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È TUTTA UNA QUESTIONE DI CONTENUTI di Guido Di Fraia

Nel documento LA TUA OPINIONE CONTO (pagine 43-58)

Inizio con un’affermazione banale: “le persone sono più propense a prestare attenzione e a farsi coinvolgere da ciò che interessa loro piuttosto che da ciò che interessa ad altri”. Messa in questa forma, la frase appare talmente scontata da suonare tautologica. Il problema è che tale affermazione resta vera anche quando

“gli altri” sono le aziende che cercano di presentarsi o di presentare i propri prodotti ai consumatori attraverso i media. In questo caso, potrebbe essere riscritta in questo modo: “le persone sono più interessate alle proprie cose di quanto non siano interessate agli interessi delle aziende. Interessi che, per molto tempo, hanno assunto forma pubblica nelle varie declinazioni della

comunicazione aziendale di tipo pubblicitario”. Da qui tutta la pressione comunicativa (leggi: investimenti nella generazione degli annunci e

nell’acquisizione di spazi di pianificazione media) che le aziende hanno sempre dovuto adottare per poter aspirare a qualche attimo di attenzione da parte dei consumatori e potenziali clienti, quasi sempre raggiunti con i propri messaggi mentre erano in tutt’altro affaccendati.

Ciascuno di noi, come consumatori e pubblico dei media, ha sempre saputo che le cose stavano così e ha sempre vissuto gran parte della comunicazione

commerciale come una vera e propria “pressione”. Ma nel mondo dominato dai media classici non potevamo fare molto per sottrarci a questa pressione. Gli spot in Tv, gli annunci sulla stampa, i manifesti stradali, i digital signage1 dei centri commerciali o, ancora, i dépliant accatastati nella cassetta delle lettere, i banner sui siti internet e gli annunci video TrueView di Google, per quanto diversi per linguaggio e media, sono in realtà format estremamente simili. Tutte queste forme di comunicazione pubblicitaria, infatti, fanno parte di quello che viene definito “marketing dell’interruzione” (Interruption marketing).

Indipendentemente dal canale attraverso cui viene veicolato il messaggio, il modello sottostante a tutti questi esempi (riconducibili, per introdurre un’altra definizione, all’outbound marketing)2 è sempre lo stesso: mentre siamo impegnati a fare ciò che ci interessa – di solito a fruire di un qualche contenuto mediale – le aziende ci si piazzano davanti “sbracciandosi” in ogni modo pur di guadagnare qualche istante della nostra attenzione e mostrarci i loro prodotti/servizi. La creatività degli annunci, le dimensioni simboliche utilizzate, i jingle facili da ricordare, le immagini ammiccanti o con valenze erotiche e così via sono tutti espedienti attraverso cui “distrarci” da ciò a cui siamo interessati per sottoporci ciò che interessa all’azienda. La centralità di questo modello di marketing è stata possibile fintanto che si è conservata l’asimmetria di potere nell’accesso ai mezzi di comunicazione, tipica della società di massa. Nello scenario dominato dalle comunicazioni di massa, le aziende avevano la possibilità di interromperci grazie alla posizione di potere che potevano garantirsi nel processo di comunicazione, acquistando spazi inserzionistici sui media. Le risorse economiche dell’azienda si trasformavano in secondi o centimetri quadrati di visibilità, all’interno dei quali avevano l’opportunità di intercettare i processi percettivi e attenzionali dei diversi target per far sentire la propria voce. In altre parole, nella società dei media di massa il potere economico delle aziende poteva trasformarsi, quasi direttamente, in potere comunicativo.

Non essendoci altri modi per entrare in contatto con i propri potenziali clienti, questo meccanismo si è tradotto, secondo le normali logiche del mercato, in costi d’inserzione molto elevati, generando una rigida barriera all’accesso per la stragrande maggioranza delle aziende che non potevano permettersi di spendere quanto necessario ad acquisire spazi di visibilità nei media mainstream. Questo modello di comunicazione non è certo scomparso e continuerà ad accompagnare le nostre vite e, probabilmente, anche quelle dei nostri nipoti. Ma lo farà da una posizione sempre meno dominante.

L’affermarsi dei media sociali nel mondo della comunicazione umana e

aziendale ha avuto come effetto più rilevante la messa in discussione dei rapporti di potere tipici dei media classici (radio, Tv, cinema ecc.). Grazie ai social media – definibili per questo mezzi di auto-comunicazione di massa – ciascun individuo connesso alla rete è oggi in grado di produrre contenuti che possono essere veicolati a livello globale. Non solo: è anche in grado di ottenere la stessa visibilità che un tempo era possibile solo potendo disporre, per potere o per denaro, dei media di massa.

Nello scenario dominato dalle comunicazioni di massa, le aziende avevano la possibilità di interromperci.

Gli effetti di questo cambiamento sono stati profondi e trasversali a moltissimi ambiti tanto da consentire di parlare di un nuovo paradigma della comunicazione. Per dire le cose come stanno: quello che stiamo vivendo è un processo di ridefinizione delle forme della comunicazione umana e delle relazioni di potere a essa associate (e quindi della forma stessa di società) che può essere paragonato a pochi altri momenti della storia dell’umanità. Tra questi ultimi, si possono annoverare: l’invenzione della scrittura nel VI secolo a.C., quella della stampa nel XV secolo, lo sviluppo dei media elettrici (telegrafo, telefono, radio) a partire dalla seconda metà del 1800 e, infine, l’avvento della televisione e

l’affermarsi definitivo dei media di massa, nella prima metà del secolo scorso.

Non essendo questo un testo di sociologia dei media, non indugerò in considerazioni teoriche. Se ho fatto questi brevi cenni al senso più ampio dei processi in atto, è solo per richiamare l’attenzione dei decisori che leggeranno questo libro su quanto il mondo della comunicazione sia cambiato in questi ultimi anni; per ricordare loro di quanto l’esperienza e il know-how posseduti, se

maturati in anni precedenti all’avvento dei social media, rischino di non essere una risorsa ma un elemento di inerzia rispetto agli approcci da adottare; per esortarli, infine, a pensare “diversamente” rispetto a quanto erano soliti fare al tempo dei media di massa. Solo cambiando radicalmente approccio, infatti, saranno in grado di utilizzare come leve di successo le opportunità che il mondo del Web 2.0 offre a chi si dimostra in grado di comprenderne davvero le logiche.

Gli effetti del nuovo paradigma sulla comunicazione aziendale sono radicali e assolutamente non riconducibili alle logiche del marketing tradizionale. Nei canali social, caratterizzati da modelli di relazione “da pari a pari” (peer to peer), le

aziende hanno perso il privilegio di poter interrompere a piacimento i potenziali clienti in altro affaccendati. Certo, anche nella comunicazione digitale esistono format inserzionistici che riproducono le dinamiche dell’advertising

dell’interruzione.3 Ma nella rete sociale l’interesse delle persone non si può comprare, ma solo conquistare attraverso la qualità dei contenuti.

Prima di essere “riempite” di contenuti (post, immagini, video ecc.), tutte le presenze social – siano esse aziendali o personali – sono perfettamente uguali le une alle altre. Ciò significa che, in teoria, ogni persona, azienda o istituzione ha le stesse possibilità di tutte le altre di ottenere visibilità, reputazione e

autorevolezza in rete, indipendentemente dalle proprie dimensioni e risorse economiche. In altri termini: i canali social sono neutri, e tutto si gioca sulla

qualità di ciò che ci si mette dentro (contenuti) e sui modi in cui lo si fa: strategia + creatività + rispetto delle grammatiche specifiche del canale.

Ho detto che tutte le realtà hanno la stessa possibilità di rendersi visibili e di raggiungere i propri obiettivi di business, teoricamente! È evidente che anche la produzione dei contenuti è una risorsa che può essere acquisita sul mercato rivolgendosi ad agenzie specializzate e consulenti. Inoltre, gli strumenti pay che il digital marketing offre (campagne keywords social advertising ecc.)

rappresentano strumenti estremamente potenti sia per la generazione di brand awareness sia per attività di marketing orientate al raggiungimento di obiettivi specifici. In altri termini, è vero che anche nella rete sociale si riproducono asimmetrie simili a quelle presenti nei canali classici, ma la differenza

fondamentale rispetto a essi sta nel fatto che le risorse economiche, da sole, non garantiscono alcuna certezza di visibilità (come invece succede acquistando spazi inserzionistici sui media classici). Per fare un esempio: l’intensità del flusso di contenuti sponsorizzati su Facebook è talmente elevata rispetto alle possibilità di attenzione delle persone che senza dei buoni contenuti e un’ottima pianificazione e targettizzazione, i contenuti proposti dall’azienda, per quanto sponsorizzati, rischiano di ottenere risultati comunicativi decisamente modesti.

Peraltro, le barriere all’ingresso per un’azienda che vuole proporre una presenza efficace e di valore sono infinitamente più basse e aperte di quanto non avvenga nei media tradizionali. Detto in altri termini, con una buona strategia e dei buoni contenuti, anche la più piccola azienda o il singolo professionista possono ottenere risultati impensabili prima dell’affermarsi dei social media.

Il rovescio della medaglia di tutto ciò sta nel fatto che, proprio perché all’interno del web sociale tutti hanno la possibilità di dire la propria, tutti lo fanno, generando un sovraccarico di contenuti come mai era avvenuto prima nella storia. Per quanto possano essere accurate stime di questo genere, si calcola che nel corso del 2013 ogni due giorni l’umanità abbia prodotto una quantità d’informazione superiore a quella generata in tutta la storia precedente, dai graffiti rupestri sino al 2003! Mentre si stima che nel 2018 attraverso la rete consumeremo qualcosa come 83.299 petabyte (o 83 milioni di terabyte) al mese (1 petabyte corrisponde a 10245 = 250 byte)4.

Quindi: contenuti infiniti e un “rumore” infernale all’interno del quale è sempre più difficile per l’azienda far udire la propria voce in modo chiaro e distintivo.

Sin qui ho parlato di social media in maniera indifferenziata, cosa possibile se si fanno considerazioni di carattere generale. Ragionando nello specifico, invece, non c’è niente di più sbagliato che considerarli come un unico canale. In realtà, ciascun ambiente social (Facebook, Twitter, YouTube, Pinterest, Flickr ecc.) ha un proprio linguaggio e specifiche pratiche d’uso da parte degli utenti che si

relazionano a esso con atteggiamenti psicologici, aspettative e bisogni diversi.

Quello che è certo è che, tra queste aspettative, quella di sentirsi raccontare dalle aziende quanto sono brave e quanto sono buoni i loro prodotti o servizi è, se non del tutto esclusa, certo nelle ultime posizioni. Ma su questo tornerò più avanti. In sintesi:

1.I social media sono canali in cui le aziende possono anche acquistare spazi di

visibilità per piazzare i propri prodotti sotto gli occhi dei potenziali clienti, ma tale strategia, da sola, risulta poco efficace se non del tutto perdente.

2.All’interno di tali canali, tutti hanno diritto di parola e partono, teoricamente, da condizioni paritarie rispetto alla possibilità di acquisire visibilità ed essere ascoltati.

3.Avendo la possibilità di farlo, tutti – persone e aziende – cercano di ottenere attenzione e qualche istante di celebrità, caricando in rete contenuti di ogni genere e qualità.

4.Il flusso incessante dei contenuti generato dai miliardi di account presenti in rete rende quanto mai difficile far sì che quelli prodotti da una determinata azienda possano emergere e diventare visibili al target di consumatori cui essa si rivolge.

5.Nelle reti sociali, le persone non vogliono sentir parlare di prodotti o servizi. O, per lo meno, non vogliono sentirne parlare dalle aziende con il tono imbonitore e autocelebrativo tipico della pubblicità tradizionale. In realtà, di informazione su prodotti e servizi gli user della rete sono avidi, ma solo se arriva loro da altri consumatori o da esperti di settore, ritenuti maggiormente disinteressati e più attendibili rispetto alle aziende.

6.Le persone usano i social media non solo per relazionarsi con gli altri ma anche per informarsi, divertirsi, imparare, ottenere servizi, trovare strumenti di lavoro ecc.

Sono tutte aspettative che possono essere soddisfatte attraverso contenuti appositamente realizzati a tale scopo.

Ciascuno di questi punti sintetizza un tratto di fondo del nuovo paradigma comunicativo e, al contempo, sottolinea, da una prospettiva diversa, l’assoluta centralità dei contenuti come fattore di successo per qualsiasi attività di

marketing e comunicazione al tempo dei social media.

Non parliamo di Content Marketing!

I teorici del marketing sono sempre pronti a inventare nuove definizioni attraverso cui generare e circoscrivere territori da presidiare e di cui proporsi come i massimi esperti. Questa tendenza si è naturalmente realizzata anche in relazione all’importanza dei contenuti e, già da alcuni anni, si sente parlare di

“Content Marketing”. Basta interrogare Google Trend (figura 1.1) per rilevare come le ricerche connesse a tale definizione siano cresciute in maniera

esponenziale, a dimostrazione di un progressivo aumento di attenzione da parte di aziende e professionisti.

Figura 2.1 – L’andamento nel tempo delle ricerche sul Content Marketing.

Tutto bene dunque? Non del tutto!

Confinare la rilevanza dei contenuti prodotti dall’azienda per i propri canali digitali all’interno di una specifica definizione, pur ben focalizzata e corretta come quella di Content Marketing o di Branded Content Marketing, rischia di

ghettizzare tale attività. Di farla cioè percepire come uno dei tanti modelli sviluppati nel tempo e passati di moda con la stessa velocità con cui lo erano diventati. Così facendo, una certa azienda o un responsabile marketing

potrebbero pensare di non essere interessati a quello specifico modello. Niente di più sbagliato!

Nel marketing e nella comunicazione digitale i contenuti sono decisivi.

Il marketing centrato sui contenuti è, di fatto, ciò che il marketing diviene in un contesto comunicativo dominato dai social media. Per dirla in maniera più diretta: nel marketing e nella comunicazione digitale i contenuti sono decisivi per ottenere risultati sia a livello organico sia di inserzionismo pay. Per cui:

scordiamoci la definizione di Content Marketing e limitiamoci a parlare di marketing tout court. Inoltre, non confiniamo alla sola dimensione digitale il marketing centrato sui contenuti. Continuare a distinguere tra marketing digitale

(social e web) e marketing tradizionale, tenendone separate le competenze e le strutture organizzative, deve oggi essere considerato, senza mezzi termini, indice di un grave ritardo culturale, purtroppo ancora estremamente presente nel nostro Paese. Un ritardo che provoca disfunzionalità, aumenta i costi aziendali e riduce l’efficacia ottenibile con approcci integrati tra online e offline.

Evitiamo, infine, anche il fraintendimento per cui alcune realtà siano più adatte di altre a fare marketing attraverso i contenuti. Le logiche del Content Marketing digitale sono state sviluppate, in origine, soprattutto per le aziende B2B e, per alcuni, dovrebbero applicarsi esclusivamente a tale tipo di realtà.

Personalmente, non condivido affatto questo tipo di visione. Possono certo cambiare le dimensioni, la complessità e le tattiche connesse all’attività di produzione e disseminazione dei contenuti, ma non certo la sua centralità per qualsiasi impresa che voglia gestire in modo efficace le proprie strategie di comunicazione e marketing. Potete essere il marketing manager di una grande multinazionale o gestire nei ritagli di tempo la Pagina Facebook della vostra panetteria mono-vetrina; potete operare nel B2B o rivolgervi direttamente ai clienti finali: in nessun caso potete pensare che la gestione dei contenuti che mettete in rete non sia per voi un fattore strategico di successo. O meglio, nell’attuale scenario comunicativo, “Il” fattore strategico di successo.

Una nuova vecchia storia

Le diverse definizioni di content marketing convergono nel descrivere tale approccio come l’insieme delle attività finalizzate alla creazione, cura e distribuzione di contenuti interessanti per i potenziali pubblici, attraverso cui attrarre e acquisire un’audience ben definita e stimolare nelle persone che la compongono comportamenti in grado di generare valore per l’azienda. In modo efficace, Nelli la definisce come: “una strategia di marketing basata sulla

produzione, sulla distribuzione e sulla condivisione multicanale di contenuti rilevanti per specifici segmenti di pubblico, allo scopo di attrarre attenzione, suscitare interesse, sviluppare relazioni durature e stimolare azioni coerenti con gli obiettivi commerciali dell’impresa, posizionandola al tempo stesso a un livello di leadership per esperienza e credibilità all’interno del mercato in cui opera”.5

Ciò che accomuna queste definizioni è l’ipotesi che se l’azienda sa offrire contenuti di valore agli utenti, questi ultimi la ricompenseranno con i propri acquisti, la fedeltà al brand e la tendenza a parlarne favorevolmente,

diventandone promotori. Un’ipotesi che, peraltro, non è affatto nuova e risulta

corroborata da molti esempi di successo, alcuni dei quali risalgono a oltre un secolo fa mentre altri si collegano alle fasi iniziali dei media che oggi definiamo classici!

Pur non escludendo l’esistenza di iniziative simili anche precedenti, si tende a individuare nel magazine The Furrow il primo esempio moderno di attività di marketing centrata sui contenuti. La rivista è stata fondata nel 1895 dalla John Deere, una delle principali società produttrici di macchine agricole, che la propose agli agricoltori come vademecum delle tecniche per ottimizzare la resa del loro lavoro. A distanza di oltre un secolo, The Furrow è ancora distribuito in dodici lingue e raggiunge circa due milioni di persone in tutto il mondo. Decisamente più nota è la Guida Michelin. Pubblicata per la prima volta nel 1900, è un esempio perfetto di come fare branding parlando completamente d’altro rispetto al core business aziendale. Ma l’esempio certamente più classico e studiato di quello che i marketer oggi chiamerebbero Content Marketing è rappresentato dalle soap opera. Nate prima per la radio, nel 1930 con Painted Dreams, poi passate, grazie al loro grande successo, anche alla nascente Tv (nel 1946 negli Usa inizia la trasmissione di Faraway Hills), le soap opera rispecchiano appieno tutte le caratteristiche di cui abbiamo parlato finora. Si trattava, infatti, di contenuti inventati ad hoc da aziende (in un primo momento soprattutto produttrici di saponi e detersivi) che, erogati attraverso il nuovo mezzo di comunicazione, riuscivano a entrare nelle case di milioni di persone proprio perché non si

limitavano a promuovere i prodotti, ma raccontavano storie interessanti. I numeri testimoniano il successo strepitoso di queste iniziative: Sentieri (The Guiding Light), promosso dalla Procter & Gamble dapprima in radio e poi in Tv, si è chiusa solo nel 2009 dopo 72 anni e più di 1500 puntate e tuttora continua in forma scritta via Twitter.

Il ruolo dei contenuti nel marketing e nella comunicazione aziendale

Oggi, come cento anni fa, la produzione di contenuti di valore ha ricadute positive trasversali sulle attività di comunicazione e marketing. Tali contenuti vanno, infatti, a ottimizzare il posizionamento SEO (Search Engine Optimization)6 delle presenze digitali dell’azienda, rendendole più appetibili per i motori di ricerca;

consentono di generare e mantenere relazioni di valore con le persone

interessate (digital PR)7; le stesse inserzioni “pay per click” (keyword advertising) hanno bisogno di contenuti di valore su cui far atterrare gli utenti; infine, tutto l’inbound marketing, finalizzato alla generazione di traffico sui canali digitali dell’azienda e all’acquisizione di nuovi clienti, non può che centrarsi sui contenuti

e sulla loro qualità. Vogliamo migliorare il posizionamento del nostro sito sui motori di ricerca? Aumentare la base di fan su Facebook o Twitter? Migliorare l’engagement di quanto pubblichiamo sui nostri spazi social? Far conoscere la qualità dei macchinari che produciamo agli ingegneri responsabili degli acquisti?

Promuovere le eccellenze enogastronomiche della nostra destinazione turistica?

La risposta è sempre la stessa: è solo una questione di contenuti!

Il marketing basato sui contenuti deve essere inteso come “una vera e

propria strategia di editorially led marketing nella quale il contenuto proposto – a prescindere dalla natura del formato, dal supporto e dal canale di diffusione – si eleva sino a configurarsi come un prodotto sul quale l’azienda viene a fondare un’apposita strategia di marketing (ancor prima che di comunicazione) in grado di generare risorse di conoscenza e di fiducia, fondamentali per il proprio

successo”.8

Dalla ricerca 2015 Benchmarks, Budgets, and Trends9 relativa al Nord

America, emerge come le aziende B2B comprese nel campione utilizzino le attività di creazione e cura dei contenuti soprattutto per raggiungere i seguenti obiettivi:

brand awareness 84%;

lead generation 83%;

engagement 81%;

sales 75%;

lead nurturing 52%;

customer retention/loyalty 34%;

customer evangelism 37%;

upsell/cross-sell 52%.

Mentre gli obiettivi principalmente perseguiti dalle aziende B2C sono mostrati nella figura 2.2.

Nella stessa indagine si rileva che, in media, le aziende selezionate investono il 25% del proprio budget di marketing nella produzione di contenuti ma,

soprattutto, che esiste una correlazione significativamente positiva tra efficacia delle attività di marketing e budget investito in contenuti. Già nel 201310, una

simile ricerca aveva peraltro rilevato come fossero le realtà più piccole quelle che investivano di più in termini percentuali: avendo meno risorse economiche per le iniziative pay, erano maggiormente stimolate a investire sulla qualità dei

simile ricerca aveva peraltro rilevato come fossero le realtà più piccole quelle che investivano di più in termini percentuali: avendo meno risorse economiche per le iniziative pay, erano maggiormente stimolate a investire sulla qualità dei

Nel documento LA TUA OPINIONE CONTO (pagine 43-58)

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