2.2 Le composizioni originali
2.2.3 Un abbozzo di tragedia: la Maria Antonietta
L’esperimento della Maria Antonietta è molto interessante poiché veramente particolare: si tratta di un abbozzo di tragedia, il cui atto compositivo iniziale, stando alle annotazioni di pugno leopardiano rinvenute sul manoscritto, risale al 30 luglio 1816. Il Savarese, in un capitolo dedicato – Un dramma tra storia e romanzo: la Maria Antonietta – contenuto nel suo saggio L’eremita osservatore, nota che tale abbozzo venne dato alle stampe per la prima volta nel 1906, all’interno de Scritti vari inediti, pubblicati a Firenze.
Il diciottenne recanatese non era nuovo a esperimenti di poesia ‘drammatica’; alle composizioni puerili risalgono, infatti, il Pompeo in Egitto e La virtù indiana. In un’ottica analoga, la tematica della morte dal punto di vista ‘eroico’ era già stata affrontata nelle precedenti produzioni; tra di esse si ricordano le seguenti opere: la Morte di Ettore; la Morte
354 W. Binni, Lezioni leopardiane, op. cit., p. 41. 355 R. Damiani, All’apparir del vero, op. cit., p. 74.
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di Saulle; Morte di Catone; Christi mors e, infine, i due epigrammi In Caesaris sepulchrum
e In mortem Pompei.
L’abbozzo del ’16 contiene un monologo in versi della protagonista, la regina di Francia, situabile all’atto I Scena I; ad esso è affiancata la presenza di una sceneggiatura in prosa correlata poi da rapidi appunti relativi agli atti quarto e quinto. Nonostante il materiale scrittorio non sia ingente, ciò non inficia la portata dirompente del tentativo drammatico leopardiano. L’argomento infatti, ben chiaro, è di diretta derivazione dall’ambiente culturale familiare: l’ottica secondo la quale la vicenda è descritta è prettamente antifrancese e antirivoluzionario. La novità, rispetto alla produzione drammatica puerile, si colloca nella modalità di rappresentazione: Giacomo, pur trattando di una materia in difesa dei sovrani cattolici assassinati dai barbari rivoluzionari, inscrivendosi dunque ancora in una dinamica di difesa della vera fede e delle istanze aristocratiche, si esprime con una sensibilità letteraria significativamente diversa rispetto alle esperienze ‘drammatiche’ precedenti. Secondo il Binni, l’abbozzo, si configura come un’opera «materiata di elementi della agiografia antirivoluzionaria» tanto da colpire «per l’intensità di una situazione centrale di sofferenza aristocratica». Quest’‘intensità’ rivela «qualche precoce eco alfieriana impostata con i richiami gessneriani della memoria acerba e dell’affettuoso “tu”: “oh sventurata... oh cara…”». Ad amplificare questi riverberi, si innesta una «certa abbozzata capacità di tensione sentimentale e di effetti forti e sensibili» che rimandano implicitamente a un «certo gusto montiano» che viene complicato attraverso una «graduazione delle sensazioni nel loro attenuarsi e svanire» che rimanda a vaga «tecnica ossianesca».356 L’interazione di questa influenze, unita a un’attenzione sensibile e fortemente elegiaca, porta il lettore dei frammenti drammatici a percepire l’intero svolgimento della scena, attraverso il canale prettamente uditivo: sono i suoni e i rumori i principali attori sulla pagina, i quali, uniti alle parole della protagonista concorrono alla genesi di una situazione percepita come fortemente patetica.
Un’altra novità è presente nel testo: compare per la prima volta un’attenzione peculiare che Leopardi dedica a personaggi femminili. La protagonista è Maria Antonietta, in compresenza sulla scena, con la figlia, Maria Teresa Carlotta: essi sono i soli personaggi chiaramente individuati nell’abbozzo e, seppur le loro figure siano ancora non definite e
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frammentarie, si nota «un’indagine nella psicologia femminile» che permette «un particolare sviluppo di elementi teneri e affettuosi».357
L’azione tragica si apre con l’esecuzione di Luigi XVI, che viene lamentata dalla sposa e volge al termine nel momento in cui viene rappresentata la morte della regina. Gli atteggiamenti delle due protagoniste sono agli antipodi: la regina è descritta secondo un contegno degno della pacata e ‘fiduciosa’ rassegnazione tipica dei santi martirizzati; al contrario le azioni della figlia sono presentate attraverso parole e modi che ne svelano un ‘concitamento’ dettato dalla volontà di cambiare le sorti proprie e della madre: la volontà di ordire un complotto che permetta a Maria Antonietta la fuga, il pianto disperato e supplichevole al fine di ottenere il permesso di morire sostituendosi alla madre o – se non altro – almeno con lei ne sono due semplici ma significativi esempi. Con la fermezza di una ‘santa’ Maria Antonietta conforta la figlia prima di essere trasportata al patibolo: il percorso che la carretta svolge per portare la condannata all’esecuzione è descritto attraverso l’udito: i rumori del popolo e dei tumulti si odono distintamente. Scoperto e sfumato il piano dei congiurati, la regina è giustiziata. Il finale, delineato nell’ultimo frammento, «doveva essere costituito da una scena chiusa da una “profezia lunga”», da pronunciarsi attraverso le parole di un congiurato che, «all’apice della sciagura reale e propria, auspicava, rivolgendosi a Carlotta, il futuro ritorno su suolo francese della legittimità (“Te lascio in vita, speme di Francia […]”)».358 La rappresentazione dei
rivoluzionari è foriera di implicazioni piuttosto evidenti; scrive Damiani:
Dinanzi ai «trasporti fierissimi» della principessa per la madre condotta alla ghigliottina, i rivoluzionari appaiono, un po’ metastasianamente, quali «furie […] barbari, tiranni»; la libertà nell’esilio, lontana dalla prigione e dal destino che ha condiviso con i genitori, è per Carlotta nient’altro che una «nuova tirannia» da patire.359
Pertanto, il dramma consta di un soggetto la cui genesi è «non scolastica né del tutto libresca, bensì attuale». Questo rilievo è determinante in quanto mostra come «la caduta di Napoleone, l’infelice tentativo di Murat, il ritorno dei Borboni sul trono di Francia e il trionfo della Restaurazione e della Santa Alleanza in tutta Europa» causarono,
357 W. Binni, Lezioni leopardiane, op. cit., p. 41.
358 R. Damiani, L’impero della ragione, op. cit., pp. 128-129. 359 Ibidem.
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sostanzialmente in concomitanza con il Congresso di Vienna, una riapertura del «processo alla Rivoluzione francese e al periodo storico nato da essa».360 Il Savarese, esaminando l’interazione tra le circostanze storiche e l’abbozzo del dramma leopardiano, afferma:
In quella materia così incandescente, confusa, contraddittoria e comunque straordinariamente appassionante, il giovane trovava un nuovo campo d’interessi, che forse contribuivano non poco a fargli volgere le spalle agli studi di «pura e secca filologia», e certamente stimolavano e acceleravano in lui la motivazione e la scoperta della propria personalità, con quel ritmo gagliardo che deriva anche dall’essere testimoni e critici, sia pur acerbi, di eccezionali eventi storici.361
In realtà, contrariamente all’asserzione dello studioso, l’abbozzo non è il prodotto di «un nuovo campo d’interessi» derivante dalle contingenze storiche; anzi, questo interessamento è ‘vecchio’, o quanto meno, già ben assimilato poiché coincide esattamente con il clima che si respira nel palazzo di Montemorello. La prospettiva dalla quale è osservata la morte dei sovrani di Francia corrisponde perfettamente a ciò che, secondo il progetto familiare, Giacomo sarebbe dovuto diventare. La conoscenza dei fatti, delle implicazioni ideologiche, seppur acerba, era tuttavia ben presente nel substrato del bagaglio storico-culturale acquisito dal recanatese. La materia tragica di quest’opera non può essere interpretata come una ‘novità’ proprio perché la maggior parte degli studi che precedettero il ’16 furono improntati all’acquisizione di un repertorio atto a difendere il Credo cattolico dalle falsità dilaganti frutto della cultura dei Lumi, i cui effetti divennero ancora più esplosivi e dannosi per la risonanza che ebbero con l’avvento della Rivoluzione francese. È sufficiente ricordare, quanto Leopardi scrisse al papa nel ’13 chiedendo la dispensa per la lettura dei libri proibiti:
Giacomo Leopardi figlio del conte Monaldo di Recanati dovendo consultare per i suoi studi diverse opere, specialmente filosofiche, chiede nuova facoltà di poter leggere libri di ogni specie, giacché anche gli stessi veleni riescono talvolta potentissimi rimedi, così per poter combattere vittoriosamente gli avversari fa duopo conoscere le armi con le quali aggrediscono.
360 G. Savarese, L’eremita osservatore: saggio sui Paralipomeni e altri studi leopardiani, Roma, Bulzoni, 1995, p. 258.
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Giacomo conosceva assai bene «le armi» usate dai nemici della Fede, perché su di esse aveva speso gran parte degli studi della sua prima giovinezza. Nonostante la divergenza rispetto alla ‘novità’ supposta della materia drammatica, con il Savarese si concorda inequivocabilmente su quali siano le fonti da cui il Leopardi riprende l’argomento dei frammenti; si osservi quanto segue:
Quei nuovi interessi dovettero rendere più assidua la familiarità di Leopardi con la pubblicistica antirivoluzionaria ed antifrancese, di ispirazione gesuitico-maistriana, copiosamente rappresentata nella biblioteca paterna, in genere pamphlets anonimi nei quali la vocazione della tragedia della famiglia reale francese teneva il posto d’onore […].362
Questi testi erano spesso strutturati sulla presupposta esaltazione della «bontà ed innocenza di Luigi XVI, della fedeltà ed amor coniugale di Maria Antonietta, della loro intrepidezza» la quale era generata dalla «retta coscienza e fede religiosa» tanto da venire rappresentati come sventurati sovrani ma «veri atleti cristiani», e la regina in particolare come «Eroina che onora il secolo».363
L’esperienza della Maria Antonietta risulta significativa in quanto permette l’emersione di un aspetto fondamentale: essa è il prodotto dell’interazione di due fattori che rendono concreto, quasi palpabile ciò che sta accadendo nello spazio più recondito dell’animo di Leopardi. Dunque, da un lato vi è la materia del dramma che, come si è visto, si rivela riconducibile alla sfera concernente la difesa delle istanze cattoliche e aristocratiche; dall’altro, è interessante osservare come queste istanze vengano a concretizzarsi in un preciso momento della vita del recanatese: essendo il periodo in cui la conversione si manifesta attraverso le prime composizioni letterarie originali, la Maria
Antonietta si configura come il perfetto prodotto, a cavallo tra il futuro e l’ormai – quasi –
sorpassato ruolo di defensor fidei. Di fatto è un ‘ibrido’, un monstrum che con un occhio guarda al passato, voltandosi indietro, ma con l’altro si protende al futuro e tinteggia l’inevitabile sguardo sul passato con i colori della ‘conversione letteraria’. Si fa strada, nel vecchio sentiero, una nuova sensibilità. In L’impero della ragione, Damiani osserva:
362 G. Savarese, L’eremita osservatore, op. cit., pp. 257-258. 363 Ibidem.
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In un punto dei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, databili tra il marzo e il maggio 1819, Leopardi annota la «tenerezza», vicina al «pianto», di alcuni suoi sogni e i «vaghissimi concetti» che gli si erano impressi nell’animo quando «sognò di Maria Antonietta e di una canzone da mettergli in bocca nella tragedia che allora ne concepì»; tale canzone, per l’inesprimibile sovrabbondanza d’intensità sentimentale, «non si sarebbe potuta fare se non in musica senza parole».364
A questo modo di sentire corrisponde una inedita modalità di rappresentazione letteraria che si concretizza in uno stile del tutto peculiare. È opinione del Bigi che questa tendenza può – in parte – essere generata dalla suggestione che la versione del secondo libro dell’Eneide diede al giovane, con il suo «alternarsi di scene crudeli e di scene affettuose, di trasporti “fierissimi” e “tenerissimi”».365 Nei frammenti dell’abbozzo vi è un unico passo
verseggiato; lo si riporta per intero:
[…] …Oh Dio
Il vuol tu: sia: volenterosa il dico. Ben me n’avveggo: a le sventure io forza bastevol non oppongo. In lamentanze troppe, spesse trascorro. Ah non a colpa appormelo vorrai. Resister bramo, ceder m’è forza e lagrimare. Oh sposo! Quanto t’amava! ah mi t’han morto. Scure Tronco t’ha il regio capo…366
Lo stile dei versi è intriso di «durezze arcaicizzanti», articolate secondo un ritmo fortemente spezzato, e con i suoi alfierismi, è d’opinione il Bigi, mostra «non poche analogie con quella della contemporanea traduzione virgiliana».367
364 R. Damiani, L’impero della ragione, op. cit., p. 127. 365 E. Bigi, Il Leopardi traduttore dei classici, op. cit., p. 227. 366 M. A. Rigoni, Poesie, op. cit., p. 613.
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