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CAPITOLO DUE: IL DOLORE PER LA VITA

2.4 Una nuova disillusione: la Prima Guerra Mondiale

L'esperienza della leva, la Prima guerra mondiale, l'ascesa del fascismo, il secondo conflitto, le leggi razziali: l'universo militare, vissuto attivamente o rifuggito per necessità di sopravvivenza, rappresenta indubbiamente una parte cospicua della vita e delle sofferenze di Saba.

Gli anni bolognesi terminarono con la delusione delle sue aspettative di lavoro presso “Il Resto del Carlino” ed altre riviste, e nella conseguente precarietà economica che derivò dall'insuccesso di queste collaborazioni. Nel 1914 Saba e la famiglia si trasferirono a Milano in cerca di maggior fortuna, ma oltre alle ristrettezze economiche egli dovette anche fare i conti con un dissidio amoroso non completamente sopito. Il primo febbraio dello stesso anno scrisse all'amico Aldo Fortuna: «pare che ci sia fra me e le cose che amo quella distanza irraggiungibile che c'è fra una stella e gli occhi che la contemplano […]. La mia maggior sofferenza è il rimorso che provo verso quella creatura, dal giorno che l'ò avvicinata, rimorso che si è, in questi ultimi tempi,

76 G. DEBENEDETTI, La poesia di Saba, in «Primo Tempo», 9-10 ottobre 1923, ora in Saggi critici, Prima serie (1929), Milano, Mondadori, 1969, p. 131.

77 M. LAVAGETTO, La gallina di Saba, cit., p. 122. 78 U. SABA, Il ciabattino, SD, cit., p. 165.

acutizzato»79.

In questo clima di sconforto la chiamata alle armi che avvenne nel giugno dell'anno successivo non poteva che presentarsi ai suoi occhi come un'esperienza positiva, che lo avrebbe allontanato dai problemi economici e familiari per condurlo ad imprese di gloria nelle quali avrebbe dovuto fare i conti solamente con se stesso. L'atteggiamento che assunse all'arrivo della notizia fu, quindi, molto simile a quello che caratterizzò i primi mesi della leva: eccitazione e grandi aspettative riempivano il suo animo per un'entrata in guerra della quale fu, inizialmente, un sostenitore, collaborando anche al “Popolo d'Italia” di Mussolini con articoli a favore di posizioni interventiste. Come nel caso del servizio di leva, però, presto le ambizioni vennero frustrate, il suo sentimento mutò, e l'euforia lasciò spazio alla delusione ed allo scoraggiamento. Il suo servizio alla patria avvenne sempre dalle retrovie, prima a Milano, poi a Casalmaggiore, a Roma, quindi di nuovo a Milano ed infine nelle officine aeronautiche Caproni a Taliedo.

Lo sconforto è tangibile nei carteggi. Non passano che due mesi dall'arruolamento e già Saba avverte l'assurdità del conflitto, la futilità del proprio ruolo: ammette che «questa guerra io pure l'ò desiderata come nessuna cosa al mondo», eppure «è come se a pochi passi da me vedessi un muro che limita la mia vita. Morirò probabilmente questo inverno, non di ferite ma di malattia»80.

Ancora, nel maggio del 1916 sfoga il suo dolore con Francesco Meriano: «Ò un vuoto, uno stupore, un'angoscia permanente, come se la morte fosse già entrata in me»81.

Poeticamente, la raccolta che testimonia quegli anni non fu molto fortunata, nell'ultimo

Canzoniere i testi che la compongono sono ridotti ad otto rispetto ai ventiquattro dell'edizione del

1921, a riprova della severità con la quale l'autore agì su di essi attraverso tagli, rifacimenti, ripudi. Saba stesso ne avverte ed ammette i limiti: «forse gli nocque aver presente il modello dei Versi

militari, che egli, in qualche modo, si ostinava a rifare in condizioni ambientali affatto diverse; forse

lo confermò in questo errore il fatto di essere stato un soldato, ma non un combattente, della grande guerra. Una specie di pesantezza lo accompagna, con alcune eccezioni, anche nei rari momenti felici di questo periodo».82 Le parentesi di fugace quiete gli vennero offerte dai ragazzi che furono

con lui negli anni del conflitto. Nella Serena disperazione egli aveva indicato Glauco come il componimento centrale; qui, ancora una volta, l'affetto, in una raccolta che umilmente riconosce come povera, è tutto rivolto a due figure, a Nino e Zaccaria, che nel candore della loro giovane età diventano i simboli di una generazione di ragazzi mandati sotto le bombe da «quelli che han gridato tanto / “Viva la guerra”, e alla guerra non vanno»83.

79 U. SABA, La spada d'amore, cit., pp. 74-75. 80 Ivi, p. 76.

81 Ivi, p. 80.

82 U. SABA, Storia e cronistoria del Canzoniere, cit., p. 176. 83 U. SABA, Nino, DG, cit., p.172.

Nino e Zaccaria sono i fratelli dei commilitoni della leva a Salerno, «figure umane prive d'ogni veste eroica che non fosse l'eroismo rassegnato di vivere questa vita»84 che attenuano, con la

semplicità propria dei ragazzi, con l'umiltà dei contadini e degli operai che andavano al fronte, lo sfacelo che si dispiegava attorno. Da una lettera spedita da Milano il 7 luglio 1915 a Meriano trapela un bagliore di serenità dato dalla vicinanza fraterna di quei ragazzi pur nella propria condizione di emarginato, di diverso: «sono pago della compagnia dei miei soldati: così buoni e cari ragazzi […] che non ne posso parlare o pensare senza soavità. La divisa militare è per me una specie di anello di Gige, vedo tutto restando invisibile»85. In questo ritrovato cameratismo anche

uno scherzo, una banale messinscena di poco conto si trasforma in un episodio colmo di affetto, della partecipata umanità che avvicina gli uomini dalla quale Saba trae come fosse una linfa vitale; nel febbraio 1916 racconta a Fortuna: «mentre facevo per entrare in camerata, due soldati, due stupidelli di Dio, si divertirono per cinque minuti ad impedirmi il passaggio, fingendo di parlare fra di loro, e spostandosi come mi spostavo io. Non ò mai sentito in me, per nessuna persona, tanto amore, tanta, direi, gratitudine»86.

Per un uomo che sempre tende al calore umano, alla fratellanza tra tutte le creature, alla serenità di una comunione universale, la guerra che travolge il mondo intero con morte e distruzione diventa una situazione al limite del concepibile, una nota di dolore che si somma al suo eterno dissidio. Egli ammette candidamente di non essere il poeta della guerra, e questa affermazione cela indubbiamente la consapevolezza «di aver occupato, in un avvenimento d'immensa portata una inadeguata posizione; il complesso di chi ha sentito – pur compiendo il proprio dovere – l'incapacità di innestare la propria vita, la propria esperienza, al punto giusto, nel tempo giusto»87. Eppure, Saba

non fu il poeta della guerra non solo perché nel conflitto vero e proprio, nelle trincee sotto il fuoco nemico non andò mai, ma anche perché persino in questo frangente, in questa situazione di sfacelo fuori e dentro di sé, non poté che cercare il buono, l'amore fraterno di chi gli stava accanto, la speranza negli occhi di quei giovani che a casa scrivevano « “Mamma, quando / finirà questa vitta disperatta?”»88 ma che a casa non torneranno mai; non poté che cercare, insomma, un mondo che

era una luce fioca, troppo fievole per l'ombra che andava assoggettando il mondo intero e che per lui era incomprensibile. Saba non fu il poeta della guerra, fu il poeta della vita nella guerra. Di una vita sì, disperata, stanca, sconsolata, ma tenacemente inseguita, desiderata, difesa.

84 FOLCO PORTINARI, Umberto Saba (1963), Milano, Mursia, 19672, p. 89.

85 MARIO LAVAGETTO, Per conoscere Saba, Milano, Mondadori, 1981, p. 152. 86 Ivi, p. 153.

87 ALDO MARCOVECCHIO, Saba nella “Grande guerra”, i n «Galleria», a. X, n.1-2, gennaio-aprile 1960: «Omaggio a Umberto Saba», cit., p. 55.