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A UTONOMIA PRIVATA E GIUSTIZIA DELLO SCAMBIO AL TEMPO DELLA COMPLESSITÀ

Nel documento Autonomia privata e giustizia contrattuale (pagine 148-154)

L’indagine svolta in queste pagine ha messo in luce come il diritto contrattuale vivente sia tutt’altro che immune da tentativi di superamento della tradizionale tensione dialettica tra i concetti di autonomia privata e giustizia

dello scambio, i quali sembrano costituire, soprattutto nel pensiero delle Corti,

elementi in un equilibrio ancora instabile, dai quali prendere le mosse per ridisegnare quello che è stato definito il nuovo volto del contratto, profondamente segnato dai traguardi del nuovo diritto privato economico, al quale sembra essere stato attribuito il delicato compito di sintetizzare le esigenze legate ai valori della persona con le dinamiche del mercato concorrenziale.

La direttrice etica tradotta, nei discorsi dei giuristi, nel sintagma della giustizia contrattuale, non sembra, tuttavia, poter essere perseguita attraverso l’utilizzazione dei principi o delle clausole generali, quali la solidarietà o la

buona fede, come pare emergere già sulla scorta dell’analisi dei diversi formanti

legislativi, i quali, di là dalle suggestioni che potrebbero prima facie evocare, in realtà hanno mostrato, al riguardo, limiti invero insuperabili.

In presenza di comportamenti scorretti, contrari al canone della buona fede, la difficoltà risiede, infatti, nella individuazione di una regola giuridica che consenta, anche oltre quelle ipotesi settoriali per le quali è stata prevista dal legislatore, di intervenire nel contratto, per perseguire obiettivi di giustizia

sostanziale, tutte le volte che questi sembrano non potersi realizzare, proprio in

ragione del regolamento di interessi, così come espresso dalle parti.

Entra in gioco, quindi, il tema dell’autonomia privata, come principio sistematico del diritto dei contratti, e dei suoi limiti, tra i quali occorrerebbe

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individuare quello che consenta di realizzare, in termini generali, in presenza di

abusi perpetrati da una delle parti in danno dell’altra, forieri di regolamenti iniqui o squilibrati, una conformazione del contenuto dell’accordo, che

permetta la sua riconduzione ad equità, nonché la forma modale, tra quelle possibili, tramite la quale pervenire a tale risultato, come, ad esempio, la nullità parziale di protezione del diritto europeo dei contatti.

Occorrerebbe, in sostanza, non solo individuare una regola che consenta al giudice, come si è detto, in generale, di poter intervenire sul regolamento che si assuma ingiusto, ma anche un parametro, cioè, un criterio sul quale misurare tale ingiustizia, e di stabilire, tra le diverse possibili forme di intervento, il rimedio più appropriato, in funzione di riequilibrio.

E, si badi bene, non sarebbe sufficiente, al riguardo, il richiamo ad un principio generale espresso, come la solidarietà, o inespresso, come la

proporzionalità, i quali certamente esercitano un fondamentale

condizionamento sulla interpretazione degli istituti del diritto contrattuale,

contribuendo a chiarirne l’orizzonte assiologico, e ad individuare, tra quelli possibili, il significato sistematicamente più coerente, dal punto di vista dei valori dell’ordinamento, sciogliendone gli eventuali nodi in sede applicativa.

Come si è avuto modo di vedere, le diverse ipotesi normative, nelle quali si è voluto ravvisare un siffatto principio generale di solidarietà o di

proporzionalità hanno, a ben vedere, un significato diverso da quello che si è

ritenuto di potere ricavare, risultando la loro portata legata, piuttosto, al concorso di altri presupposti, di volta in volta puntualmente previsti dal legislatore, che escludono una rilevanza autonoma, ex se, dell’equilibrio delle prestazioni, laddove, cioè, non ricorrano altri elementi di concretizzazione della norma, sia sul piano della fattispecie, sia sul piano del dover essere giuridico, che ne delimitano la portata operativa.

Proprio il riferimento alle figure presenti nella legislazione post codice lascia emergere, in realtà, la loro valenza settoriale, legata ad altri elementi in

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grado di intervenire sul perimetro della fattispecie e, di conseguenza, sui suoi effetti, come l’approfittamento, o una certa ben definita sproporzione sul piano oggettivo, che non consentono di estrarre quel principio, del quale pure possono essere espressione, e di generalizzarlo, facendone applicazione anche al di fuori delle fattispecie qualificate, senza incorrere in un’operazione errata, innanzitutto, sul piano dogmatico, e certamente pericolosa su quello della politica del diritto, per le conseguenze che potrebbero riverberarsi proprio sul piano applicativo.

Nel tentativo di ristabilire, nel variegato quadro delle decisioni, un certo ordine dogmatico, il percorso ermeneutico che si è immaginato di poter seguire, prende le mosse, come di consueto, dall’interesse che si intende realizzare (id

est: l’equilibrio del regolamento), puntando, secondo una prospettiva (quella

della Drittwirkung), direttamente sulla solidarietà costituzionale, o, secondo una diversa alternativa, per il tramite dalla buona fede integrativa, la quale, «illuminata» dalla solidarietà, consentirebbe al giudice di perfezionare, sul piano degli interessi che si intendono realizzare, la regola causale.

Mentre, nel primo caso, il processo di integrazione della regola giuridica si realizzerebbe, dunque, sul piano del principio costituzionale della solidarietà, nel secondo, questo risultato, cioè la individuazione della fattispecie causale, opererebbe sul piano della clausola generale della buona fede, comunque, in entrambe le ipotesi, ad un livello di generalità e astrattezza tale da non risentire di quegli orientamenti che, solo sul piano degli interessi in concreto, sarebbe possibile cogliere.

In realtà, nella progressiva tematizzazione della giustizia contrattuale, un ruolo centrale è stato assegnato alla buona fede, attribuendole il ruolo di fonte di integrazione del contenuto dell’accordo, alla stregua degli artt. 1175 e 1375 c.c., confidando sulla possibilità che, assunta come clausola generale, per il suo

medium, potesse operarsi un rinvio ad un criterio extralegale di giustizia, in

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secondo l’ufficio che è proprio di tali norme, alle quali è riconosciuto un compito fondamentale di raccordo tra il sistema legale e la realtà sociale.

Del resto, i principi generali dell’ordinamento condividono, con le cosiddette grandi clausole generali, la medesima genesi induttiva, procedendo dalla stessa realtà sociale dell’ordinamento, costituita da un certo sistema di interessi socialmente condiviso, distinguendosi, solo dal punto di vista formale, in ragione della diversa scaturigine, costituita dalle leggi, piuttosto che dalla

prassi sociale, con la conseguenza che, entrambe, sono il risultato di una scelta

di politica del diritto che, sull’altare di valori etici connotati da una particolare carica assiologica, rinunciano a quella garanzia di certezza che è propria delle norme di fattispecie.

Rispetto alla rigida struttura ipotetico-condizionale delle norme di

fattispecie, le clausole generali sono caratterizzate, infatti, da una più elevata carica assiologica, ma da una correlativa più bassa definizione deontica

lasciando uno spazio nel quale interviene l’attività giudiziale, alla quale è, dunque, affidata la concretizzazione della regola411.

Il perseguimento della certezza del diritto è, certamente, meglio garantito dalla presenza della ordinaria struttura condizionale della norma di fattispecie, l’unica in grado di entrare, automaticamente, in applicazione, al verificarsi della situazione d’interesse alla cui tutela è predisposta, ma il ricorso ai principi

generali si giustifica in ragione dei valori giuridici tendenzialmente incondizionati che essi esprimono, e ai quali non sarebbe affatto estranea

l’esigenza di giustizia, anche nel contratto412.

411 Sulla dogmatica della «mediazione tra i principi e le norme», cfr. A.FALZEA, Dogmatica

giuridica e diritto civile, in Ricerche di teoria generale, I, cit, 223 ss.. ; ID., I principi generali, cit., 347: «... poiché il grado elevato di indeterminatezza dei princìpi generali li fa gravitare sul dover-essere della situazione auspicata piuttosto che sul dover-fare dell’azione realizzatrice, essi esigono la integrazione di eventi o di interventi determinativi, e tra questi assume una posizione eminente la produzione della norma ordinaria e soprattutto della norma legislativa; la certezza del diritto è meglio garantita se le norme ordinarie sono fissate ed enunciate in anticipo rispetto alle iniziative dei consociati anziché dopo il fatto che ne provoca la fissazione e l’enunciazione».

412 Sul rapporto tra norme e principiA.FALZEA, I principi generali del diritto, cit., 335 ss.,

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Ma il limite problematico dei principi generali, che riguarda, com’è evidente, il momento fondamentale della attuazione del diritto (che attiene alla sua stessa positività) è, dunque, rappresentato dalla necessità che, tali regole (la cui precettività non è in discussione), si dimensionino in quella posizione

intermedia della generalità (tra fatti e valori), che è propria delle norme ordinarie (o di fattispecie), le sole in grado di fissare, con la necessaria

precisione, la regula iuris: dimensionamento che, come si è detto, può essere realizzato anche attraverso le clausole generali, come la buona fede, che ai

principi possono, dunque, aprire la via per la loro attuazione, individuando, tra

quelli possibili e consentiti entro l’orizzonte assiologico, il loro migliore modello realizzativo.

Tuttavia, è evidente che tale processo di concretizzazione della regola giuridica non potrebbe essere seguito nel caso in cui si tratti di individuare limiti conformativi alla autonomia dei privati, finendo, a ben vedere, per affidare al giudice, in funzione della realizzazione di una equità contrattuale in senso

sostanziale, la individuazione, non solo della fattispecie in grado di reagire a

contatto con quell’interesse e, dunque dei suoi elementi costitutivi, ma anche degli effetti ai quali assegnare, di volta in volta, il compito di realizzarlo, che spetta al legislatore.

Non si tratta di un approccio nichilista, insensibile ai temi della giustizia o del principio personalista del nostro ordinamento, che non sono in discussione, ma di riportare la buona fede, e, dunque, i principi dei quali la stessa può certamente farsi carico, a quel ruolo che deve svolgere, secondo il suo ufficio e, cioè, di assecondare, nell’interpretazione delle regole contrattuali espresse dalle parti, quel significato che, tra quelli possibili entro l’orizzonte assiologico segnato dall’assetto di interessi divisato, appaia più coerente e compatibile con quei valori.

Proprio dall’esame delle figure presenti nella neocodificazione e nella normativa di settore emerge, certamente, una maggiore sensibilità per i temi

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della giustizia contrattuale, ma, a ben vedere, solo nel concorso di altri elementi (ovvero di altre situazioni di contesto), che partecipano, secondo il disegno del legislatore, ad una precisa perimetrazione, sia sul piano della fattispecie, che su quello dei suoi effetti, diversamente rischiando di sacrificare, sull’altare di un valore astratto dell’ordinamento, qual è certamente la giustizia, la libertà dei privati, seppure nel rispetto dei limiti previsti, che verrebbe così compromessa proprio da quel pericoloso decisionismo giudiziale, e con essa la stessa sicurezza delle contrattazioni, nelle quali si traduce l’essenza dell’autonomia privata.

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Nel documento Autonomia privata e giustizia contrattuale (pagine 148-154)