• Non ci sono risultati.

Dopo un lungo periodo di emarginazione e resistenza da parte di gallerie ed enti artistici australiani nei riguardi della sound art, a sancirne la sua decisiva emancipazione fu la mostra Sound in Space: Adventures in Australian Sound Art 88 avvenuta nel 1995 al Museum of Contemporary Art di Sydney e curata dalla musicologa Rebecca Coyle. Il suo proposito curatoriale non consisteva tanto nel delineare i differenti ed estesi campi dai quali l’arte sonora si rivela, quanto, soprattutto, nell’accentuare le peculiarità che identificavano la pratica degli artisti autoctoni. Di fatto, il lavoro degli artisti presenti, esclusivamente di origine australiana, non poteva essere considerato come il risultato di influenze internazionali bensì, al contrario, come dotato di una propria specificità identitaria dipesa dal luogo geografico in cui si palesava. Parimenti a quanto accade per alcuni fotografi o pittori, le cui opere si fondano quasi unicamente sull’importanza rivestita dalla qualità della luce, anche per i sound artist australiani il suono del paesaggio circostante è considerano come uno degli elementi integranti del loro stile nazionalista.

In quanto a ciò, esaustiva è la dichiarazione del compositore Warren Burt:

COYLE, R., Sound in Space: Adventures in Australian Sound art, Sydney: Museum of

88

there is a “vaguely intuited thing” that characterises much sound art by Australians […] a lot of Australian sound art has a certain irreverence, a certain improvisational quality, a certain sense of simultaneous belonging and alienation, a certain edge, that I mostly don’t find in work by other people or from other places 89

Entrando nel dettaglio e scandagliando l’assetto della mostra, si nota una netta ripartizione in due sezioni differenti: la prima concentrata sulla produzione e riproduzione del suono - molto spesso generato meccanicamente grazie a manipolazioni tecnologiche analogiche e digitali - la seconda, più ampia e variegata, riunita attorno a una serie di installazioni sonore. A proposito di quest’ ultime, certune costruite su supporti puramente aurali, altre su un forte impatto visivo, erano tutte collocate all’esterno dell’edificio ed erano disposte in maniera tale da introdurre il fruitore all’interno dell’esibizione coinvolgendolo a 360 gradi. Il secondo fine della rassegna in esame, infatti, non era quello di rappresentare il suono nella sua accezione fisica di mero passaggio delle vibrazioni sonore al cervello, ma piuttosto di esortare il visitatore a partecipare alle esplorazioni concettuali proposte ed interagire con le varie componenti al fine di suscitare una serie di sensazioni che stimolassero sì l’udito e la vista ma, soprattutto, l’intelletto. In effetti, secondo quanto sostiene la Coyle, è insignificante esperire le opere solamente attraverso il loro modo di produzione o uso delle tecnologie; è necessario spingersi oltre ed osservare tali parametri nell’ottica di un’esperienza soggettiva sia a livello emotivo che sensoriale. Tuttavia, tornando al contenuto della mostra, l’artista che più ha assorbito ed impersonificato il senso nazionalista della stessa è stato lo scultore e sound artist australiano John Brassil, il quale aveva creato appositamente per Sound in Space, un’opera di ecologia acustica site-specific consistente in un ambiente sonoro composto da ghiaia, sassi e pavé in cui venivano riprodotti, mediante delle casse acustiche, i suoni del cuore di una

ZURBRUGG, N. Sound-Art, Radio-Art and Post-Radio Performance in Australia, key

89

lecture durante il simposio With the eyes shut tenuto durante il festival internazionale di arte contemporanea Steirischer Herbst. In http://www.kunstradio.at/THEORIE/ zurbrugg.html, ultimo accesso: 20 dicembre 2014.

roccia di diorite. Ad aver operato nella stessa direzione, sia per il radicato patriottismo, sia per aver inquadrato la propria cifra stilistica sull’ambiente acustico circostante, sono stati i locali sono stati i locali Rainer Linz e Joyce Hinterding, la cui opera The oscillators manifestava forti sensazioni di instabilità e straniamento.

Nel tempo, a contrassegnare il definitivo consenso da parte delle istituzioni artistiche australiane nei confronti della sound art negli anni ’90 è stata un’inaspettata ondata di eventi e spazi espositivi che cominciarono attivamente a supportare, investire ed indirizzare il loro percorso verso questo tipo di disciplina. Fra tutti emergono il Melbourne’s Clifton Hill Music Centre, l’ICE (Institute of Contemporary Events), la Contemporary Music Events Company e, in ultima istanza, il Performance Space di Sydney, in genere ricordato per essere stato lo spazio adibito alla prima edizione del festival SoundCulture (1991) nato a sua 90 volta con l’obiettivo di esortare e sviluppare la cultura sonora australiana. Invisible Cities/Impossible Objects, questo il titolo della prima rassegna, incluse oltre alle tradizionali e ormai note installazioni sonore e performance, seminari e workshop proposti da artisti quali Minoru Sato e Nigel Heyler, provenienti principalmente dalla Nuova Zelanda e dal Giappone. In ogni caso, l’edizione del 91 festival che contò il maggior numero di partecipanti (ben 228) e che attestò la più ampia affluenza di visitatori, fu quella del 1996 della già citata San Francisco Bay Area a cui parteciparono, tra gli altri, teorici, ricercatori e tutti coloro avessero a che fare, in un frangente o nell’altro, con lo studio della materia sonora. Infine, benché il festival seguisse il taglio classico a cui si era abituati, vennero introdotte alcune stanze d’ascolto che offrivano all’ascoltatore una fruizione extra, anche in luoghi informali e non convenzionali.

A proposito del festival, fondamentale è l’apporto dato da Nicholas Gebhardt

90

all’interno dell’articolo: GEBHARDT, N., Can you hear me?What is sound art? in AA.VV.,

“RealTime Arts, n.13”, Sydney, 1996.

Il Festival SoundCulture servì come fonte d’ispirazione per la messa in atto di una

91

mostra tenutasi in Giappone nel 1993 dal titolo Australian Soundart Meridian, incentrata esclusivamente su sound artist australiani.