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L’Unione europea e la cultura: le Risoluzioni degli anni Settanta, il Trattato di Maastricht e i programmi “Cultura”

Premessa: oltre le nazioni

Non soltanto la politica culturale ha sempre tenuto conto delle evoluzioni sociali e politiche, ma ha anche riconsiderato la propria missione in funzione dei cambiamenti di imperativi che le trasformazioni hanno imposto. Bisogna insistere su una dimensione cruciale delle relazioni tra obiettivi della politica culturale e finalità politiche globali: il loro carattere dialettico121.

Gli stati rimangono tutt’oggi i protagonisti dell’azione in ambito culturale, poiché conservano le competenze in materia giuridica e perché restano al centro delle relazioni culturali internazionali122. Tuttavia, come avremo modo di vedere nel capitolo che segue, gli stati europei, nella loro veste di paesi membri dell’UE, hanno oggi perso la totale esclusività nell’articolazione delle strategie teoriche e delle iniziative nel campo culturale. Nonostante i pareri non siano concordi nei riguardi dell’impatto delle misure europee, una cosa è certa: la cultura, un tempo oggetto di interventi strettamente nazionali (o regionali) è oggi passibile di livelli di governabilità diversificati e spesso interconnessi tra loro. Come riportato dalla citazione posta in apertura, le iniziative variano a seconda delle evoluzioni del mondo circostante. Dopo un primo breve excursus storico che mostrerà come sono state gettate le basi della salvaguardia del patrimonio culturale, analizzeremo come in tale settore si è evoluto l’intervento sovranazionale della Comunità economica europea prima, e dell’Unione europea poi.

Questo capitolo servirà a contestualizzare a livello normativo un ambito, quello dei musei dell’Europa, che direttamente o indirettamente è collegato all’evoluzione prodottasi all’interno del quadro teorico e regolativo sovranazionale in materia di cultura. I musei, infatti, si inseriscono a pieno titolo nella definizione europea contemporanea di “settori culturali e creativi”123

e di conseguenza nei programmi comunitari che li riguardano.

121 LLUÍS BONET, EMMANUEL NÉGRIER, La fine delle culture nazionali?, in ID. (a cura di), La fine delle

culture nazionali? Le politiche culturali di fronte alla sfida della modernità, 2008, tr. it. Roma, Armando

editore, 2010, pp. 197-221, qui p. 203. 122 Cfr. ivi, pp. 215-216.

123

Cfr. Parlamento europeo e Consiglio, Regolamento (UE) N. 1295/2013 che istituisce il programma Europa creativa (2014-2020) e che abroga le decisioni n. 1718/2006/CE, n. 1855/2006/CE e n.

Prima di analizzare i nostri casi studio riteniamo quindi importante fornire una visione globale dell’accresciuta influenza del dispositivo comunitario in materia di cultura e patrimonio culturale. I termini “cultura” e “patrimonio”, sebbene dotati ciascuno di significati e accezioni specifiche, verranno spesso accoppiati e sovrapposti: nel fare ciò simuleremo una tendenza ravvisabile di frequente nei documenti ufficiali degli organi comunitari, nei quali la riflessione necessariamente generica, poiché condotta su “macro- aree” di intervento, impedisce talvolta una categorizzazione particolareggiata delle diverse tipologie di settori.

347, 20 dicembre 2013, pp. 221-234: per “settori culturali e creativi” si intendono (p. 225) «tutti i settori le cui attività si basano su valori culturali e/o espressioni artistiche e altre espressioni creative,

indipendentemente dal fatto che queste attività siano o meno orientate al mercato, indipendentemente dal tipo di struttura che le realizza, nonché a prescindere dalle modalità di finanziamento di tale struttura. Queste attività comprendono lo sviluppo, la creazione, la produzione, la diffusione e la conservazione dei beni e servizi che costituiscono espressioni culturali, artistiche o altre espressioni creative, nonché funzioni correlate quali l’istruzione o la gestione. I settori culturali e creativi comprendono, tra l’altro, l’architettura, gli archivi, le biblioteche e i musei, l’artigianato artistico, gli audiovisivi (compresi i film, la televisione, i videogiochi e i contenuti multimediali), il patrimonio culturale materiale e immateriale, il design, i festival, la musica, la letteratura, le arti dello spettacolo, l’editoria, la radio e le arti visive». Notiamo en passant come i musei costituiscano qui una categoria posta a fianco del “patrimonio” e non un suo sottoinsieme.

2.1 Dagli anni Settanta al Trattato di Maastricht

In una cornice di reciproche influenze e di collaborazioni, segnata anche da chiusure difensive dovute a possibili “invasioni di campo”, la politica del Consiglio d’Europa ha subito nel corso degli ultimi decenni l’influsso del ruolo sempre più esteso della Comunità economica europea nel settore culturale. Tra gli anni Settanta e Ottanta essa cominciò infatti a dotarsi di mezzi per intervenire in un ambito, quello della cultura, fino a quel momento totalmente ignorato. Non va infatti dimenticato che per un lungo periodo dopo il suo decollo negli anni Cinquanta, quando con la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) vennero per la prima volta messe in comune le risorse dell’industria siderurgica che avevano consentito lo sforzo bellico, l’integrazione europea, che pure ha sempre promosso un’innovativa visione pacifista delle relazioni tra gli stati, si dipanò in una logica settoriale quasi esclusivamente economica, l’unica che si ritenesse in grado di attuare una cooperazione sovranazionale di stampo consensuale124.

I primi passi verso una politica nell’ambito della cultura e del patrimonio culturale sarebbero stati messi in atto, secondo taluni, con l’obiettivo di promuovere una politica identitaria in un’ottica dirigista, al fine di rafforzare la legittimità dell’organismo sopranazionale - e quindi con effetti di strumentalizzazione della cultura -; al contrario, secondo altri punti di vista, essi rappresenterebbero un campo di intervento proprio, con ricadute positive sugli aspetti identitari125. In ogni caso le prime misure riguardanti la cultura sono strettamente legate a una precisa contingenza storica, ovvero al nuovo interesse che si manifestò negli anni Settanta per la dimensione ecologico-ambientale, per i limiti dello sviluppo126 e per il ruolo del settore culturale all’interno di modelli alternativi di crescita economica. Anche il ritiro della fiducia nelle arene politiche ed economiche (viste nel XIX secolo come luoghi per eccellenza del progresso dell’umanità), contribuì a portare in primo piano la cultura intesa come espressione collettiva, assieme al fenomeno

124 Cfr. MARIE-THÉRÈSE BITSCH, Histoire de la construction européenne de 1945 à nos jours, Bruxelles, Éditions Complexe, 2004.

125 Cfr. ORIANE CALLIGARO, EU Action in the Field of Heritage. A contribution to the Discussion on the

Role of Culture in the European Integration Process, in MARLOES BEERS, JENNY RAFLIK (a cura di),

National Cultures and Common Identity, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2010, pp. 87-98, qui p. 87.

126 È del 1968 la nascita del Club di Roma, organizzazione non governativa che conquistò fama

internazionale con la pubblicazione, nel 1972, del Rapporto sui limiti dello sviluppo. Negli anni Settanta e soprattutto Ottanta si moltiplicarono i movimenti e i forum internazionali dedicati allo sviluppo sostenibile, nonché alle relazioni tra ambiente e società, e alla dimensione culturale dello sviluppo.

religioso e all’identità127

, divenuti verso la fine del XX secolo i nuovi “luoghi” di riferimento di diverse realtà sociali.

In un articolo riguardante gli usi della memoria da parte delle istituzioni europee, e gli effetti della mobilizzazione del passato come strumento politico, Calligaro e Foret riconducono inoltre l’ingresso del patrimonio culturale nell’agenda comunitaria alla volontà di risvegliare l’interesse dei cittadini per l’integrazione europea dopo la fine del cosiddetto “consenso permissivo” nei riguardi delle istituzioni comunitarie128

. Tale atteggiamento dell’opinione pubblica, definibile come l’adesione dei cittadini al progetto comunitario più sotto forma di fiducia nei riguardi degli orientamenti pro-europei delle autorità nazionali che di reali convinzioni europeiste129, entrò in crisi negli anni Settanta130, obbligando le élite europee a ripensare i modelli di integrazione e a istituire nuove forme di legittimazione dei propri poteri.

Calligaro, che si oppone alla visione dirigista e intenzionale della politica culturale europea, rileva tuttavia come durante gli anni Settanta e Ottanta il collegamento tra i concetti di patrimonio, identità culturale e identità sia stato sistematicamente messo in atto nei documenti ufficiali della CEE (Comunità economica europea), al fine di “pubblicizzare” enfaticamente l’Europa131

. Fu il Parlamento europeo, l’istituzione almeno in via teorica più vicina ai cittadini e alla società civile, a farsi portavoce della proposta di un intervento dinamico della Comunità nell’ambito del patrimonio culturale, ricoprendo in

127 Cfr. IMMANUEL WALLERSTEIN, The National and the Universal: Can There Be Such a Thing as World

Culture?, in ANTHONY D. KING (a cura di), Culture, Globalization and the World-System. Contemporary

Conditions for the Representation of Identity, New York, Palgrave, 1991, pp. 91-105, qui p. 104.

128

Cfr. ORIANE CALLIGARO, FRANÇOIS FORET, La mémoire européenne en action. Acteurs, enjeux et

modalités de la mobilisation du passé comme ressource politique pour l’Union européenne, in “Politique

européenne” 2 (2012), n. 37, pp. 18-43, qui p. 25.

129 Cfr. GIANDOMENICO MAJONE, Integrazione europea, tecnocrazia e deficit democratico, Osservatorio sull’Analisi di Impatto della Regolazione, 2010, p. 7, consultabile all’indirizzo

http://www.osservatorioair.it/wp-content/uploads/2010/10/Paper_Majone_DeficitDemocratico_sett2010.pdf (ultima consultazione 22/09/2015).

130 È del 1979 il primo utilizzo dell’espressione democratic deficit con riferimento alla CEE, che diventerà nei decenni a seguire uno dei leitmotiv nei momenti di crisi di legittimità delle istituzioni europee. 131 Cfr. CALLIGARO, EU Action…cit., p. 91. Tale associazione concettuale è abbastanza comprensibile, se osservata alla luce di quanto affermato in KRZYSZTOF POMIAN, European identity: Historical fact and

political problem, in “Eurozine” (online), 2009, p. 9, consultabile all’indirizzo

http://www.eurozine.com/pdf/2009-08-24-pomian-en.pdf (ultima consultazione 22/09/2015): «identity is also connected to at least two other words that have also become highly fashionable in the last twenty years. These words are: memory and heritage. This fact seems to point out to a strong connection of identity with the past. And indeed there is such a connection. When we speak about identity, we speak about something that we received from our predecessors. […] Used with such a descriptive meaning, the word “identity” has a legitimate place in the vocabulary of a historian».

questa prima fase di mobilitazione un ruolo determinante132. Tale atteggiamento fu indotto anche dalla risonanza prodotta negli anni Settanta da due misure internazionali: la Convenzione dell’UNESCO sulla Protezione del Patrimonio Mondiale, culturale e naturale dell'Umanità (1972) e la campagna sostenuta dal Consiglio d’Europa nel 1974 per l’Anno europeo del patrimonio architettonico, a cui fece seguito nel 1975 la Carta europea a esso dedicata133.

Il contesto sembrava quindi propizio alla presentazione nel 1974, da parte del gruppo liberale e misto del PE, di una Risoluzione sulla difesa del patrimonio culturale dell’Europa134

, ritenuta da molti osservatori come la prima tappa della strategia dell’istituzione per reclamare un’azione del Consiglio dei ministri e della Commissione nel campo del patrimonio. La Risoluzione si basa sulla Dichiarazione sull’identità europea (Copenhagen, 1973), nella quale i nove stati membri avevano affermato per la prima volta la loro determinazione a introdurre il concetto di “identità europea” nelle reciproche relazioni esterne. Tale virata verso l’“identità” segnò una svolta importante nel discorso ufficiale dell’integrazione europea: di lì a poco, questa nozione diventò un quadro concettuale di riferimento onnicomprensivo, una questione «closely linked to issues of communicating and mediating conflict in a European public sphere through institutional arrangements»135, attraverso la quale le contestate espressioni di “patrimonio europeo” o “civilizzazione europea” vennero gradualmente reificate. Malgrado il carattere innovativo del suo contenuto, tale dichiarazione, in cui viene fatto appello a una generica nozione di “civilizzazione europea comune”136

, totalmente sprovvista di elementi in grado di specificarne il significato, è stata talvolta interpretata come un esempio di quella visione

132 Tale mobilitazione fu anticipata nel 1972 da un memorandum della Commissione europea dal titolo Pour

une action communautaire dans le secteur culturel, a cui seguì la creazione di un servizio appositamente

dedicato alla cultura, antesignano dell’attuale Direzione generale Istruzione e Cultura della Commissione europea.

133 Cfr. CALLIGARO, EU Action…cit., p. 88.

134 Cfr. Parlamento europeo, Risoluzione sulla proposta di risoluzione presentata, a nome del gruppo

liberale e misto, sulla difesa del patrimonio culturale dell’Europa, 1974, in “Gazzetta ufficiale delle

Comunità europee” (d’ora in avanti GUCE), C 62, 30 maggio 1974, pp. 5-7. 135 Cfr. STRÅTH, Introduction. Europe… cit., pp. 13-44.

136 Si veda Foreign Ministers of the European Communities, Declaration on European Identity,

Copenhagen, 1973, consultabile all’indirizzo http://www.cvce.eu/content/publication/1999/1/1/02798dc9- 9c69-4b7d-b2c9-f03a8db7da32/publishable_en.pdf (ultima consultazione 22/09/2015), dove si può leggere che «the diversity of cultures within the framework of a common European civilization, the attachment to common values and principles, the increasing convergence of attitudes to life, the awareness of having specific interests in common and the determination to take part in the construction of a United Europe, all give the European Identity its originality and its own dynamism».

universalistica e semplificatrice dell’unità europea tipica delle grandi narrazioni novecentesche137.

Resta il fatto che nella Risoluzione del 1974, che fa seguito alla Dichiarazione sull’identità europea, il Consiglio e la Commissione vennero invitati ad accostare le loro posizioni a quelle del Consiglio d’Europa e dell’UNESCO, ma soprattutto venne loro chiesta l’adozione di misure «per il ravvicinamento delle legislazioni nazionali relative alla tutela del patrimonio culturale nonché ai diritti d’autore e ai diritti cosiddetti “affini”»138. Secondo Calligaro, agli occhi dei parlamentari impegnati nella proposta, «[the] European heritage was also an instrument to initiate a shift from negative integration in the cultural sector to positive action in the field of culture»139, nel tentativo di far assurgere il patrimonio a simbolo tangibile dell’unità europea. Tale “patrimonio comune”, allora ancora privo di definizioni più puntuali, era certamente visto come una sorta di eccellenza del tutto europea, come dimostra l’intervento del Commissario Carlo Scarascia Mugnozza al termine del dibattito parlamentare. Egli affermò infatti la volontà di evitare una definizione circoscritta di “cultura europea”, ma al contempo di promuovere gli aspetti culturali in grado di unificare i diversi popoli europei: queste culture potevano infatti diventare un “faro” in grado di attirare con la loro luce i popoli extra-europei140

, in una retorica apologetica che ben illustra il ruolo civilizzatore affidato ancora negli anni Settanta all’Europa.

Malgrado ciò, la carica innovativa di questi primi documenti è confermata anche dal fatto che, grazie a essi, un’azione relativa al patrimonio culturale stava tentando di emergere pur in assenza di una base giuridica, ossia di una norma del Trattato CEE che giustificasse un intervento specifico nel settore in questione141. Queste prime azioni, sebbene limitate alla sfera della comunicazione e dell’intenzionalità e prive di valore di legge, fornirono tuttavia le premesse per l’istituzionalizzazione di un nuovo ambito comunitario di azione. La Commissione rispose alla mossa parlamentare del 1974 con una Raccomandazione sulla protezione del patrimonio architettonico e naturale (20 dicembre 1974), intesa a

137 Cfr. DELANTY, The European Heritage...cit. p. 7.

138 Parlamento europeo, Risoluzione sulla proposta di risoluzione presentata, a nome del gruppo

liberale…cit., p. 6.

139

CALLIGARO, EU Action…cit., p. 90.

140 Citato in ID., From ‘European Cultural Heritage’ to ‘Cultural Diversity’? The Changing Concepts of

European Cultural Policy, ECPR General Conference, Bordeaux, 2013, p. 3, consultabile all’indirizzo

http://www.ecpr.eu/Filestore/PaperProposal/993358d9-df09-4454-b1bc-0c1ff4286942.pdf (ultima consultazione 22/09/2015).

incoraggiare i nove stati membri affinché accogliessero le iniziative proposte dall’UNESCO e dal Consiglio d’Europa142

; a essa fece seguito una nuova Risoluzione del Parlamento (8 marzo 1976)143, che individuò linee concrete di intervento e menzionò il ruolo svolto dagli scambi culturali «sotto tutti gli aspetti» nel «promuovere nei cittadini della Comunità una maggiore consapevolezza dell’identità europea»144.

L’azione congiunta del Parlamento e della Commissione la quale, con una comunicazione del 22 novembre 1977 rivolta al Consiglio, affermò la possibilità di applicare il Trattato anche alla sfera culturale, vista come insieme socio-economico per la produzione e la distribuzione dei beni e delle prestazioni culturali145 - quindi come un settore produttivo non dissimile da quelli su cui la CEE legiferava - non riuscì tuttavia a trovare l’appoggio del suo interlocutore, istituzione rappresentativa dei paesi membri e pertanto spesso arroccata a difesa degli interessi nazionali146.

Sempre nel corso degli anni Settanta venne avviato un processo di «mise en mémoire accélérée de l’histoire de l’intégration européenne elle-même, […qui] poursuit un but similaire : humaniser le processus d’intégration trop largement perçu par l’opinion publique comme une mécanique froide»147. Tale impegno fu inizialmente attuato con la pubblicazione nel 1976 delle voluminose Mémoires di Jean Monnet, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford (una delle istituzioni private americane vicine alle istituzioni europee)148 e agli sforzi congiunti di uno storico francese, Jean-Baptiste Duroselle, influente protagonista della scuola storiografica euro-federalista, e di un funzionario europeo, i quali con quest’opera gettarono le basi per una cooperazione attiva

142 Cfr. Commissione delle Comunità europee, Raccomandazione agli Stati membri, relativa alla protezione del patrimonio architettonico e naturale (75/65/CEE), 20 dicembre 1974, in GUCE, L 21, 28 gennaio 1975, pp. 22-23.

143 Cfr. Parlamento europeo, Risoluzione sull’azione comunitaria nel campo culturale, in GUCE, C 79, 5 aprile 1976, p. 6.

144 Ibidem. 145

Cfr. Commission des Communautés européennes, L’action communautaire dans le secteur culturel, Bulletin CE, Supplément 6/77, 22 novembre 1977, p. 5.

146 Cfr. SALVATORE ITALIA, Dalle risoluzioni del Parlamento europeo al Trattato di Maastricht, in “Notiziario”, Ministero per i beni culturali e ambientali, 39 (1992), pp. 99-101, qui p. 99.

147

CALLIGARO, FORET, La mémoire européenne…cit., p. 28.

148 Va ricordato che gli Stati Uniti a partire dal secondo dopoguerra attivarono un’operazione “interessata” di corteggiamento delle future élite europee (Monnet, Spinelli e De Gasperi stessi si recano nel paese per effettuare azioni di lobby o di ricerca di fondi), soprattutto per mezzo del conferimento di borse di studio per gli studenti europei da parte di fondazioni private (Ford, Rockefeller, Fullbright). Cfr. FRÉDÉRIC ATTAL, Les

voyages dans la culture des fondateurs de l’Europe, in HENRI BRESC, FABRICE D’ALMEIDA, JEAN-MICHEL SALLMANN (a cura di), La circulation des élites européennes, Paris, Seli Arslan, 2002, pp. 241-250, dove si può leggere che (p. 250) «le voyage aux États-Unis […] est un élément fondamental dans la stratégie américaine de renverser le rapport de subordination supposé entre le modèle intellectuel et culturel européen et son « élève » américain».

tra ricerca storica e istituzioni comunitarie149. La Commissione intensificò gli interventi per incoraggiare una storiografia dell’integrazione europea, favorendo, al termine di un importante simposio internazionale da essa lanciato nel 1982, la creazione del cosiddetto Groupe de liaison des historiens auprès de la Commission européenne. Tutt’oggi esistente, il gruppo, che ha avuto un ruolo determinante nell’ampliare il raggio d’azione della ricerca storica, detiene anche un incarico di “consigliere” nei riguardi delle istituzioni europee in merito alle azioni scientifiche e di ricerca da intraprendere nell’ambito della storia europea contemporanea150.

L’atteggiamento volontaristico messo in campo in questi anni dalla Commissione nel tentativo di “denazionalizzare” il discorso ebbe, ancora secondo Calligaro e Foret, alcuni effetti negativi; tra i principali limiti si possono segnalare una certa banalizzazione dei concetti di memoria, coscienza, e identità europea (con un tentativo, da parte della Commissione, di piegare il metodo storico sul terreno della memoria)151, nonché il privilegio accordato dall’esecutivo europeo a progetti storici di impronta “teleologica”. L’esempio più eclatante di tale orientamento emerge dal sostegno dato al progetto presentato nel 1985 da Jean-Baptiste Duroselle e Frédéric Delouche per la redazione di una storia dell’Europa nella doppia versione di saggio e di manuale scolastico, e preferito rispetto a quello di Jacques Le Goff152. Esso si tradusse in un’opera che descrive il processo di integrazione del XX secolo e il suo “destino federale” come esito naturale della storia plurisecolare dell’Europea e delle esperienze comunitarie dell’antichità. L’impresa, altamente selettiva nella scelta di cosa includere e cosa escludere dal “canone” dei riferimenti storici, è generalmente considerata eurocentrica, in buona parte perché trascura il lato oscuro della modernità europea, fatto anche di schiavitù, imperialismo, razzismo, fascismo e antisemitismo153. Essa è stata comprensibilmente considerata come un esempio di strumentalizzazione grossolana della storia da parte della Commissione europea154. Se, come sostiene Pomian, la ricerca storica deve tenersi al riparo dalle

149 Tale cooperazione era già emersa, tra le altre cose, con la redazione da parte di Jean Monnet della prefazione a L’idée d’Europe dans l’histoire, opera del 1965 in cui Duroselle si concentrò sulle diverse costruzioni “politiche” dell’Europa attraverso i secoli.

150 Si veda http://www.eu-historians.eu/ (ultima consultazione 22/09/2015), in cui è possibile consultare i diversi numeri del Journal of European Integration History, nato nel 1995 su iniziativa del gruppo. 151

Affronteremo quest’aspetto nei capitoli successivi.

152 Quest’opera verrà tuttavia pubblicata più tardi, in contemporanea da cinque diverse case editrici europee. Cfr. LE GOFF, L’Europe est-elle née…cit.

153 Cfr. CRIS SHORE, “In uno plures” (?) EU Cultural Policy and the Governance of Europe, in “Cultural