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Un avvenimento che permane come avvenimento

Nel documento Fu guardato e allora vide (pagine 33-76)

Come permane l’avvenimento che è accaduto a Zaccheo?

«Ho iniziato l’università poco più di un mese fa, mi sono trasferi-ta a Milano. Il 30 settembre sono andatrasferi-ta alla Giornatrasferi-ta d’inizio anno.

Forse perché ero appena andata via di casa, forse perché il mio cuo-re urlava così tanto il bisogno di un aiuto, o forse perché avevo vissuto un’estate con un vuoto immenso dentro di me, è stato come avere ricevuto una martellata in testa: quello che ho visto e sentito mi ha riaperto occhi e cuore, al punto che da allora ogni giorno mi alzo e mi sento addosso tutta la sua Presenza, tutta la Sua passione per la mia vita. E inizio a desiderare di più». Rinasce in lei il de-siderio, non si accontenta più delle briciole, scopre la profondità senza fine della sua umanità. Continua: «Mi ritrovo ad essere ogni giorno protagonista della mia vita, ci sono io dentro tutte le cose che faccio, al 100%. È faticoso, ma è bellissimo. Sono libera e sempre più consapevole delle scelte che faccio. Comincio a guardare in un modo diverso anche la mancanza della mia famiglia, del mio

moro-48 «Abbiamo bisogno di una luce verde», volantino degli studenti liceali di CL Spagna, ot-tobre 2017.

so, dei miei amici. Questa assenza mi fa sentire amata, guardata. Il rapporto con i miei genitori è quello che mi impressiona di più. Mi ero scordata cosa volesse dire volere loro bene. Vederli ogni giorno e darli per scontati [a volte il doversi allontanare fa capire che gra-zia sono i genitori o il moroso; la circostanza non è contro di noi, ma è per renderci consapevoli di cose che per l’abitudine quotidiana non vedevamo più]. Mi accorgo, come ha detto Carròn alla Giorna-ta d’inizio, che Cristo “fa canGiorna-tare tutto nella viGiorna-ta”: “Tu sei in tutto e sei tutto per me, in me dimori”».

L’avvenimento originale, iniziale – l’avvenimento di Cristo – per-mane come avvenimento. Accade ora. Per l’amica della lettera, la Giornata d’inizio è stato il riaccadere dell’avvenimento. «Il movi-mento è il dilatarsi di un avvenimovi-mento, dell’avvenimovi-mento di Cristo [di quello che è capitato a Zaccheo e che riaccade adesso]. […] La modalità con cui […] l’avvenimento cristiano […] diventa presente è l’imbattersi in una diversità umana, in una realtà umana diversa, che ci colpisce e ci attrae perché − sotterraneamente, confusamente, oppure chiaramente − corrisponde a un’attesa costitutiva del no-stro essere, alle esigenze originali del cuore umano».49 Colpisce il primario, l’ultimo arrivato, noi stessi, i compagni che ci vedono muoverci nella realtà; non devono immaginare niente, perché han-no tutto davanti agli occhi: «Voi capite le persone dal di dentro».

Che cosa avrà visto quel primario per dire una cosa del genere? Che cosa avranno visto quegli universitari per chiedere alla nostra amica come ha fatto a non piangere? Che diversità hanno rintracciato?

Nella fede non si tratta di autoconvincerci, come se fosse il nostro sforzo di autoconvinzione a generare l’evento. Noi ci scontriamo, ci imbattiamo in una diversità umana. Come è capitato a Zaccheo con Gesù. Tale e quale!

Ma per ognuno di noi è stato lo stesso. Se siamo qui consapevol-mente è perché ci è accaduto un incontro in cui ci siamo finalconsapevol-mente sentiti guardare nella nostra umanità tutta intera: nella scuola supe-riore o nell’università ci siamo imbattuti in un fenomeno di umanità

49 L. Giussani, «Qualcosa che viene prima», Tracce-Litterae communionis, n. 10, ottobre 2008, p. 1.

diversa, abbiamo visto gente che, con tutti i propri limiti, senza cen-surare nulla dei propri sbagli, accoglieva gli altri senza tornaconto, era libera di stare con chiunque, aperta a condividere, giudicava tutto quello che accadeva, senza barriere ideologiche, si interessava di tutti. Dobbiamo guardare quello che accade, non quello che non accade, per capire: che cosa c’è qui dentro, qui, in quello che vedo?

Perché solo così possiamo incontrare Cristo e scoprire chi è: «Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa, si cela, diventa presente, sot-to la tenda, sotsot-to l’aspetsot-to di una umanità diversa».50

E perché possiamo dire che è Gesù? Perché quella diversità uma-na non è qualcosa di nostro, non è producibile da noi, che siamo i primi a sorprenderci che essa accada nella nostra umanità. È tal-mente sproporzionato non solo non piangere o non denunciare il professore, ma essere lieti nella contraddizione e riconoscere anche quella circostanza come un’occasione di incremento di sé, della consapevolezza della grazia ricevuta, che ciò è possibile solo per la presenza viva di Cristo («io sono la preferenza di Cristo per me»), altrimenti ce lo sogniamo. È una diversità umana la forma attraver-so cui Cristo diventa presente.

Gesù era pienamente uomo. Coloro che lo incontravano non ve-devano un fantasma, non veve-devano un extraterrestre, non veve-devano qualche strana figura delle fiction attuali, vedevano un uomo. Era un uomo come tutti gli altri. Ma era diverso dagli altri: in quello che diceva, in quello che faceva, nel come guardava, nella misericordia che aveva. «Non abbiamo mai visto nulla di simile», dicevano co-loro che si imbattevano in Lui. Ecco, questo è il punto che occor-re spiegaoccor-re. Perché è lì, in quella diversità, che si nasconde il Suo mistero, la Sua divinità. È lo stesso per noi oggi. Ci imbattiamo in gente come noi, eppure diversa da noi, con una diversità umana che ci colpisce e ci attrae. E ci sembra paradossale, per la sproporzione tra quello che incontriamo, il veicolo umano pieno di limiti, e la no-vità che porta, l’effetto che provoca in noi. Cristo si rende presente attraverso questa diversità. Come quando un’amica spagnola che è all’estero si trova davanti un amico che improvvisamente è venuto

50 Ibidem, pp. 1-2.

a farle visita: è uno shock. Non è infatti così superficiale da pensare che sia venuto perché per caso passava di lì. È scioccata perché ca-pisce che attraverso quell’amico un’altra Presenza è venuta a farle visita, una tenerezza più grande ha abbracciato la sua vita. «È stato l’avvenimento di Uno che ha bussato alla mia porta al mattino per dirmi che mi ama. Mi sono resa conto di avere un enorme bisogno di fare silenzio. Fare silenzio per rendermi conto di Chi stava acca-dendo».

Don Giussani osserva: «Quest’imbattersi della persona in una diversità umana è qualcosa di semplicissimo, di assolutamente elementare, che viene prima di tutto […]: è qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato, ma solo di essere visto, intercettato, che suscita uno stupore, desta una emozione, costituisce un richiamo, muove a seguire, in forza della sua corrispondenza all’attesa strut-turale del cuore».51 È questa attesa, infatti, il detector che ci per-mette di coglierlo. È per questo che il Mistero ci ha fatto con quella nostalgia di cui parla Ernesto Sabato, perché possiamo riconoscer-Lo quando ci viene incontro nel reale. riconoscer-Lo diceva in modo chiaro il cardinale Ratzinger: «“Noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza” (Il Sabato, 30 gennaio 1993). È nella corrispondenza il criterio del vero».52 Anche oggi possiamo capire che Cristo è presente, e che si tratta di Cristo, attraverso l’incontro con una umanità, a volte così mal messa come la nostra, per la di-versità che porta per la corrispondenza di cui facciamo esperienza.

Questo è il metodo. «Il fenomeno iniziale − l’impatto con una diversità umana, lo stupore che ne nasce − è destinato a essere il fe-nomeno iniziale e originale di ogni momento dello sviluppo. Perché non vi è alcuno sviluppo se quell’impatto iniziale non si ripete, se l’avvenimento non resta cioè contemporaneo».53 E quando accade ridesta in noi quello di cui abbiamo parlato all’inizio: lo sguardo del bambino, la povertà di spirito, testimoniata dall’Innominato del

51 Ibidem, p. 2.

52 J. Ratzinger, in L. Giussani, «Qualcosa che viene prima», Tracce-Litterae communionis, cit., p. 2.

53 L. Giussani, «Qualcosa che viene prima», Tracce-Litterae communionis, cit., p. 2.

Manzoni: «Rimarrei ostinato alla vostra porta, come il povero».54 Da quando ci è successo di incontrarLo, anche noi non riusciamo a non essere lì alla Sua porta come poveri, ad aspettare come ci sor-prenderà, desiderosi di scoprire quale sarà la modalità che sceglierà per avere pietà del nostro niente, per far fronte alla nostra domanda:

«Ma Dio si è dimenticato di me?». Egli ci risponde: «Si può di-menticare una mamma del suo bambino? Anche se tua mamma si dimenticasse, io non mi dimenticherò mai di te».55

54 A. Manzoni, I promessi sposi, op. cit., p. 486.

55 Cfr. Is 49,15.

Jesus knows56 Zachée57 Dicitencello vuje58

Dopo questo, possiamo cominciare. Pronti?

Ieri mi ha colpito molto l’insistenza sulla parola disagio. Dicia-mo che è il mio Dicia-modo di relazionarmi al disagio che mi interroga.

Più volte ieri hai domandato se abbiamo una tenerezza verso di noi, tale da non vergognarci del nostro disagio. Diciamo che io, più che vergognarmene, mi ci crogiolo dentro, usando questo mio disagio come un nido nel quale difendermi. Ma mi rendo conto che questa è una crepa che non mi aiuta a crescere, anzi, mi fa chiudere. Tu ieri ci hai detto che bisogna avere uno sguardo tenero verso di sé:

precisamente che cos’è questa tenerezza?

E tu perché non resti nel nido? Se stai così bene nel nido del tuo disagio, perché non rimani lì?

Perché non sono felice.

«Non sono felice». Prima constatazione. Non è che il nido sia il Paradiso. «Non sono felice». E già questo che cosa desta in te? Se non sei così felice da dire: «Sono nel nido e sto da dio», questo che

56 «Jesus knows», di Ken McAlpin e Gary Moyers.

57 M. Cocagnac, «Zachée», in Canti, op. cit., pp. 364-365.

58 Fusco – Falvo, 1930 «Dicitencello vuje», in Spirto gentil. Un invito all’ascolto della gran-de musica guidati da Luigi Giussani, a cura di S. Chierici e S. Giampaolo, BUR, Milano 2011, p. 602.

cosa desta in te? Ti lascia indifferente? Ti viene qualche voglia? Ti offre qualche suggerimento?

No, però è più comodo.

«È più comodo». Allora perché non rimani lì? Dovete farvi que-ste domande semplici: «Perché non rimango lì, se è così comodo?

Perché non rimango nel nido per il resto della vita?». Domandando-celo, forse ci accorgiamo che non è poi così comodo. Per incomin-ciare a rispondere, prova a pensare se c’è qualche esperienza che hai fatto che ti ha spinto a uscire. Ti ricordi qualche momento in cui eri nel tuo crogiolo, nel tuo nido, e ti è venuta una voglia matta di non perderti qualcosa che era fuori del nido? Se non lo intravedia-mo nell’esperienza, chi ce lo fa fare di uscire? Usciremintravedia-mo solo per un volontarismo, sarebbe qualcosa che facciamo perché dobbiamo.

Allora, ti ricordi di qualche esperienza?

Certo. Desidero uscire proprio perché ho vissuto qualche mo-mento fuori.

«Ho vissuto qualche momento…». Nella nostra esperienza c’è sempre qualche momento in cui abbiamo preferito uscire dal nido.

Erano i momenti più difficili, paradossalmente.

È drammatico, uno deve decidere tra la comodità e il vivere. E ne è valsa la pena, anche se era difficile?

Assolutamente sì, ma ora non ci riesco.

Non ti preoccupare se adesso non ne hai il coraggio. Ma tu hai visto, hai negli occhi, hai in ogni fibra del tuo essere un’esperienza positiva che hai fatto uscendo dal nido. Quindi che cosa ti manca adesso? Qualcuno che arrivi da fuori e abbia una tale tenerezza ver-so di te… per cui valga la pena uscire di nuovo dal nido. È così che impariamo a vivere. Prova a ricordare che cosa facevi quando da bambino, a volte, ti veniva la paura, lo sconforto o il disagio: che cosa ti facilitava nell’uscire dal nido?

Correvo dalla mamma.

«La mamma». La mamma facilitava l’uscire. Ma una volta cre-sciuti, la mamma non basta più per farci uscire e allora il Mistero che cosa fa per aiutarci?

Ci manda dei volti.

«Dei volti». E qual è la modalità più semplice attraverso cui quei

volti ti aiutano a uscire dal tuo nido? Attraverso quale esperienza umana?

L’amicizia.

L’amicizia, per esempio. Tu preferisci andare a prendere qualcosa con gli amici piuttosto che rimanere da solo nel tuo nido a leccarti le ferite del tuo disagio. Altro?

Potrebbe essere l’amore.

Potrebbe essere l’amore. Uno si innamora e allora ha una ragione ulteriore per uscire. Capite? Se osserviamo che cosa succede nel reale, senza dovere frequentare un qualche corso particolare, vedia-mo da che cosa siavedia-mo facilitati a uscire dal nido, dalla bambagia. È questo il metodo che ha usato il Mistero. Siccome era l’unico che potevamo capire, invece di farci un discorso si è piegato a questa modalità: l’esperienza.

E se non basta? O meglio, se sento che non è abbastanza?

È ciò che devi verificare: se questo non è abbastanza o se, a volte, come dicevano alcuni dei contributi che ho letto questa mattina, sembra a noi che non sia abbastanza. Come dicevamo l’anno scor-so: lontano da casa, il figliol prodigo sembrava stare da dio, e la casa del padre non era abbastanza attrattiva per farlo tornare. Ma poi si ritrova nel nido del suo disagio, con i suoi maiali. Strada facendo, lungo il cammino del vivere, il tempo non passa invano e allora comincia a capire; comincia ad allargare un po’ lo sguardo e a un certo punto dice: «Forse quelli che stanno nella casa di mio padre vivono meglio di me, che sono qui nel mio nido con questi compagni “stupendi” che sono i maiali!». E quello che prima non capiva, a un certo punto lo capisce.

È questa la tenerezza di Dio: Lui ci aspetta, non ti costringe, non ti forza a fare delle cose, ti sfida mettendoti davanti la mamma, gli amici, la morosa, la compagnia cristiana, aspettando che sorga in te il desiderio di uscire. Tra i Volantoni che sono appesi nel retro-palco, ne ho appena letto uno che riguarda proprio questo. Dice-va don Giussani: «Ora, con questi muscoli che non tengono, con questa stanchezza, con questa facilità alla malinconia, con questo masochismo strano che la vita di oggi tende a favorire o con que-sta indifferenza [con cui stiamo nel nostro nido] e questo cinismo

che la vita di oggi rende, come rimedio [sembra infatti che sia un rimedio], necessario per non subire una fatica eccessiva [è più co-modo restare lì] e non voluta, come si fa ad accettare sé e gli altri […]? Non si può rimanere nell’amore a se stessi senza che Cristo sia presenza come è una presenza una madre per il bambino. Senza che Cristo sia presenza ora – ora! –, io non posso amarmi ora e non posso amare te ora».59 Dopo di che, decidi tu.

Io sono cristiana perché la Chiesa è l’unico posto dove mi sento capita fino in fondo nei miei sintomi. È evidente che c’è qualcuno che comprende e descrive alla perfezione il mio cuore, ma mi sem-bra assurdo sostenere che Colui al quale si rivolge la mia inquie-tudine, la mia ferita, sia lo stesso che me l’ha messa dentro perché io potessi sentire il bisogno di Lui e cercarLo. Mi sembra assurdo perché l’alternativa al cercarLo e trovarLo, magari in una strada come questa, è un forte disagio che, se non trova risposta, arriva fino alla disperazione, una disperazione che ho visto vincere in tan-te persone della mia età, per le quali questa ferita è stata, a un certo punto, così insostenibile da fare rinunciare anche alla loro stessa vita. Da essere razionale quale sono, mi chiedo: come posso crede-re che uno che mi mette dentro una ferita così, la cui alternativa è solo il dolore, mi ami e mi lasci veramente libera se mi costringe a una condizione simile?

Tosta, la domanda! Sei pronta? Il problema infatti non è la manda, il problema è a che cosa ti esponi domandando! È una do-manda molto bella: ci aiuta a capire perché il Mistero ha messo dentro di noi questa inquietudine. È questa la domanda, no? Im-magina che Dio voglia fare qualcosa. Dicevano gli antichi che la prima cosa nell’intenzione è l’ultima nella realizzazione. Se tu vuoi costruire una casa, questa è la prima nella tua intenzione, ma per realizzarla occorre trovare un terreno su cui costruirla, poi ci vo-gliono gli architetti, poi i muratori e i tecnici. Dopo tutto questo c’è la casa, l’intenzione diventa realtà. Qual era la prima cosa che

59 L. Giussani, Volantone di Natale 2009, in L. Giussani, Qui e ora (1984-1985), op. cit., pp.

76-77.

Dio aveva in mente? Poter condividere con qualcuno la felicità che sperimentava nell’ambito della Trinità. Perciò ha creato l’uomo, per condividere con te, con me e con tutti la Sua felicità. Deve avere pensato: «Questa felicità che vivo come Padre, Figlio e Spirito San-to, questa sovrabbondanza di felicità voglio comunicarla ad altri».

Analogamente, un marito e una moglie si vogliono così bene, sono così felici che desiderano condividere questa felicità con un figlio.

Ti sembra ragionevole? Fino qui, sì. È questo che ha mosso tutto.

Ma per condividere tutta la Sua felicità che cosa doveva fare Dio?

Creare un essere con una capacità di ricevere tutta la felicità infi-nita che voleva comunicargli. Per questo ha creato un essere con un desiderio infinito, con l’inquietudine di cui parla sant’Agostino.

Allora non è per farci soffrire, per cattiveria, che ci ha fatti così.

Avrebbe potuto crearci con un desiderio ridotto, come quello di un cane; avrebbe potuto farti come un cane, di conseguenza la tua feli-cità sarebbe stata a livello di quella del cane. Ma Dio voleva di più, voleva darti di più, voleva riempirti di più, voleva farti traboccare di più di felicità, e allora ti ha generato con una inquietudine che Lui voleva riempire di Sé, della Sua presenza. Così facendo, non stava pensando prima di tutto al dolore, ma alla pienezza, a riempire la tua vita con la Sua presenza.

Quando scopriamo che è Lui a compiere la vita, che è Lui a ri-empierla di felicità? Quando Lo incontriamo. Dio si è fatto uomo proprio perché noi potessimo incontrare Colui che compie tutto il nostro desiderio. Come dicevamo questa mattina, solo quando incontriamo Cristo, capiamo questo Mistero che ci sembra, come tu dici, assurdo, ma che in realtà non è affatto assurdo, a pensarci bene, perché ti ha fatto con questa inquietudine per il desiderio che ha di renderti partecipe di una felicità che è al di là della tua imma-ginazione. A Lui non sarebbe costato nulla creare un altro passero, un altro cane, un altro elefante, un’altra stella, ma a nessuno di que-sti esseri avrebbe potuto comunicare tutta la pienezza di felicità che Lui viveva. Perché? Perché per poterla condividere occorreva una creatura con un desiderio sterminato, un essere talmente spalancato da potere accogliere l’Infinito. Perché sono sicuro che c’è la rispo-sta alla tua inquietudine? Perché è proprio la risporispo-sta a derispo-stare in

noi il desiderio. Quanto più uno si rende conto di questa “anomalia”

che è l’uomo, più si domanda: «Ma chi, se io ho solo esperienza del limite, chi mi ha messo dentro questo desiderio dell’infinito, questa inquietudine sconfinata?». Questa esperienza documenta che c’è Lui, che c’è Uno che ci ha fatti con un simile desiderio, perché Lui è la risposta ad esso. Per questo sant’Agostino diceva: «Ci hai fatto, Signore, per Te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te».60

Dove risiede la difficoltà? Non nel fatto che Dio abbia commesso un’ingiustizia facendoci così, perché è stata la maggiore promessa fatta all’uomo quella di crearlo inquieto, per poterlo riempire di Sé;

ma nel fatto che, non volendo costringerlo ad accettare la risposta,

ma nel fatto che, non volendo costringerlo ad accettare la risposta,

Nel documento Fu guardato e allora vide (pagine 33-76)

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