano di tutti gli affari propri alla dignità di una città497”.

Come già accennato in precedenza, spesso gli storici si sono interrogati sul significato del formulario “civitas a fundamentis aedificata est”. Alla luce del confronto tra le parole di Procopio e di Evagrio si può presto però capire come, nell’intenzione imperiale, sia il concetto municipale e civico di città in senso classico (se non addirittura repubblicano) a voler essere riedificato dalle fondamenta, mentre il suo rinnovamento monumentale è solamente accessorio in finalità difensive e di rinnovamento religioso. Le 150 città di Evagrio sono quindi intese non nel senso diretto di ricostruzione edile, ma nel senso di ripristino della vita civica e delle istituzioni municipali498. Per quanto riguarda invece le

parole di Procopio, risulta quasi palese come non si tratti di una vera descrizione letterale ma di un cliché di un’idealizzata città antica499. Le città vengono dunque rifondate da un

punto di vista amministrativo, con un nuovo corpo civico, un vescovado, a volte un nuovo toponimo500 e un innovato aspetto monumentale in direzione principalmente militare e 496Evagrio, Storia Ecclesiastica, IV, 18. (Lepelley 1992, pp. 105-106).

497 De Aedificiis VI, 6, 13-15. (Modéran 1996, pp. 104-105). 498 Modéran 1996, pag. 107.

499 Cameron 2000, pag. 179.

500 Sempre riferito, quando riscontrato, all’imperatore o a sua moglie. Si vedano i casi di: Cululis/Theodoria- nopolis, Hadrumetum/Justinianapolis, Cartagine/Carthago Iustiniana, Capsa/Capsa Iustiniana, Zabi/Civitas

religiosa, con l’architettura civile limitata al miglioramento delle strutture di servizio per la produzione (strade, sistemi di irrigazione, magazzini). Anche nelle parole delle fonti quindi le “promesse” bizantine si rivelano vane già in partenza: il sogno di Giustiniano è ritrovare lo splendore municipale delle città romane basso imperiali, ma il suo rinnovamento urbano elimina ogni senso civico dalla civitas. Promette spazi sociali ma li occupa con fortezze e basiliche e, mentre dichiara di voler garantire lo scambio municipale tra i cittadini, mette il potere in mano ai duces e ai vescovi. Quindi, anche se la politica municipale dei Bizantini si situa sulla scia di quella romana (seguita anche dai Vandali), sono gli attori ad esserne completamente diversi. Ciò che rimane sfuggente è l’effettivo grado di rimunicipalizzazione portato avanti durante la gestione bizantina, quanto fosse profondo a metà del VII secolo e quali sono le cause del suo fallimento501. Ciò che viene a

mancare sembra essere il supporto diretto di un’amministrazione che ridistribuisca le entrate municipali in direzione pubblica. “Se dal VI secolo in poi le città continuano a funzionare come centri militari, fiscali e amministrativi, ciò che perdono è il carattere di autonomia o semiautonomia che le caratterizzava prima, come entità responsabili della gestione delle proprie entrate502”. È proprio questo sembra essere l’iniziale tentativo di

Giustiniano, ovvero cercare di riassestare la vita municipale dando le chiavi della città in mano ai vecchi notabili; questi però non solo non si dimostrano più in grado di gestire un territorio i cui confini si rivelano essere tutt’altro che omogenei, ma soprattutto i loro sforzi risulteranno essere finalizzati - in maniera quasi unilaterale - al riempimento delle casse imperiali, ducali e vescovili per coprire i costi di manutenzione e di perenne stato bellico in cui versava la regione. La storia economica della provincia tra tardo VI e inizio VII secolo sfugge come detto ad un’interpretazione univoca, ma si potrebbe postulare una progressiva evasione fiscale non solo dei grandi proprietari terrieri, ma anche degli stessi notabili (proprietari anch’essi) predisposti al suo mantenimento. Come già detto l’occupazione bizantina, per i contemporanei, deve avere il significato di una reale dominazione militare, durante la quale un esercito straniero estorce pagamenti al popolo e le entrate fiscali si concentrano nelle mani dei capi politici e nelle casse della Capitale.

nova Iustiniana Zabi, Caput Vada/Iustinianopolis. Modéran 1996 pag. 93. 501 Cfr. Modéran 1996, pp. 111-116.

Il calo demografico e il restringimento della città

L’azione edilizia giustinianea provoca dunque lo stravolgimento urbanistico dei nuclei cittadini da un punto di vista monumentale. Gli spazi aperti rimasti vengono inclusi in “cortili fortificati503” separati da alte mura dal resto dell’agglomerato urbano antico. Le

basiliche vengono ristrutturate in senso bizantino e nuove ne vengono edificate solamente quando ne si riscontra la mancanza all’interno della nuova “cittadella”. Al di fuori delle mura i grandi edifici pubblici che non trasformano la propria funzionalità (in direzione religiosa, produttiva o abitativa) riscontrano un progressivo accumulo di spazzatura e materiali di scarto, mentre nuove costruzioni con antichi materiali vengono installate sugli spazi ancora disponibili e sulle strade principali, il più delle volte nel raggio di azione delle basiliche rimaste al di fuori del circuito murario. Spesso si confonde la mancata manutenzione monumentale dei grandi edifici pubblici con il loro abbandono o la loro “rovina”. Sebbene un effettivo calo demografico sia postulabile (dato dalle condizioni di vita in contesto “bellico” dopo la fine della pax romana), ciò che non è

Documenti correlati