Lavinia… lasciò tal fama di santità / che riconoscerai essere stato dono del cielo / che l’ultimo ramo della Quercia / che più degli altri verdeggiava / si sia inaridito nella terra natia.
Dalla scritta tombale
Lavinia non ebbe il tempo di godersi quel vitalizio che l’avreb-be finalmente condotta fuori dalle ristrettezze economiche con cui aveva sempre dovuto scontrarsi.
In fretta e senza troppi preavvisi, sopraggiunse la morte.
Dopo la perdita del fratello, aveva dovuto affrontare molte incombenze faticose.
L’ultimo ramo della grande quercia sentiva su di sé tutto il peso degli anni e una grande solitudine. Suo forte desiderio era quello di salvare la dignità del nome che portava, riven-dicando pretese sull’eredità del padre e dello zio cardinale, prima che tutto venisse fagocitato dal Granduca di Toscana.
Aveva dovuto affrontare incontri, avvocati, dichiarazioni, te-stimonianze e il suo cuore, dopo tanti contrasti e tanta soffe-renza, iniziava a cedere.
Sul finire di maggio cominciò ad avvertire dolori di petto e difficoltà respiratoria.
I disturbi proseguirono, nonostante le cure mediche.
La mattina del sei di giugno ebbe una crisi più forte.
Lavinia, compresa la gravità della situazione, chiamò il segre-tario al suo capezzale. Aveva fatto preparare due lettere, da inviare a Pesaro a persone a lei care: Giulio Giordani e don Giulio Cesare Tortorino.
Desiderava vederli, parlare con loro al più presto, prima di morire. Le donne vegliavano a turno la loro signora, pregando sottovoce.
Il medico aveva tentato il salasso e prescritto cardiotonici sen-za risultati clinici. Un infarto aveva lesionato in modo irrever-sibile il suo cuore.
Vennero i confessori. Tutto ormai era pronto per il grande passo.
Lavinia rivolse il suo ultimo sguardo verso la luce della grande finestra da cui si intravedeva il castello di Rupoli, poi lo posò sul crocefisso che aveva davanti, da cui aveva sempre attinto a piene mani la sapientia crucis, da lei tanto ricercata.
Nell’ora del tramonto del sette giugno 1632, due ore prima che giungessero i due grandi amici, crollò anche l’ultimo ramo della grande quercia, quello che più degli altri aveva verdeg-giato in quella terra.
Fuori, intorno al portone d’ingresso una folla di popolani, be-neficiati dalla signora marchesa in tanti anni di vita in mezzo a loro, parlava sottovoce in attesa di notizie. Poi le campane della chiesa del castello, seguite da quelle di paesi più lontani, suonarono a lungo: quei suoni dovevano accompagnare la sua anima in cielo.
La loro illustre ospite non era più tra loro.
Prima giunse il Tortorino, poco dopo il Giordani.
La salma della marchesa nel frattempo era stata sistemata nella
sala grande, dopo una rapida preparazione senza imbalsama-zione tanto il corpo era debilitato.
Gli angeli della volta, illuminati dalle tremolanti torce collo-cate ai lati del catafalco, vegliavano dall’alto la loro signora, vissuta in quella casa da oltre vent’anni. A fianco del feretro c’era il fedele Santinelli, che raccontò ai due ospiti le ultime ore della marchesa. Il Tortorino non si dava pace per essere giunto in ritardo. Avrebbe voluto ricevere le ultime confiden-ze, anche se era già stato reso partecipe di “infinite cose” in oltre quarant’anni di servizio, conoscendo fin nelle pieghe più profonde la vita della sua Signora.
Subito maturò in lui il proposito di scrivere le memorie di quella donna così straordinaria, anche a consolazione delle clarisse di Urbino, designate a custodire nel loro oratorio le spoglie della marchesa(1).
Don Giulio Cesare Tortorino non era un semplice cappella-no di corte. Entrato al servizio della famiglia ducale fin da fanciullo, si era acquistato ben presto la stima della duchessa madre e della figlia Lavinia, tanto da diventare loro confiden-te. Aveva il privilegio di essere utilizzato per incarichi molto delicati e di grande riservatezza. Conoscendo tutte le vicende di palazzo, portava con sé i segreti più nascosti della famiglia.
Nel suo lungo servizio era rimasto profondamente colpito dal-le doti della marchesa, che la definì “stella spdal-lendente della bella Italia”.
Giulio Giordani restò a lungo in silenzio accanto alla salma, prima di essere accompagnato nell’appartamento al piano su-periore, dove riordinò le sue emozioni. Nella solitudine si la-sciò andare a ricordi antichi di un amore negato.
La notizia della morte di Lavinia si diffuse rapidamente di bocca in bocca in tutti i castelli vicini e nei casolari delle val-late circostanti. Grande fu la commozione degli abitanti di
Montebello e di Mondavio.
La pioggia intanto aveva iniziato a cadere incessante e durò per alcuni giorni, quasi a partecipare, come scrisse il Torto-rino, alla morte di questa donna. I funerali vennero celebrati tre giorni dopo con grande concorso di popolo. La salma ri-cevette sepoltura nella piccola chiesetta ottagonale dedicata a S. Anna “con molto apparato e molti sacerdoti convitati et venuti da tutti li castelli del vicariato et da Urbino la bellissima musica dell’Arcivescovado”.
Trascorso un anno di tempo, secondo le sue volontà, la salma di Lavinia fu traslata al monastero delle clarisse di Urbino, accompagnata da una folla di gente, oltre i nipoti e gli amici.
La popolazione della città ducale l’attese all’imbrunire sotto il colle di san Bernardino alla luce di tante ”torce da vento”, unendosi al corteo che si concluse davanti al monastero.
Alle pareti della chiesa furono appesi molti biglietti con rime scritte in onore della defunta, che ricevette una nuova e più dignitosa sepoltura di fronte a quella di Francesco Maria I, nonno paterno.
Il Tortorino, testimone di tante vicende tra le più delicate, avrebbe potuto scrivere un’altra storia, svelando anche i motivi di tanto accanimento del duca verso la sorella.
Preferì, invece, stendere un pietoso velo, limitandosi ad una libretto encomiastico sulla nobile Signora “singolarissimo esem-pio da porsi a tutte le Donne del suo tempo”. La peccatrice, che da altra parte si reclamava, era solo frutto di fantasia popolare.
Lui, servo fedele, vedeva Lavinia con gli occhi della fede già assisa nella corte celeste, di cui avevano tanto parlato nelle loro meditazioni quaresimali. La sua Signora era proprio co-lasù, tra soavi profumi, voci angeliche ed celesti melodie, dove Cristo siede alla destra del Padre e la Regina del cielo, calzata
di luna, vestita di sole, e coronata di stelle, insieme a tutti gli spiriti beati.
Lui, sacerdote, ne aveva piena certezza.
Gli oggetti di Lavinia presero varie destinazioni: gli arredi e i paramenti della cappella portati in Santa Chiara di Urbi-no; i tappeti, i dipinti, gli ori, le sete, divisi tra i Gonzaga di Novellara e i d’Avalos di Vasto. Una gioia a forma di sole con perle alla cara Pantasilea Tassoni e la grande torciera d’argento all’orfanotrofio d’Orciano. Alcuni mobili furono venduti per poter concedere la dote ad alcune dame di corte, che trova-rono accoglienza in monasteri ed orfanotrofi della zona. Nel suo testamento, preparato con cura fin dal 1628, non aveva dimenticato nessuno: Camillo di Tommaso, lo staffiere che l’aveva seguita da Vasto; Margherita, sua moglie, la guarda-robiera; le monache di santa Chiara che l’avevano servita nel lungo soggiorno in monastero.
Si raccomandava di saldare i debiti con le “botteghe e con Isac Sarugo”, ebreo pesarese che per tanti anni le aveva fatto pre-stiti. Che nessuno potesse dir male di lei in futuro. Suo erede universale nominava Alfonso Gonzaga, nipote prediletto, che aveva accolto in casa sua all’età di due anni. Alla figlia Isabella lasciava la legittima e che “tacita e contenta non doveva preten-dere altro”.
Aveva avuto già molto e, come d’Avalos, dato molto poco.
Nessuna traccia della marchesa doveva rimanere in quell’o-scuro castello.
Con il passare del tempo le dicerie popolari potevano dilatare e colorire a piacimento la storia di quella donna che diventava leggenda.
Dopo la sua morte, alcuni devoti testimoniarono grazie rice-vute per sua intercessione, tanto che la Chiesa fanese fu
co-stretta ad istituire un processo di canonizzazione, mai conclu-so. Rimaneva soltanto il palazzo prigione, dove aveva vissuto questa nobile principessa macchiata di tante colpe.
L’ultimo piano del palazzo fu demolito nel 1872, per volere dei fratelli Battistini, figli di Giuseppe, che aveva acquistato l’immobile per settecento scudi romani trent’anni prima dal marchese Capolti di Saltara. Si disse per una vincita al gioco.
Di tutte le stanze decorate e affrescate, non ne rimase che una.
Tutto il resto venne distrutto, coperto dal fumo ed intonaci. Si doveva far posto a cucine e stanze da letto per diverse famiglie di contadini, che per molti anni abitarono nel palazzo. Anche la galleria, che recava i medaglioni dei Cesari, andò dispersa.
Di tanta magnificenza restavano soltanto le linee severe e le possenti mura della grande casa.
Ai visitatori veniva additata anche la stanza di reclusione e la finestrella dove veniva concesso il pasto alla reclusa.
Le ossa di Lavinia non ebbero miglior fortuna, perché, con le tante vicende subite dal complesso di Santa Chiara durante le varie soppressioni, furono profanate e disperse.
Rimane soltanto la scritta tombale, che fedelmente tratteggia il suo profilo.