Proust e la musica: ecco una coppia ricca di suggestioni e certamente ispirata da qualche segreta rima che anela di scoccare. Lo sa il lettore, che alla musica ha pensato con riconoscenza durante le sue più memorabili «journées de lecture» proustiane. E maggiormente lo sa il critico che, per quanto deliberato al più intransigente purismo, per quanto deciso a ricorrere col massimo di parsimonia e di pudore, e solo per casi estremi, alle metafore musicali, si è vedute crollare a una a una tutte le sue riserve e ragioni: ed ha accettato, a proprio completo vantaggio, di fare un’eccezione per Proust [d. Debenedetti 1982: 99].
Così Giacomo Debenedetti nel 1928 apriva il suo prezioso studio sul ruolo della musica per Proust e in Proust. Si trattava di un lavoro, come sottolinea lui stesso, a suo modo pioneristico, che sceglieva di svincolarsi dal «purismo» dei letterati e dei critici, e di gettare dei primi, ma saldi ponti tra il mondo della letteratura e quello della musica, tra il verbale e il sonoro. La «diffidenza […] per lungo tempo ha accompagnato ogni tentativo di comparazione fra le arti», osserva Roberto Russi, e lo stesso Claudio Guillén, autore della pietra miliare della comparativistica letteraria (Entre lo uno y lo diverso, 1985), «metteva […] apertamente in guardia dalla comparazione interartistica, indicandola semmai come pertinente all’estetica» [c. Russi 2018: 2].
Eppure, non si può affatto dire che nella storia della cultura occidentale siano mancati esempi di interazione tra le arti. La mousiké téchne (l’arte delle Muse) indicava presso i greci una triade indissolubile di musica, poesia e danza; fino al IV secolo a.C., ovvero fino alla diffusione della tecnologia del libro e quindi alla nascita di una poesia per la lettura, verso e canto erano inevitabilmente connessi [c. Pala 2015: 2].
Con l’avvento del libro la poesia per musica non è certo scomparsa; ha continuato a esistere e rinnovarsi tra madrigali, ballate, canzoni, fino a giungere sul palco dell’opera. E cosa dire del rapporto con la musica di scrittori come Joyce (e le sirene del suo
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Kröger)?1 Per il mondo russo, bisogna poi aggiungere, il sincretismo fra queste arti sembra fin dalle origini una prassi, come ha ben illustrato Ugo Persi nel volume I suoni
incrociati (1999):
La letteratura russa, che quasi sempre si accompagna alla filosofia, quando addirittura non la supporta […], non introdurrà mai il motivo musicale con funzione autonoma o puramente edonistica. Si può dire che il motivo musicale vi è connaturato a quello etico-filosofico, e che per questo anche in una poesia apparentemente poco significativa si celano motivi che vanno ben al di là della rappresentazione di un diletto mondano, per approdare a valori di più ampio interesse culturale, sociale e storico [c. Persi 1999: 58].
Riporta Persi le parole di Vladimir Odoevskij (1803-1869), il primo autentico musicologo russo2, che qui ribadisce la naturale unitarietà di arti e saperi: «chi conosce una sola disciplina, non la conosce affatto», poiché «in ogni oggetto della natura si manifestano tutte le scienze insieme» [c. Persi 1999: 74].
I rapporti tra poesia e musica in ambito russo – rapporti che hanno interessato tutti i grandi nomi della letteratura, da Puškin a Lermontov3, da Gogol’ a Tolstoj – sono
1 Scrive a riguardo Roberto Russi: «Nel celebre capitolo XI dell’Ulysses, ad esempio, ciò a cui Joyce vuol dare rilievo è “the ability of the mind to process multiple streams of information simultaneously”. Ecco dunque che il riferimento ai procedimenti compositivi e alla struttura della fuga in musica è utile per focalizzare l’attenzione sul principio della simultaneità. Così l’intertesto musicale non si presenta come il fine della pagina joyciana, ma come un mezzo, attraverso il quale viene motivata una precisa strategia letteraria, da leggere in diretta relazione con la tecnica dello stream-of-consciousness che governa l’episodio e gran parte dell’intero romanzo. Allo stesso modo si potrà finalmente parlare di forma-sonata per il Tonio Kröger di Thomas Mann, senza tirare in ballo presunte quanto improbabili convergenze strutturali, ma in quanto metafora tra le più adatte e immediate per descrivere il principio di contrasto, sviluppo e ricapitolazione caratteristico del testo. Lo scrittore infatti, proprio nel riproporre gli elementi cardine del racconto, fa sì che il protagonista acquisti una consapevolezza nuova e un nuovo punto di vista sulla realtà. In un altro testo pieno di musica, la novella Tristan, concepita sulla falsariga della poetica wagneriana, Mann utilizza una serie di motivi adatti a essere ripetuti e variati. Questo procedimento crea un insieme di unità testuali che si denotano tanto per essere elementi costitutivi della trama desunti da una tecnica propria della musica, quanto – e direi soprattutto – per la forza che esercitano sul lettore, inducendolo alla scoperta di sempre nuove possibilità di senso e piani di interpretazione che possono, così, non essere espressi in modo esplicito dalla scrittura» [c. Russi 2018: 5].
2 Primo trattatello russo di estetica musicale si può invece considerare Skul’ptura, živopis’ i muzyka
(Scultura, pittura e musica; 1827) di Dmitrij Venevitinov: l’autore qui elegge la Musica ad arte più elevata delle tre, diretta ancella della Poesia; si ricorderà che anche Nikolaj Gogol’ è autore di un testo di poco successivo dallo stesso titolo, pubblicato all’interno dei suoi Arabeschi. Il vero pensiero estetico-musicale russo nasce però, secondo Ugo Persi, solo più tardi, in seno alle osservazioni di Odoevskij e Neverov in merito all’importanza del problema del rapporto fra poesia e musica, a partire dalla prima rappresentazione di Una vita per lo zar di M. Glinka nel 1836 [c. Persi 1999: 61]. È il caso di aggiungere inoltre che l’idea dell’unitarietà delle arti, musica compresa, venne riaffermata nell’Ottocento anche dalle correnti filosofiche ispirate all’idealismo tedesco, che ebbero successo in diversi circoli intellettuali russi, come ad esempio quello formatosi attorno a Nikolaj Stankevič.
3 Per quanto riguarda Puškin, nota Ugo Persi che nella piccola tragedia Mozart e Salieri la musica occupa solo uno spazio relativo per quanto riguarda il soggetto, imperniato piuttosto attorno alla tragedia umana, all’invidia, al genio; eppure, quest’opera «si esprime» in termini musicali: «credo non vi siano dubbi sul
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così stati oggetto di numerosi studi critici: ad Aleksandr Blok nel 1972 venne dedicata un’intera raccolta di articoli dal titolo Blok i muzyka e già nel 1918 era uscito un più breve, ma originale lavoro – soprattutto per i tempi – di Michail Alekseev, Turgenev i
muzyka1. Al poeta simbolista, in particolare, veniva naturale percepire l’arte in maniera sincretica: l’uso del colore (legato anche a un’«affinità elettiva» nei confronti del pittore Vrubel’) e del suono (lo spirito della musica, «дух музыки») sono per lui essenziali elementi della poetica, della sua filosofia della cultura2. Nel luglio del 1919 Blok terminava la prefazione a Vozmezdie (La nemesi) – poema il cui «elemento unificatore», scriveva Eridano Bazzarelli, è proprio il «tema musicale» [d. Bazzarelli 1986: 146] – e ricapitolando brevemente gli eventi degli anni 1910-1911 si soffermava al principio su tre morti, quella di Vera Komissarževskaja, Michail Vrubel’ e Lev Tolstoj: in un solo anno, il 1910, vengono a mancare tre volti simbolo del teatro, della pittura e della letteratura (per l’ultimo Blok parla di «человеческая нежность, мудрая человечность», tenerezza umana, saggia umanità). Non solo: il poeta afferma poco oltre che tutti i fatti di quel biennio, per quanto diversi tra loro, hanno per lui un certo senso musicale, formano tutti insieme un «unico movimento musicale» (музыкальный напор) che dà colore all’epoca. L’espressione del ritmo di quelle vicende era, secondo Blok, il giambo3 [d. Blok 1980: 4, fatto che tale tecnica possa essere solo quella del contrappunto», afferma [c. Persi 1999: 139]. Sempre di contrappunto parlava Andrej Belyj in relazione a Borodino di Lermontov, poeta per il quale la musica incarnava a suo modo il motivo a lui caro della dannazione e della redenzione [c. Persi 1999: 160, 170].
1 Turgenev viene definito da Ugo Persi, in particolare, «fino alle porte del Simbolismo, il grande propagandista della musica in letteratura» [c. Persi 1999: 280]. Tra i contributi dedicati al rapporto tra poesia e musica offerti dalla slavistica italiana si ricorda inoltre il volume, uscito postumo, di saggi (o, piuttosto, appunti per saggi) di Angelo Maria Ripellino, curato da Rita Giuliani, intitolato L’arte della fuga
(come quell’opera che lo slavista si prefiggeva di scrivere, ma che non realizzò mai), titolo che, rimandando all’opera di Bach, sottolinea la perenne tendenza del filologo-poeta a spaziare in campi artistici diversi.
2 In questo egli è il figlio naturale della filosofia pitagorico-platonica (la musica delle sfere celesti), dell’opera di Schopenhauer e Nietzsche (la sua «nascita della tragedia dallo spirito della musica»), della sensibilità romantica e, non da ultimo, del nuovo teatro musicale sintetico di Wagner; da tutto questo deriva quella che in Golosa skripok (1910) il poeta definisce l’«orchestra globale» (мировой оркестр), simbolo dell’unità armonica dell’universo.
3 Scrive Blok nella prefazione: «Il 1910 significa la morte della Komissarževskaja, la morte di Vrubel’ e la morte di Tolstoj. Con la Komissarževskaja scomparve la nota lirica sulla scena; con Vrubel’, il titanico mondo individuale dell’artista, la folle tenacia, l’insaziabilità di ricerche condotte ai limiti della demenza. Con Tolstoj, morì la tenerezza umana, la saggia umanità. […] Tutti questi fatti, che si direbbero così eterogenei, hanno per me un significato musicale unitario. Io sono abituato a giustapporre i fatti di tutti i campi della vita (accessibili alla mia vista in un dato periodo), e sono sicuro che tutti assieme dànno sempre vita a un unico movimento musicale. Credo che l’espressione più semplice del ritmo di quell’epoca, quando il mondo – che si preparava ad avvenimenti inauditi – stava sviluppando i suoi muscoli fisici, politici e militari, con tanta assiduità e tanto metodo, sia il giambo. È probabilmente per questo che venni attratto anch’io – che da tempo ero incalzato per il mondo dalla sferza del giambo – dall’idea di lasciarmi andare alla sua onda elastica per un tempo più prolungato» [d. Blok 1980: 4,6].
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6]. Non sarebbe passato troppo tempo perché un altro grande poeta, Osip Mandel’štam, chiamasse una sua raccolta «il rumore del tempo», Šum vremeni (1925). La musica si fa
per loro espressione di quello che appare ancora indicibile, ineffabile attraverso altri linguaggi: la musica scandisce il tempo e si fa sentire in maniera più nitida quando questo è attraversato da cambiamenti tragici, sconnessi, caotici. Per dirla con Henri Meschonnik, il ritmo è capace di produrre una semantica precisa, una «significanza» [c. Meschonnik 1982: 216], ed è un metronomo impetuoso e spietato nella Russia post-rivoluzionaria.
Un campo in cui le relazioni e gli scambi tra le due arti si manifestano nitidamente è quello terminologico: ritmo per l’appunto, ma anche Leitmotiv, motivo, timbro, frase, per arrivare al contrappunto citato dalle voci di Sokolov (come anche l’armonia, «гармония первый сорт» [II: 12], «непременно случится гармония» [III: 62]) – musica e letteratura parlano talvolta la stessa lingua1. Theodor Adorno, analizzando la sociologia della musica e la funzione di quest’ultima in rapporto all’ideologia, descriveva la musica come simile al linguaggio, pur senza esserlo [c. Adorno 1962]. Lotman distingueva il testo verbale in quanto discreto da quello non verbale in quanto non discreto, ma sottolineava la continuità tra i due e il loro continuo scambio nella storia della cultura europea: la poesia stessa, sosteneva, è composta da uno strato primario discreto e da una sovrastruttura di momenti non discreti [c. Lotman 1992: 207]. Wittgenstein, il filosofo per eccellenza del linguaggio, in un frammento dei suoi appunti editi postumi parlava così di un pezzo di Josef Labor, un brano che «parla»:
Denke dran, wie man von Labors Spiel gesagt hat «Er spricht». Wie eigentümlich! Was war es, was einen in diesem Spiel so an ein Sprechen gemahnt hat? Und wie merkwürdig, daß die Ähnlichkeit mit dem Sprechen nicht etwas uns Nebensächliches, sondern etwas Wichtiges und Großes ist! – Die Musik, und gewiß manche Musik, möchten wir eine Sprache nennen [c. Wittgenstein 1984: 538].
Certa musica si può a buon titolo chiamare lingua, dice Wittgenstein.
1 Interessante in questo senso è il lavoro di Marcello Pagnini che mette a confronto la lingua e la musica, intesa come linguaggio. Nota il critico che entrambe conoscono la distinzione saussuriana tra significante e significato, i concetti di langue e parole, di paradigma e sintagma; inoltre, in entrambi i fenomeni è presente il ritmo, ovvero la «varia ma regolare distribuzione degli accenti forti e degli accenti deboli». Scrive infine: «queste innegabili analogie logiche rendon conto d’altronde della fede che i trattatisti del Sei-Settecento nutrivano nella possibilità di redigere delle “retoriche” musicali sul modello delle retoriche letterarie» [c. Pagnini 1974: 11, 14, 23, 18].
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Eppure, filologi e musicologi hanno sostenuto a lungo la reciproca estraneità. C’è voluto tempo prima che i teorici riconoscessero ciò che i poeti ripetevano da tempo: nemmeno l’opera dei romantici e pre-romantici tedeschi1 – anche in questo caso rivoluzionaria, come per il discorso sul genere – riuscì ad accelerare di molto i tempi della ricezione critica. Non pare casuale che il termine intermedium, poi divenuto centrale nel linguaggio degli studi umanistici interdisciplinari del secondo Novecento, sia stato coniato nel 1812 (nel saggio On Edmund Spenser) da Samuel Taylor Coleridge, figura emblematica del Romanticismo inglese2. Ma lo stesso ribadirono più tardi i simbolisti: la teoria delle corrispondenze di Baudelaire portava al centro la sinestesia come chiave di accesso alla bellezza. La musica in particolare, che «souvent me prend comme une mer» [d. Baudelaire 2003: 248], era per il poeta, così come per molti altri romantici e simbolisti (e, prima di loro, per gli artisti del Barocco e la loro
Affektenlehre3), capace di esprimere l’ineffabile, in primo luogo le emozioni umane. Negli anni in cui M. Alekseev proponeva il suo lavoro pioneristico su Turgenev e la musica, il mondo accademico russo iniziò a essere tagliato fuori dai circuiti della cultura occidentale, vittima di un progressivo e inaridente controllo ideologico che sarebbe culminato negli anni Trenta nel paradigma del realismo socialista, andando a colpire tutti i settori della vita pubblica e individuale, artistica e lavorativa. Non stupisce allora che l’accademia, da un lato e dall’altro della cortina, abbia seguito percorsi diversi
1 Scrive Russi: «È sempre nelle opere letterarie, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, che prende corpo un’ontologia romantica del mondo dei suoni, senz’altro molto più di quanto accadesse nella musica contemporanea. Attraverso il richiamo alla musica, infatti, la letteratura contrappone a un modello plastico e statico di arte, adatto a rappresentare solo affetti determinati, un’arte fluida, capace di esprimere un indistinto anelito infinito: non a caso sia in Wilhelm Wackenroder sia in E.T.A. Hoffmann è possibile incontrare la metafora, variamente utilizzata, del fiume di suoni, attraverso cui la percezione del lettore (o dell’ascoltatore) è introdotta in quello che potremmo definire uno spazio misto (blended space), una zona franca, se così si può dire, dell’attività cognitiva, in cui la musica e la letteratura possono proiettare alcuni elementi del proprio dominio realizzando una giustapposizione figurata dei due ambiti mentali (letterario e musicale) che permette loro di poter interagire creando nuove connessioni» [c. Russi 2018: 7].
2 Più che di una coniazione si trattò allora di una intuitiva risemantizzazione di un lessema dell’ambito chimico che poteva, secondo il poeta, designare al meglio il ruolo dell’allegoria, ovvero l’intermedium perfetto tra la persona e la personificazione [d. Coleridge 1853: 247]. Si dovette aspettare oltre un secolo prima che la parola entrasse nell’uso corrente e divenisse anzi produttiva nell’analisi e teoria dell’arte: fu il manifesto polemico dell’artista Dick Higgins intitolato proprio Intermedia (1966) a richiamare l’attenzione sulla necessaria e naturale fluidità dei linguaggi dell’arte.
3 L’Affektenlehre (teoria degli affetti) era la pratica tipica dell’era barocca di organizzare l’universo dei sentimenti umani secondo il linguaggio musicale: a una determinata struttura sonora era attribuito un determinato e invariabile valore emozionale. Scrive Pagnini che «Seicento e Settecento sono ancora d’accordo sul punto fondamentale che la combinazione delle due arti, la letteraria e la musicale, producesse un effetto assai superiore a quello cui ciascuna di esse separatamente poteva ambire, essendo la musica l’appello più forte ai sensi e agli affetti, e la parola alle idee e allo spirito» [c. Pagnini 1974: 96].
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e con diverse tempistiche, seppur obiettivi e risultati si possano ora, da una certa distanza, definire simili1.
Negli anni Trenta il musicologo russo Ieremija Ioffe esprimeva la sua propensione per una concezione sincretica delle arti, per un superamento della settorialità, decisamente controcorrente rispetto al canone imposto dal realismo socialista:
La suddivisione dell’arte in settori chiusi e isolati – in letteratura, pittura, musica, scultura, architettura, ognuna con la propria specificità difesa gelosamente – è un fenomeno storico, e non una caratteristica delle arti2 [c. Ioffe 1933: xvi].
L’approccio di Ioffe fu precursore di quelle ricerche che in epoca post-staliniana si orientarono più agilmente verso un avvicinamento di musicologia e filologia; un peso non secondario nell’affermarsi di una concezione «intermediale» degli studi nel campo delle arti ebbe la nascita della kul’turologija, che solo qui – in Urss e poi Russia – ha
assunto il titolo di disciplina scientifica. Fu Jurij Lotman, i cui studi nacquero e si svilupparono a partire da questo tracciato, a parlare per primo della poliglotičnost’ della
cultura e dei suoi rappresentanti come autenticamente poliglotti3 [c. Lotman, Uspenskij 1987: 30].
Dall’altro lato, negli Stati Uniti, primo lavoro pioneristico in questo campo interdisciplinare fu quello di Calvin Brown, Music and Literature (1949), nel quale lo studioso, tirando le somme di una ricerca ventennale, cercava di fornire un fondamento scientifico alla disciplina della melopoetics o musico-literary research, pur mettendo in guardia dai rischi insiti nell’applicazione della terminologia musicale ad altre arti. Altra opera importante fu quella di Steven Paul Scher, che suggerì la segmentazione della disciplina in tre ampie macrocategorie di studi4: musica e letteratura (la musica vocale), musica nella letteratura e letteratura nella musica [c. Scher 1981: 218]. Delle tre quella generalmente meno approfondita è la seconda, ovvero quella di maggiore pertinenza
1 Va inoltre ricordato che a influire su questa separazione tra musicologia e filologia vi è anche il fatto che la prima in Unione Sovietica (e poi Russia) si studiava unicamente nei conservatori.
2 «Cамо деление искусства на замкнутые обособленные области: литературу, живопись, музыку, скульптуру, архитектуру с ревниво оберегаемой спецификой – исторически сложившееся явление, а не свойство самих искусств».
3 La stessa città, riflesso della cultura, è un luogo di «poliglottismo semiotico», scrive Lotman: «riunendo insieme codici e testi nazionali, sociali, stilistici diversi, la città realizza vari ibridi, ricodificazioni, traduzioni semiotiche, che la trasformano in un potente generatore di nuove informazioni» [c. Lotman 1992: 232].
4 Secondo Russi si tratta di «un modello di organizzazione della disciplina fra i più convincenti ed efficaci, soprattutto per l’estrema semplicità delle categorie utilizzate, ma anche per il tono poco normativo, che permette insieme grande libertà e completezza di metodo» [c. Russi 2018: 3].
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letteraria. Si può infine citare il recente volume Letteratura e musica (2005) dell’italianista Roberto Russi, che raccoglie l’eredità di Brown e Scher e propone un’ulteriore tripartizione della macrocategoria «musica nella letteratura»: nel primo caso la composizione poetica precede quella musicale, nel secondo avviene il contrario, mentre nel terzo i due testi sono contemporanei.
Così come per la questione del genere e del canone, anche sui rapporti di scambio con le altre arti gli scrittori per primi hanno dato il loro contributo; saper maneggiare l’arte verbale non ha voluto dire per loro essere digiuni e illetterati rispetto agli altri linguaggi dell’arte. La poesia non si è certo fatta teoria della musica, non era questo il suo compito: la musica è entrata nella poesia perché si è dimostrata uno strumento adatto ad arricchirla di nuovi livelli di senso; essa ha messo a disposizione del poeta un’ulteriore gamma di alfabeti in cui potersi esprimere. Analizzare la musica in letteratura vuol dire accedere al mondo sensoriale dello scrittore, alla sua percezione dell’armonia sonora e al modo in cui la sua musica si fa specchio – inevitabilmente enantiomorfo, simile e diverso a un tempo1– delle parole.
Saša Sokolov e la musica
Mi rapporto alla lingua come alla musica In particolare alla mia lingua
Il suono le assonanze l’eufonia sono per me assai importanti
Tuttavia il problema è che pochissimi sono in grado di leggere correttamente i miei testi
La maggior parte non riesce a sentirne la musica2
Saša Sokolov lo esprime in maniera chiara e diretta: per il proeta la lingua è prima di tutto musica. Come ha affermato più volte, per lui il soggetto narrativo non è importante; a guidarlo nella composizione è la ricerca ininterrotta del suono giusto, dell’intonazione adatta, della musica della lingua – russa, s’intende, la lingua madre da
1 Scrive Lotman: «La simmetria speculare genera i necessari rapporti di somiglianza e di differenza strutturale che permettono di creare le relazioni dialogiche»; «il raddoppiamento attraverso lo specchio