L’EVIDENZA DI ALTRI IN SARTRE
2.1 Il turbamento dell’essere-per-altr
Dal momento che si è detto che il mio rapporto con il corpo d’altri è una negazione interna, si presuppone che tra il per-sé ed altri ci sia reciprocità, che si implichino e si influenzino a vicenda. Ma, finché si parla puramente di corpo d’altri, è facile considerarlo un mero oggetto, sprovvisto di coscienza, privo di libertà. Sostenere l’esistenza di altri come soggetto è quindi problematico: Sartre ammette che non si ha esperienza immediata di altri.
Ciononostante, egli arriva ad affermare l’esistenza di altri come qualcosa di evidente per noi, precisamente la definisce una “comprensione preontologica”; noi abbiamo originariamente un sapere dell’altro che è, appunto, l’apprensione di un soggetto. Se dubitassimo dell’esistenza di altri dovremmo dubitare anche di noi stessi, quindi del cogito, del per-sé: è infatti da questo che deve partire la nostra ricerca, è al
per-sé che bisogna rendere conto di altri31
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Qui Sartre ritorna a mettere come punto di partenza il cogito cartesiano, perché ritiene, nella fattispecie, che il procedimento di Hegel abbia fallito: quest’ultimo parte dal riconoscimento dell’altro (qui il genitivo è da intendersi sia in senso soggettivo sia in senso oggettivo), per poi arrivare alla nascita dell’autocoscienza. Infatti, si tratta di un “cogito intersoggettivo”: non vi è coscienza senza un incontro tra due alterità coscienziali (inizialmente non ancora formate). Una vera autocoscienza formata nasce in seguito al reciproco riconoscimento delle due coscienze ancora in potenza, ancora punti di vista unilaterali, che si accorgono di dipendere l’una dall’altra nel loro essere (vedi l’incontro tra il Servo e il Signore32). Non vi è opposizione tra le due, bensì negazione interna e costitutiva: ciascuna coscienza si fa da mediatrice per la formazione dell’altra.
Sartre appoggia la tesi di Hegel, anch’egli ritiene che per il per-sé, l’essere-per-
altri, sia una necessità di fatto e che prima di tutto vi sia una pluralità di coscienze,
intesa come totalità detotalizzata: la molteplicità degli “altri” non è che la pluralità dei
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«Così è al per-sé che bisogna chiedere di darci il per-altri, all’immanenza assoluta che bisogna chiedere di proiettarci nella trascendenza assoluta: nel più intimo di me stesso devo trovare non delle ragioni di credere ad altri, ma proprio altri, come colui che non è me stesso» (cfr. J. P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 304).
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“per-sé”, essendo fatti della stessa natura33. Tuttavia, Sartre dissente da Hegel perché secondo lui rimane fermo alla conoscenza oggettuale, dal momento che altri appare al
per-sé sotto forma di oggetto (il Servo si oggettiva di fronte al Signore per paura di
mettere a rischio la propria esistenza fattuale) e che il per-sé si coglie come oggetto nell’altro (il Signore si sente anch’egli oggetto in quanto dipende dal Servo e dal suo lavoro).
Quello che dimentica Sartre, a nostro parere, è che questo è un processo dialettico in Hegel: l’oggettivazione è qui intesa come alienazione (Entäusserung) ed è un passaggio necessario e positivo perché transitorio. Lo spirito passa attraverso la determinatezza, il suo divenir altro, si fa oggetto per poi ritornare presso di sé: ponendo se stesso come oggetto sa che, quello che sembra distinto da lui, in realtà è un suo prodotto, e alla fine questa alienazione sarà necessariamente superata.
Dunque lo stesso accade tra le coscienze, il momento oggettuale è solo un passaggio: anche il momento dell’alienazione sarà alienato e sarà possibile il ritorno a sé. Sartre sembra confondere l’alienazione con l’estraneazione (Entfremdung), ovvero il fondamento con il risultato: non c’è farsi oggetto senza ritorno presso di sé, l’alienazione passa sempre attraverso l’estraneazione che porta all’unità sintetica ed originaria dell’autocoscienza.
In questo caso dunque si può considerare erronea l’interpretazione del fallimento di Hegel da parte di Sartre, mentre egli, giustamente, supera le due posizioni errate rappresentate dal realismo e dall’idealismo, in merito alla questione d’altri. La posizione realista (al cui interno si possono annoverare il comportamentismo e il kantismo) rimane ferma ai corpi separati dalle coscienze e parte dal presupposto che sono io a vedere altri e non viceversa. Anche la posizione idealista parte esclusivamente dalla mia coscienza, sfociando nel solipsismo, il quale non va oltre ciò che si dà nel campo della coscienza, dunque mette seriamente in discussione l’esistenza di altri.
Ciò che Sartre contesta ad entrambe le posizioni è l’aver sempre considerato altri puramente come corpo, collocato in una distanza spaziale rispetto al mio. Sartre ritiene impossibile la conoscenza oggettuale dell’altro: se entrambi fossimo oggetti, io non
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«Altri è questo io da cui niente mi separa, assolutamente niente se non la sua pura e totale libertà cioè quell’indeterminazione di sé che sola egli deve essere per sé e per mezzo di sé» (cfr. J. P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 325).
potrei cogliermi come oggetto nell’altro, perché ciò presupporrebbe che l’altro mi apparisse come soggetto. D’altra parte, se l’altro fosse considerato da me un oggetto, significherebbe che io mi relaziono a lui con atti ed intenzioni, dunque dal punto di vista di un soggetto.
La conoscenza tra oggetti si esaurisce negli elementi puramente fisici, nei corpi, dunque la conoscenza dell’altro come oggetto non può essere data, perché altri ha un proprio punto di vista che io non posso assumere, io mi relaziono all’altro ma non lo conosco come oggetto, non lo esaurisco: il vedere di altri fa parte di ciò che non posso cogliere. Come del resto, io non posso essere oggetto a me stesso: se perdessi la caratteristica dell’intenzionalità e dell’autoconsapevolezza non sarei più coscienza34.
Ma anche quando percepisco altri come un oggetto, l’oggetto-uomo, quest’ultimo inizia a destabilizzarmi perché rappresenta un decentrarsi del mio mondo: io colgo le relazioni tra altri e gli oggetti del mio spazio, che si raccolgono attorno all’altro creando distanze, ed io mi sento derubato del mio universo.
Ciò che in particolar modo mi turba, infine, è la mia continua possibilità di essere visto da altri: è qui che si attesta l’evidenza di altri come soggetto, nel suo sguardo su di me. Scopro quindi, con disappunto, che non sono solo io a vedere l’altro, ma che lui può, ad ogni momento, guardarmi e a quel punto sarei io a sentirmi oggettivato. Solo un soggetto è in grado di farmi avvertire come oggettivabile.
Il per-sé scopre di essere-per-altri attraverso la vergogna: questo accade quando si sente colto in fallo, per un gesto impacciato o rozzo o sconveniente; egli non si vergogna di fronte a se stesso, ma solo di fronte ad uno sguardo altrui che gli rilancia un’immagine di sé che egli non riconosce. La vergogna è un vissuto esperienziale pre- riflessivo, il che significa che l’essere-per-altri è una dimensione originaria del per-sé.
A causa di altri io metto in crisi la mia trascendenza, diventa “trascendenza trascesa” perché scopro di avere un “di fuori” e mi sento alienato. L’altro può ostacolarmi, rappresenta il limite delle mie possibilità: io posso sempre provare a
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«Il suo essere è quindi esclusione radicale di ogni oggettività: io sono colui che non può essere oggetto per me, colui che non può neanche concepire per sé l’esistenza sotto forma di oggetto […] E ciò non a causa di un’incapacità di ripiegamento o di una prevenzione intellettuale o di un limite imposto alla mia conoscenza, ma perché l’oggettività richiede una negazione esplicita: l’oggetto è ciò che mi faccio non essere, mentre invece io sono quello che mi faccio essere» (cfr. J. P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 293).
nascondermi dal suo sguardo, ma nulla gli impedisce di stanarmi, le sue possibilità attentano continuamente alle mie35.
Attraverso lo sguardo d’altri, sento minacciata la mia libertà e mi si mostra una nuova dimensione: quella del non-rivelato, ovvero quella parte di me che io vivo come estranea, come pezzo di mondo. Io posso essere oggettivato solo da un’altra libertà, la quale osctacola le mie possibilità ed è da me inafferrabile: altri come soggetto è fuori portata per me, ma lo è anche la mia parte non-rivelata, che è, appunto, in balia di altri36.
Io scopro di essere oggettivabile, ovvero coscienza degradata, solo per-altri e non
per-me, è altri a qualificarmi come in-sé. Io per me stesso sono sempre coscienza, sono
sempre per-sé e mi proietto continuamente fuori di me: non posso essere obiettivato, schematizzato, ridotto. Non posso essere definito cattivo nè più né meno di quanto possa esercitare il ruolo di medico o di operaio. Tutto ciò che mi qualifica lo sono in modo da doverlo essere, non c’è niente che mi caratterizzi in maniera essenziale, perché sono fondamento del mio nulla: tutto ciò che sono lo sono al modo di non esserlo e tutto ciò che non sono lo sono al modo d’esserlo.37
Proprio perché il per-sé è negazione interna di altri, e non riconosce assolutamente la sua parte alienata, decide di rifiutarla: con questo rinforza la sua ipseità. A questo punto è l’altro ad essere oggettivato dal per-sé, io rifiuto le sue possibilità e altri diventa dunque «ciò che io mi faccio non essere»; ma negando l’altro automaticamente lo riconosco, se non lo riconoscessi non potrei nemmeno oggettivarlo e qui sta la contraddizione nell’atteggiamento di rivalsa del per-sé. Questo atteggiamento contraddittorio è reciproco e caratterizza anche altri: nel momento in cui subivo il suo sguardo e diventavo oggetto, egli si aspettava che tale oggettivazione fosse degna di
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«Il mio peccato originale è l’esistenza dell’altro; e la vergogna è – come la fierezza – l’apprensione di me stesso come natura, anche se questa natura mi sfugge ed è inconoscibile come tale. Non è, a dire il vero, che io senta di perdere la mia libertà per diventare una cosa, ma essa è laggiù, fuori della mia libertà vissuta, come un attributo dato dell’essere che io sono per l’altro. Io colgo lo sguardo dell’altro in seno al mio atto, come solidificazione e alienazione delle mie possibilità» (cfr. J. P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 316).
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«Così, con lo sguardo, io esperimento altri concretamente come soggetto libero e cosciente che fa in modo che vi sia un mondo, temporalizzandosi verso le proprie possibilità. E la presenza senza intermediari di tale soggetto è la
condizione necessaria di ogni pensiero che io tento di formulare su me stesso» (cfr. J. P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 325).
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«Perché io sono il mio sdoppiamento, sono il mio nulla; basta che io sia mediatore tra me e me stesso, perché ogni oggettività scompaia. Quel nulla che mi separa dall’oggetto-me io non devo esserlo; perché bisogna che ci sia una
presentazione a me stesso dell’oggetto che sono» (cfr. J. P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 328).
essere riconosciuta e questo riconoscimento potevo concederlo solo io. Implicitamente dunque altri mi riconosceva come soggetto libero, altrimenti il tentativo di obiettivarmi avrebbe perso di senso.
Questa reciprocità è indispensabile all’essere-per-altri, ne costituisce la fatticità; come io nego di me stesso di essere l’altro e di essere ciò che l’altro vuole che io sia, lo stesso fa altri: anch’egli deve negare di sé di essere me e rifiuta la parte di sé che io oggettivo. Le due negazioni interne sono simultanee38: gli esistenti non sono semplicemente compresenti, questo avrebbe significato che a legare gli esseri fosse solo un per-sé.; invece il per-sé deve fare i conti con un’altra presenza-a, alla quale è simultaneo.
Il riconoscere-negando, infine, è un atteggiamento che applico anche alla mia stessa parte alienata: è proprio perché mi ostino a rifiutare il me-oggetto, che implicitamente lo riconosco, lo affermo in quanto me esistente per l’altro, riconosco che è qualcosa di reale e non distinto da me. È ciò che scatena il mio relazionarmi all’altro, lo sguardo d’altri mi turba ma grazie ad esso scopro il mio essere-al-di-fuori: ciò che fonda la mia esteriorità, ovvero il mio corpo. L’oggettivazione reciproca, tra me e altri, si manifesta come corpo, io accetto infine questa parte di me non come qualcosa di estraneo: seppure lo definisco un “di fuori”, si tratta del mio “di fuori”. Devo compiere il passaggio dalla fase preriflessiva della mia coscienza a quella riflessiva: riflettendo su di me, piegandomi su me stesso, riesco ad accettare e a riconoscere anche il me-oggetto, come parte necessaria per conferirmi un aspetto, una dimensione sensibile39. Se l’“essere-per- altri” è una struttura del pour soi (anche se non deducibile a priori), l’“essere-visto-da- altri” non è neppure una struttura del pour soi: è piuttosto un evento. Un evento che però ci rivela qualcosa di essenziale: appunto, il “per altri”.
«L’‘esser-visto-da-altri’ è la verità del ‘vedere-altri’», spiega Sartre; che qui riprende la dissimmetria originaria tra le autocoscienze presentata da Hegel: altri mi si rivela come colui che mi guarda. Avvertire con evidenza altri implica il subirne lo
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«Non basta che io neghi di me l’altro, perché l’altro esista, ma bisogna anche che l’altro mi neghi di sé,
simultaneamente alla mia negazione» (cfr. J. P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 357).
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«La semplice esistenza dell’altro mi conferisce una natura, un dehors: basta che l’altro ci sia, quale che sia il suo rapporto attuale con me, perché io sia costituito come oggetto» (cfr. A. Bausola, [1973], Libertà e relazioni
interpersonali. Introduzione alla lettura dell’”Essere e il nulla”, Vita e pensiero, Milano, p. 71).
sguardo, e quindi non conoscerlo oggettivamente; viceversa, oggettivarlo implica non avvertirlo con evidenza. Queste due forme noetiche realizzano tra loro una dialettica per la quale – secondo Sartre - nessuna sintesi è possibile: una sintesi, qui, sarebbe una diretta presa oggettiva sulla soggettività (per dir così: una quadratura della circolarità).
È talmente poco oggettivo lo sguardo, che in esso gli occhi non sono più visibili: se sono guardato, gli occhi di chi mi guarda non sono né castani né verdi. Lo sguardo è negazione anche del pezzo di mondo che lo occasiona (gli occhi). Gli occhi di chi guarda restano come sospesi in una epoché husserliana, in quanto sono nel mondo; invece lo sguardo come tale non è sottoponibile a epoché. Non a caso, la distanza tra me e gli occhi d’altri la posso decidere io; invece, la distanza tra me e lo sguardo altrui non dipende da me.
È talmente poco una faccenda d’occhi, lo sguardo, che il mio essere guardato può realizzarsi anche in assenza di occhi veri e propri che guardino. Ad esempio: una finestra si chiude all’improvviso, un cespuglio trema: io sono guardato (avverto di essere esposto e vulnerabile, anche qualora una più avveduta ispezione rivelasse che non c’era nessuno dietro la finestra o dietro il cespuglio; o, per lo meno, nessuno che fosse lì a guardare me).
Quando sono guardato, vengo alienato delle mie possibilità. La mia libertà - che è condizione del mio vergognarmi, ma anche del mio dispormi rispetto allo sguardo altrui in senso riflessivo (“lui mi guarda, ma adesso mi metto a fissarlo io”) – viene in un certo modo cosificata, bloccata dalla interpretazione altrui. Altri diventa, a quel punto, “padrone” del significato dei miei gesti che, specie se irriflessi (esempio sartriano: sto spiando dalla serratura per vedere che cosa fa la donna di cui sono geloso), espongono me come un “di fuori” (dehors), e quindi come una natura oggettivabile. Quando Sartre scrive che «il mio peccato originale è l’esistenza dell’altro», intende dire che altri è l’occasione per la mia “perdita di innocenza”, nel preciso senso che è l’occasione del mio piegarmi riflessivo su di me, attraverso lo sguardo altrui (che mi restituisce di me, aspetti prima a me ignoti, e nei quali normalmente stento a riconoscermi).
Neppure la libertà d’altri è allora oggetto di dimostrazione: essa si dà a me immediatamente. Infatti, solo un’altra libertà può bloccare le mie possibilità; un ostacolo-cosa non potrebbe limitare i miei possibili: potrebbe solo ridisporli (di fronte a
un masso che interrompesse il sentiero, invece che camminare, arrampicherei). La differenza sta in questo: altri impone a me, non una nuova circostanza, bensì una nuova interpretazione (diversa dalla mia) del senso delle mie azioni attuali e possibili; interpretazione di fronte alla quale io avverto la possibilità di una accettazione (amorosa o servile), ma anche di un rifiuto. E – osserva in proposito Sartre - non si dice sì o no a una cosa, ma solo a un’altra libertà.
Accettare di essere oggettivati significa accettare di essere fissati come se si fosse degli in-sè: significa, dunque, accettare una degradazione. Accettare tale degradazione sarebbe, più precisamente, accettare di contraddire il proprio pour soi, identificandolo con quell’in-sè (= realtà priva di possibilità dipendenti da sé) in cui altri mi fissa. È vero, comunque, che altri mi oggettivizza chiedendomi (implicitamente) di riconoscere come appropriata tale oggettivazione: e, con ciò, mi riconosce implicitamente come coscienzialità libera.
È notevole che per Sartre uno sguardo che sia riconoscente nei confronti della libertà altrui (della altrui signoria), sembra non essere possibile; lo sguardo è infatti – per lui - oggettivante in quanto tale.
La coscienza acquista individualità – secondo il nostro autore – reagendo alla oggettivazione portatale dallo sguardo altrui: «così l’altro che io riconosco per rifiutarmi d’esserlo è prima di tutto quello per cui il mio per-sè è». E ancora: «ciò che io rifiuto d’essere può essere solo quel rifiuto d’essere me, per cui l’altro mi rende oggetto; o, se si preferisce, io rifiuto il mio me rifiutato; mi determino come me-stesso per mezzo del rifiuto del me-rifiutato; pongo questo me rifiutato come me-alienato nell’atto nel quale mi stacco dall’Altro». Si può dire che – per Sartre – ciascuno di noi sia una rivendicazione di ipseità nei confronti della ipseità altrui (che viene, così, implicitamente riconosciuta come tale).
Di fronte allo sguardo altrui, io sono come circondato da una totalità: risulto come una “totalità detotalizzata”. Infatti, in generale, la totalità “limitante” (= totalizzante, cioè assumente l’altro nel proprio orizzonte di senso) mette fuori gioco come totalità, ovvero come centro di totalizzazione, il “limitato”. Il limitato si trova a far parte di un mondo non suo, nel ruolo di “sé-oggetto”; senza mai potersi conoscere pienamente in questa veste oggettivata e senza mai potersi con essa pienamente identificare.
In seconda battuta, si può dare una “inversione delle prospettive”. Se “assumo il mio limite”, riconosco di essere me stesso in rapporto negativo ad altri; ma, così facendo, metto fuori gioco altri, oggettivandolo a mia volta. «L’altro diventa allora ciò che io mi faccio non essere». A questo punto, le sue possibilità le contemplo e, al limite, le rifiuto. L’altro, se oggettivato, diventa come una macchina fotografica puntata su di me: non ha più uno sguardo suo proprio, che non rientri nel campo disposto dal mio guardare.
Se non che, l’atteggiamento rivendicativo ora descritto è contraddittorio: infatti, esso determina che io mi definisca in relazione a quell’altro che rifiuto (come il satanista fa, a ben vedere, nei confronti di Dio, cercando in tutti i modi di offenderlo e di contraddirlo). Nella rivendicazione di ipseità, dunque, riconosco l’essenzialità a me dell’altro, proprio come presupposto inevitabile per tentarne l’oggettivazione.
La variante estrema di questa contraddizione (del negare riconoscendo) si ha quando altri viene costretto a oggettivarmi come voglio io, o comunque a riconoscermi come suo “signore”. Si tratta di una operazione impossibile a realizzarsi secondo l’intenzione che le è propria.
Quanto alla questione (“metafisica”) del “perché” ci siano altre coscienze, essa non trova risposta – secondo Sartre. Si può solo rilevare che altri è la condizione, non della autocoscienza pre-riflessiva, bensì della sua riflessività, cioè del suo disporsi verso di sé come verso qualcosa da indagare. L’indeducibilità d’altri – il suo (d’altri) dover apparire di fatto - è illustrata in questo modo: «il fatto che non basta che io neghi di me l’altro, perché l’altro esista, ma bisogna anche che l’altro mi neghi di sé, simultaneamente alla mia negazione: [questa] è la fattività dell’essere-per-altri».