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Uomini, ambienti, territor

PAOLA SERENO

AMBIENTE E STORIA

1. Premessa

Elaborare una rassegna di studi su ambiente e storia negli ultimi cin- quant’anni non è compito facile e contenibile in un breve saggio, poiché in questo lasso di tempo non solo sono avvenuti alcuni rivolgimenti fondamentali nell’assetto e nelle metodologie delle discipline che oggi appaiono coinvolte nel tema, e che non necessariamente lo erano tutte all’inizio del periodo considerato, ma soprattutto perché in questi cin- quant’anni abbiamo assistito ad un radicale mutamento, per lo più im- plicito, del concetto di ambiente e ad un’implosione dei paradigmi uti- lizzati nella riflessione su quello che si conviene nuovamente chiamare, dopo una fase critica, rapporto uomo-ambiente. Va detto insomma chia- ramente che non si tratta di scrivere un segmento tematico e lineare della storia della geografia storica; anzi, occorre certamente misurarsi anche con lo sconcerto che il geografo storico non può forse esimersi dal provare nel dover constatare che questa, come altre tematiche pro- prie al suo specifico disciplinare, che resta per altro pochissimo noto, è divenuta terreno di recente conquista da parte di altri settori di ricerca che non la contemplano nella loro tradizione.

Limitare quindi la trattazione ai lavori prodotti sull’argomento nella geografia storica e per di più solo italiana – che nell’insieme della pro- duzione sul tema rappresenta comunque una piccola frazione – non sol- tanto dovrebbe banalmente confinarsi ad una succinta elencazione in gran parte informata alla ritualità della citazione di scambio1, ma so-

1 A proposito di rituali, ci è parsa questa la via migliore – non rituale e fuori dal coro

quanto basta – per superare l’imbarazzo, certamente reciproco, di offrire a Lucio Gambi – riluttante e restio ad esserne il destinatario – questo festschrift con affetto e ricono- scenza, segnalandogli, per smitizzare l’evento come si conviene, una non oziosa rifles- sione sull’antropologia geografica e sul rito degli “studi in onore”, attraverso il quale, da

prattutto costituirebbe un esercizio di inutile solipsismo, già ampia- mente superato dagli eventi accaduti in sede internazionale nella storio- grafia recente, spartiacque da cui appare opportuno quindi prendere le mosse. Un po’ annoiati e un po’ irritati dalla ormai dilagante moda delle rassegne “all’anglosassone”, costruite come assemblaggio di citazioni e riassunti, dove ogni differenza di pensiero, ogni confligente problema vengono amalgamati e ricomposti in un flusso artificiosamente unitario all’insegna della tematicità, non una rassegna di studi, bensì di problemi intendiamo qui abbozzare, con l’obiettivo di porre in discussione alcuni principi, in questo momento forse impopolari, ma a nostro avviso neces- sari a fare chiarezza in un ambito che appare confuso e scomposto in fratture più che coagulato a convergere su comuni interessi, per valutare se sia opportuno e possibile ridefinire obiettivi e delineare il progetto entro cui incanalare orientamenti di ricerca numerosi, dispersi, spesso autarchici.

Non si può oggi rileggere gran parte degli studi prodotti su ambiente e paesaggio, principalmente dalla geografia storica, senza tener conto che negli ultimi dieci/quindici anni si è rovesciato il modello logico- concettuale, al quale molti di noi si sono formati e che ha una lunga e consolidata tradizione, utilizzato per spiegare e rappresentare il rapporto uomo-ambiente, passando da una concezione della storia come processo di modellamento e di trasformazione dell’ambiente naturale, ovvero di costruzione di paesaggi, ad una concezione della storia come processo di aggressione e alterazione della natura, il che equivale a dire la rinatu- ralizzazione concettuale del paesaggio. Non intendiamo volutamente dilatare il discorso inserendovi, con ambiente e storia, un terzo elemento – il concetto di paesaggio appunto –, ma è d’obbligo almeno riaffermare che esso rappresenta l’altro irrinunciabile vertice di una rete tripolare di relazioni e far rilevare come l’affermarsi nella ricerca di una concezione metastorica di ambiente appaia simmetrico al dissolvimento del con- cetto di paesaggio come sistema spazio-temporale.

Si è prima accennato d’altra parte al mutare del concetto stesso di ambiente: il mutamento si è manifestato negli ultimi anni, come per altri termini geografici, nella forma di una dilatazione estrema di significato, da ambiente naturale, come implicitamente si sottintendeva, all’indefini- to e indefinibile “tutto ciò che ci circonda”, senza distinzione tra le

Ratzel in avanti, si consuma la codificazione accademica del sapere: un serio divertis-

sement arrivato sul mio tavolo proprio mentre preparavo lo schema del mio intervento e

prodotto da U. WARDENGA- E. WIRTH, Geographische Festschriften. Institution, Ritual

componenti naturali e quelle costruite, rinunciando quindi alla caratte- rizzazione degli elementi biogeografici e geografico-fisici del territorio. Nel genere autolesionista può persino apparire divertente che molti geo- grafi abbiano ormai fatto proprio questo significato – che è una perdita secca di significato – affermatosi fuori dalla disciplina, soprattutto nelle scienze sociali, come manifestazione di non conoscenza non tanto del termine specifico, quanto più ancora dei nodi teorici e dei problemi di ricerca ad esso sottesi, e gioiosamente con determinazione difendano in nome del progresso della scienza questa innovazione allogena che sot- trae pertinenza al sapere geografico. Saremmo quasi sul punto di arren- derci a questo misuso – solo per stanchezza e non perché esso viene po- veramente spacciato per sviluppo avanzato della ricerca che si lascia dietro solo più alcune vecchie cariatidi, pochissimo impressionati come abitualmente siamo dal rovesciamento del vecchio in nuovo – se non fosse che i conti poi non ci tornano: oltre ad avanzare timidamente – ma non troppo – qualche dubbio sul valore euristico di una siffatta tuttolo- gica categoria descrittiva, domandiamo allora sommessamente – ma non troppo – quale differenza sussista dunque tra questa e altre categorie lo- giche geografiche, quali ad esempio paesaggio, territorio, regione o quei

milieux (!?) oggi in voga che, se non si tratta solo di operazione di co-

smesi linguistica, qualcuno forse un giorno avrà la bontà di definire con un po’ di rigore (e forse ricordando inoltre che accanto a milieu la lessi- cografia geografica francese conserva anche con valore ecologico il termine environnement). Ed ancora ci chiediamo se, con il dissolvimen- to del significato di ambiente (naturale), si sia giubilata anche la ricerca che ha per oggetto le componenti ambientali, quesito questo non ozioso proprio in relazione al nostro tema. Continuiamo fiduciosi ad attendere una risposta plausibile e convincente. Chi, ancorché geografo, non è alieno dal pensare storicamente – ed anche storiograficamente, che è co- sa ben diversa dall’universalizzazione mitografica di teorie deconte- stualizzate – e forse per questo appare fastidiosamente come un alieno ai suoi colleghi, immagina in base all’esperienza, ovvero alla storia della propria disciplina – e poi non stenta a trovare subito puntuale con- ferma ai suoi cattivi pensieri – che per questa via, rinunciando cioé alla distinzione concettuale tra natura e storia nelle formazioni territoriali, si arrivi felicemente e affatto paradossalmente alla naturalizzazione delle forme prodotte dai processi storici; il che è una secca smentita, non si capisce con quale vantaggio, di una importante acquisizione neppure troppo antica prodotta da tutta una stagione di ricerca volta a correggere nel-

co, il vecchio riduttivismo naturalista (vorremmo dire ambientalista, se non fosse che ora vuol dire il contrario di ciò che allora significava), dal quale Lucio Gambi ci ha insegnato a diffidare. Questa però è solo la metà del danno; l’altra metà, simmetrica, consiste nel fatto che l’am- biente – quello naturale, obliterato nell’indistinto tutto – resta il grande sconosciuto, tanto più sconosciuto quanto più se ne parla.

Al contempo però si è affermato, particolarmente nelle discipline storiche oltre che nel linguaggio comune, un uso del termine ambiente ambiguamente ecologico: formalmente ritagliato sul campo semantico di ambiente naturale, non recepisce però nulla del modello analitico de- gli ecosistemi, restando metodologicamente estraneo alla complessifica- zione delle relazioni che li caratterizzano, e appare così piuttosto una riaffermazione della natura come categoria filosofica.

Quando notavamo che una rassegna su ambiente e storia oggi non è più compito facile come lo sarebbe stato fino ad una decina di anni fa, ci riferivamo innanzitutto al fatto che il primo problema che si pone in re- lazione al nostro tema e al quale, per quanto possa sembrare surreale, mi sembra difficile sottrarsi è proprio questo: stante l’indefinitezza attuale del concetto, nel binomio ambiente e storia che cos’è l’ambiente in quanto oggetto della ricerca? Di che cosa in sostanza stiamo parlando e che cosa riteniamo utile sottoporre al vaglio della riflessione storica e storico-geografica e per quale fine cognitivo?

Il secondo e centrale elemento, snodo che ci sembra inevitabile prendere in considerazione nella discussione, è l’emergere della envi-

ronmental history di scuola americana e della versione più nostrana di

storia ambientale, andando a verificare la sua consistenza e i suoi rap- porti – se ci sono, come sarebbe logico attendersi – con la preesistente geografia storica, dichiarando però anche fin dall’inizio con voluta cru- dezza il pre-giudizio di ordine generale che guiderà la nostra verifica a vagliare l’esistenza di un effettivo statuto disciplinare: non avvertiamo il bisogno in senso lato di inventare nuove discipline, non sentiamo la ne- cessità di aumentare lo spappolamento in atto della ricerca sui problemi ambientali e territoriali, la cui negativa conseguenza prima consiste nell’au-

mento della incomunicabilità tra produzioni parallele in autarchiche neodiscipline prive di retroterra specifico, non riteniamo utile alla co- struzione del sapere confondere i temi con le discipline, vale a dire gli oggetti con gli strumenti di ricerca. Diamo invece come condizione ne- cessaria allo sviluppo scientifico la ridefinizione di obiettivi e l’affina- mento teorico-metodologico.

non vi sia più alcun oggetto di ricerca monodisciplinare; che ciò sia sempre un bene resta ancora da dimostrare: mi pare infatti che il concor- so di più settori scientifici su temi comuni, almeno nominalmente, non si stia realizzando attraverso quel modello di interdisciplinarietà del quale si vagheggiava venti o venticinque anni or sono e che prefigurava l’integrazione delle competenze per meglio cogliere la complessità del reale, ma che piuttosto si sia ormai affermato un sottoprodotto di scarto del dibattito di quegli anni con il sancire il principio del diritto all’incompetenza, come forma anche di rimozione delle storie discipli- nari altrui, ivi compresi gli errori e i limiti, legittimando infine gli auto- nomismi disciplinari, cioé realizzando l’opposto di quell’integrazione che allora si proponeva. Questa congiuntura informa in generale, in que- sto scorcio di secolo e di millennio, le scienze dell’uomo, che sembrano frequentare ormai tutte le tematiche ambientali e territoriali senza mai incontrarsi o appena occasionalmente sfiorandosi e senza capitalizzare l’esperienza pregressa che originariamente è su questi temi, nel bene e nel male, quella geografica; per quanto ci concerne in particolare, la geografia storica sembra negli ultimi tempi paralizzata da tale congiun- tura, ripiegata su se stessa al punto da non riuscire più a spendere pro- prio sul suo terreno di ricerca un capitale a lungo accumulato.

Deriva come corollario che solo il terzo polo, in ordine logico, del nostro argomentare concerne il ruolo, passato e presente, della geografia storica nell’analisi ambientale. Nel suo recente manuale Robin Butlin ricorda che la geografia storica ha sviluppato una lunga tradizione di studi volta alla ricostruzione di paleoambienti e all’analisi dei rapporti tra occupazione del suolo e mutamento ambientale2: non è difficile rico-

noscere in questi due filoni di ricerca rispettivamente la scuola tedesca, a partire già dall’Urlandschaft di Gradmann tra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale, con le sue successive derivazioni nella geografia storico-fisica ancora tedesca ed anche nella geografia storica scandina- va, e la scuola britannica che ha fatto capo al Darby, con l’abbastanza consistente serie di studi sul tema man made the land. Resta allora da capire che cosa ne è, nella recente congiuntura delle discipline ambien- tali, di quella che, non a torto, Butlin definisce “tradizione”, ma che ap- pare per altro oggi un po’ appannata, e in che modo a tale tradizione si sia o meno rapportata la ricerca italiana, al fine di valutare la direzione impressa alla ricerca.

2R. BUTLIN, Historical Geography. Through the Gates of Space and Time, Londra,

2. L’emergere della storia ambientale

I consueti rapporti annuali sullo stato della ricerca in geografia stori- ca pubblicati in “Progress in Human Geography” registrano negli ulti- missimi anni l’emergere della environmental history, a cui sembrerebbe simmetrico il declinare della consolidata tradizione di studi sul paesag- gio, risucchiato ormai nelle esercitazioni ermeneutiche e semiologiche della geografia culturale; più specificamente è nel 1995 che essa viene per la prima volta registrata come una delle principali innovazioni emer- se nella ricerca, nell’ambito della quale Aidan McQuillan riconosce che «a major new cluster has formed around the historical geography and environmental history»3. Infatti sul rapporto tra geografia storica e storia

ambientale era intervenuto nella sua autorevolezza, l’anno precedente, il “Journal of Historical Geography”, sulle cui pagine Michael Williams aveva affermato: «One of the most exciting things to happen in Ameri- can history this century has been the emergence of environmental histo- ry»4. Che i geografi storici, particolarmente quelli britannici riuniti at-

torno ad una rivista quale il “Journal”, formalmente internazionale, in realtà anglo-americano, dovessero attendere il 1994 per scoprire una novità così exciting può spiegarsi soltanto con la crisi della geografia storica britannica dell’ultimo decennio, ovvero con lo sfaldarsi di quei fondamenti della ricerca che presumibilmente rendevano in precedenza poco exciting la environmental history. Questa infatti non costituisce ormai più una novità recentissima, avendo ritagliato il suo spazio auto- nomo nell’ambito della storiografia statunitense, e segnatamente – non a caso – degli stati occidentali, già da circa venticinque anni: se l’Ame- rican Society for Environmental History è fondata nel 1975 e dall’anno successivo pubblica la “Environmental Review”, già nel 1972 la “Paci- fic Historical Review” aveva dedicato un fascicolo a questo nuovo orientamento della ricerca storica, su cui ritorna ancora nel 1984 e 1985, come farà più tardi, nel 1990, anche il “Journal of American History”.5

3A. MCQUILLAN, New Classics and Diverse Clusters in Historical Geography, in

“Progress in Human Geography”, 19, 1995, pp. 273-284.

4 Cfr. M. WILLIAMS, The Relations of Environmental History and Historical Geo-

graphy, in “Journal of Historical Geography”, 20, 1994, pp. 3-21.

Il disinteresse fino a questi anni della geografia storica per la envi-

ronmental history, disinteresse per altro reciproco, misura la distanza

dei contenuti di entrambe le discipline, così come la recentissima “sco- perta” da parte del “Journal of Historical Geography,” sia pure con qual- che sottile distinguo di Baker nel suo editoriale6, e la lettura più critica

di Demeritt, intenzionalmente accostata dalla redazione a quella entu- siastica di Williams, e l’immediata codificazione che di conseguenza ne 41, 1972, pp. 271-372, dove compare tra gli altri (pp. 362-372) il saggio di R. NASH,

American Environmental History: a New Taching Frontier, il quale può essere conside-

rato il primo a coniare, due anni prima, la nuova denominazione: cfr. NASH, The State of

Environmental History, nel vol. E. J. BASS, The State of American History, Chicago, 1970, pp. 249-260. In seguito ne formalizzano la definizione T. W. TATE, Problems of

Definition in Environmental History, in “American Hist. Ass. Newsletter”, 1981, pp. 8-

10 e J. OPIE, Environmental History: Pittfalls and Opportunities, in “Envir. Rev.”, 8, 1983, pp. 8-16 fino a quando non interviene con un vero e proprio “manifesto” D. WORSTER, History as Natural History: An Essay on Theory and Method, in “Pacific Hist. Rev.”, 53, 1984, pp. 1-19. L’anno successivo nella sezione Historiographical Es-

say della stessa rivista ritorna sul tema R. WHITE, Environmental History: the Deve-

lopment of a New Historical Field, in “Pac. Hist. Rev.”, 54, 1985, pp. 297-335 ed ancora

E. A. R. BIRD, Social Construction of Nature: Theoretical Approaches to the History of

Environmental Problems, in “Environ. Rev.”, 11, 1987, pp. 255-264; infine un dibattito

– che nonostante alcune discordanze marginali conferma nell’insieme le posizioni già enunciate – si apre qualche anno dopo a partire da D. WORSTER, Transformations of the

Earth: Toward an Agroecological Perspective in History, in “Journ. of Am. Hist.”, 76,

1990, pp. 1087-1106, a cui – fatta esclusione per alcuni interventi di repertorio, quale il tentativo, che non poteva mancare, di Carolyn Merchant di coniugare ricerca di genere e storia ambientale – rispondono in particolare A. W. CROSBY, An Enthusiastic Second,

ivi, pp. 1107-1110, R. WHITE, Environmental History, Ecology, and Meaning, ivi, pp. 111-116, W. CRONON, Modes of Prophecy and Production: Placing Nature in History,

ivi, pp. 1122-1131, con replica dello stesso WORSTER, Seeing beyond Culture, ivi, pp. 1142-1147. Conclude al momento la riflessione teorica W. CRONON, A Place for Stori-

es: Nature, History and Narrative, ivi, 78, 1992, pp. 1342-1375.

6 Cfr. A. R. H. BAKER, Historical Geography and Environmental History, in “Journ.

Hist. Geogr.”, 20, 1994, pp. 1 sgg. Si veda anche l’atteggiamento più critico, rispetto all’entusiastica adesione di Williams, di D. DEMERITT, Ecology, Objectivity and Critique

in Writings on Nature and Human Societies, ivi, pp. 22-37, con la risposta, un po’ stiz-

zita, di W. CRONON, Cutting Loose or Running Aground?, ivi, pp. 38-43. Sui più ovvi rapporti con la geografia culturale è intervenuto ancora DEMERITT, The Nature of Me-

taphors in Cultural Geography and Environmental History, in “Progress in Human

Geography”, 18, 1994, pp. 163-185. Fuori dagli Stati Uniti, nell’ambito della geografia storica la environmental history suscita l’entusiasmo di alcuni geografi britannici come Michael Williams, legati alla ricerca statunitense attraverso gli incontri ormai tradizio- nali del simposio anglo-americano di geografia storica e la partecipazione a seminari negli Stati Uniti, e della scuola australiana, per la quale cfr. J. M. POWELL, Historical

Geography and Environmental History: an Australian Interface, in “Journal of Hist.

fa il rapporto annuale sullo stato della ricerca in “Progress” sollecitano qualche riflessione sulla direzione che sta prendendo la geografia stori- ca. La environmental history si presenta in tutti i suoi piuttosto numerosi manifesti teorici come una versione aggiornata della vecchia storia natu- rale, rifiltrata attraverso l’ambientalismo americano della fine degli anni sessanta e poi degli anni settanta, e più specificamente emana dalla teo- ria della Progressive Era con cui Hays tenta di riaffermare il vecchio

Progressive Conservation Movement caro a Marsh7 e il congiunto mito

del wilderness; le altre ascendenze dichiarate risalgono alla teoria della frontiera di Turner, alla storiografia di Malin e alla geografia culturale di Webb8: le Great Plains, con il loro supposto wilderness che «has be-

come the mythic core of the American experience»9, costituiscono dun-

que il brodo di coltura dell’environmental history. Definire questa una versione «politically correct» della storiografia americana è giudizio che probabilmente non dispiacerebbe ai suoi esponenti, i quali per primi di- chiarano il fine etico-politico della nuova disciplina, ma è al tempo stes- so giudizio che ne denuncia i vistosi limiti, a partire dall’indebita confu- sione tra scienza ed etica e dalla debolezza di aver costruito, come af- ferma anche Demeritt10, la disciplina solamente sul successo emotivo

dell’ecologia. Gli ingredienti teorici della environmental history si fon-

7 Cfr. S. P. HAYS, Conservation and the Gospel of Efficiency: the Progressive Con-

servation Movement, 1890-1920, Cambridge Mass., 1959. Sui legami tra la environ- mental history e il pensiero di Hays cfr. soprattutto WHITE, Environmental History: the

Development of a New Historical Field, cit., pp. 298 sgg. e sulla centralità per entrambi

del concetto di wilderness R. NASH, Wilderness and the American Mind, New Haven, 1975. Non a caso, tra i saggi che compongono uno dei primi tentativi di definire il cam- po autonomo di ricerca della environmental history figura la riflessione di L. RA- KESTRAW, Conservation History: an Assessment, in “Pac. Hist. Rev.”, 41, 1972, pp. 271- 288.

8J. TURNER, The Significance of the Frontier in American History, in Annual Report

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