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CAPITOLO II: Il contributo sociologico al dibattito

2.4 Varie declinazioni di flessibilità

Malgrado i tentativi di istituzioni ed enti sovrannazionali (Ocse, 1995) di chiarire cosa si intenda per flessibilità, si può affermare che tale concetto assuma significati diversi – con una radice ovviamente comune – in base al paese di riferimento ed al contesto, e se sia esso macroecnomico o microeconomico (Maruani, Reynaud, Romani, 1990). Uno dei più concreti tentativi di specificazione arriva da Wood (1989) che fa riferimento alla flessibilità funzionale – aspetto questo legato ai metodi di lavoro all’interno dell’azienda e più in generale associabile alle HPWP – ed alla flessibilità numerica, legata alla tipologia contrattuale ed alla disponibilità del lavoratore. Sotto quest’ultimo aspetto l’analisi economica si è concentrata soprattutto su quelli che sono gli effetti dei cosiddetti regimi di protezione dell’impiego (RPI), strumenti che variano da paese a paese per preservare il lavoratore in caso di necessità, e sul loro impatto su quattro macro aree: stock e flusso di occupazione e disoccupazione; tipologie lavorative e produttività

(Tiecco, 2009). I risultati più significativi sono stati quelli ottenuti da Lazear (1990) e Schivardi (1999) relativi all’impatto nullo nel lungo periodo degli RPI sul tasso medio di disoccupazione e sulla loro funzione di tutela nei confronti degli insiders rispetto agli outsiders, nella definizione classica di Lindbeck e Snower (1988).

La flessibilità funzionale è invece quella che si basa sull’utilizzo di pratiche volte ad amplificare l’autonomia, il coinvolgimento e le responsabilità del dipendente, favorendo anche l’apprendimento di nuove skills, ed al contempo ridurre le gerarchie, avere produzioni più snelle e veloci e migliorare la qualità dei prodotti anche attraverso una costante attività di monitoraggio. Molte di queste attività sono già state esposte nel primo capitolo: Smith (1997) a seguito di un’analisi della letteratura relativa all’esperienza nordamericana offre un’ulteriore suddivisione in due macro categorie (riorganizzazione del lavoro e cambiamenti relazionali) composte rispettivamente da 3 e 2 sottocategorie. Per quanto riguarda la riorganizzazione strutturale del lavoro, le pratiche afferiscono a tecnologia (che aumenta la richiesta di personale specializzato), espansione e rotazione dei compiti (da una minore settorializzazione dovrebbero aumentare responsabilità e set di competenze a disposizione) e sistemi di produzione Just in Time (che abbassa il numero di lavoratori coinvolti nella produzione ma aumenta le richieste in termini di pressioni ed velocità di risposta). Quality Circles e gruppi di lavoro sono invece le sottocategorizzazioni dei cambiamenti relazionali. Le ricerche di Smith hanno portato a dividere i lavoratori in due gruppi di riferimento: i core workers (che potremmo definire i lavoratori fissi) ed i contingent workers (quelli saltuari) la cui presenza è subordinata alle necessità aziendali di espansione della forza lavoro. Differenze tra i due gruppi, stando all’analisi di Smith, sono riscontrabili a livello di composizione e competenze. L’utilizzo di contingent workers garantisce all’azienda la possibilità di tenere basso il costo del lavoro ma il loro utilizzo indiscriminato ha finito con il creare una netta separazione con i core workers – coinvolti, preparati, ricettivi. E’ aumentato il numero di lavoratori costretti a part time involontari ed anche la composizione di razza e di genere presenta differenze tra i due gruppi. Il rischio per Smith è dunque quello di una segmentazione marcata tra lavoratori. Dalle stesse differenziazioni ed alle stesse conclusioni giunge anche Luciano Gallino (2008). La flessibilità organizzativa risponde alle esigenze delle aziende di avere dei sistemi di produzione Just In Time e di occupare forza lavoro solo nel momento in cui questa è effettivamente necessaria, variando di

conseguenza la dotazione di salariati fissi. La disponibilità di nuove forme contrattuali, all’interno delle quali si possono annidare forme di subordinazione più che di autonomia vera e propria (come le partite IVA), permette alle imprese di disporre del capitale umano a piacimento, generando dei ritorni pericolosi e nocivi per il capitale umano stesso, esposto alle fluttuazioni del mercato e di conseguenza – privo di un salario stabile – incapace di creare progetti di lungo periodo. La declinazione in termini positivi di flessibilità, capace di rispondere alle esigenze di creatività, autonomia, indipendenza e mobilità dei lavoratori, si scontra quindi con una pericolosa frammentazione del mercato del lavoro. Per Bourdieu (1998) quella dell’organizzazione del lavoro non è che una “nuova” trappola del management per affermare il proprio controllo sui dipendenti. Il lavoro, o meglio la perdita di quest’ultimo, potrebbe provocare oltre che una perdita di salario, una mutilazione, “una perdita delle ragioni d’essere associate al lavoro ed al mondo del lavoro” (pag. 212). Pertanto, chi controlla il lavoro può utilizzare queste “nuove forme di sfruttamento” (ibidem) per mantenere intatta una forma di costrizione che si muove secondo il principio dei “Ceppi di Socrate”: alternare il rafforzamento e allentamento della costrizione in modo tale da fare apparire il ritorno allo stato precedente quasi come un privilegio, il male minore come un bene. Con questi strumenti il management moderno lascia ai lavoratori libertà di organizzare il proprio lavoro ma li distrae al contempo dal salario. Le pratiche di management qualitativo possono essere viste, secondo Bourdieu, come un effetto per avvalersi in modo metodico e sistematico di tutte le possibilità che l’ambiguità del lavoro offre. Richard Sennett a tal proposito parla di nuove strutture di potere non centralizzate ma concentrate, che hanno sostituito il vecchio sistema gerarchico/burocratico. La maggiore libertà sulle piccole mansioni quotidiane ha come effetto opposto il dover rispettare rigidissimi criteri non più di orario ma di efficienza che lasciano ancora meno spazio rispetto al vecchio tempo di lavoro. Controllo e coercizione sono dati anche dalla necessità di dipendere dalla continua approvazione dei superiori. Piccoli incentivi a breve termine regalano l’illusione di un’attività redditizia che però si scontra con l’impossibilità di programamare nel medio/lungo periodo, innestando meccanismi che possono portare a sensazioni di fallimento senza però riuscirsi a dare una spiegazione o “narrazione” del perché dei propri insuccessi. Anche le istituzioni sono indebolite dalla narrazione della flessibilità: “ispirano scarsa lealtà, indeboliscono la partecipazione e la trasmissione degli ordini,

producono bassi livelli di fiducia informale ed alti livelli di ansia ed inutilità” (pag. 135). Un’altra critica che arriva da Sennett è relativa agli investimenti che le aziende faranno – a seguito delle nuove organizzazioni del lavoro e dell’industria – sul capitale umano. Quest’ultimo, se non è rapido e flessibile, rischia di essere tagliato fuori dal mercato. La conseguenza è una sempre maggiore perdita di “peso” del lavoratore all’interno dell’azienda, preoccupata solo di raggiungere alti standard di innovazione e performance.

2.5 Conclusioni al capitolo

Con le specificazioni offerte nei paragrafi precedenti può considerarsi conclusa la parte di rassegna di questa tesi. L’obiettivo era quello di offrire, in due capitoli, definizioni ed approfondimenti che facessero capo a tre macro aree di riferimento: disciplina economica, disciplina sociologica, pratiche di business. Il contributo sociologico si è rivelato centrale nella precisazione di alcuni concetti chiave quali flessibilità, azione collettiva e post fordismo, sui quali la sociologia si interrogava da tempo. L’approccio è stato di tipo inclusivo, ovvero sono stati messi in risalto i punti di forza e di debolezza di ogni scuola di pensiero, evidenziandone le complementarità (laddove presenti) piuttosto che le differenze.

Le premesse qui esposte non vogliono avere nessun valore comparativo tra discipline, né tantomeno privilegiare le posizioni di una scienza rispetto ad un'altra. Sono però ritenute centrali per una discussione che sia in grado di cogliere tutte le sfumature dell’argomento di ricerca – la relazione tra performance d’impresa e nuove forme di organizzazione del lavoro – non dando per scontata nessuna interpretazione. In altri termini, l’identificazione di (parte di) una solida teoria di riferimento è necessaria affinché, una volta arrivati all’analisi dei dati, a guidarne la selezione, la modellizzazione e l'esposizione siano le intuizioni di ricerca stesse – teoricamente orientate – più che le variabili disponibili. La prospettiva sociologica è qui catturata quindi nel senso di Goldthorpe ma anche nel senso esplicato da Pierre Bourdieu nelle sue Meditazioni Pascaliane: “Il sociologo ha la

prerogativa – e non si tratta certo di un pregio – di essere colui al quale spetta il compito di dire le cose del mondo sociale, e di dirle, per quanto possibile, come effettivamente sono – nulla di anormale in questo, o di più che banale. Ciò che rende la sua situazione

paradossale, a volte impossibile, è il fatto di essere circondato da persone che o ignorano attivamente il mondo sociale e non ne parlano – e sarò l’ultimo a rimproverare agli artisti, agli scrittori, agli uomini di scienza, di dedicarsi pienamente alla loro attività – o se ne occupano e ne parlano, a volte molto, ma senza saperne granchè”. Una certa

aderenza alle indicazioni della pratica, del senso comune e della ricerca, l’individuazione di alcune peculiarità del territorio, nonché le critiche ai modelli ed alle formulazioni classiche – intese sia come quelle economiche che come quelle puramente descrittive relative a flessibilità ed organizzazione – si rivela più che un’espediente una necessità di ricerca, al fine di avere un quadro che, per quanto ancorato alla teoria, possa risultare quantomeno attendibile nell’analisi del soggetto d’indagine. Il primo punto innovativo di questa tesi è seguire questo approccio pluridisciplinare, che in realtà è un rimarcare in maniera netta ed esplicita alcuni concetti che, con il passare del tempo ed il continuo mutare della realtà sociale, stanno affiorando anche all’interno dell’economia più classica e formale. In accordo con alcuni autori– tra i quali l’economista Solow ed il sociologo Goldthorpe, non c’è nessuna intenzione di sindacare quella che è, alla riprova dei fatti, una delle più grandi conquiste ottenute dalle scienze sociali: la formulazione di una teoria dell’equilibrio generale tra domanda ed offerta. Si vuole però sottolineare il dinamico e mutevole rapporto di scambio tra discipline e la capacità ricettiva di elementi che, nel corso degli anni, sono stati a volte oggetto di studio di una e dell’altra materia. Un approccio sinergico e pluridisciplinare è quello che vuole caratterizzare questa tesi, e nelle poche pagine di rassegna sin qui esposte sono stati fatti presenti alcuni dei punti di contatto più evidenti. Al netto di ciò sono state individuate le linee guida per l’individuazione di due gruppi di variabili relativi al contesto aziendale ed alla composizione della forza lavoro che, uniti alle variabili di gestione del personale, permettono di passare ad una modellizzazione che poggi su fondamenta solide. Per quel che riguarda la forza lavoro, la distinzione in contingent workers e core workers risulta centrale nella misura in cui ci si attende che i lavoratori di tipo contingente, ovvero le “vittime” delle nuove richieste di flessibilità, siano meno esposti a pratiche di gestione del personale ad alta prestazione e che conseguentemente queste ultime trovino maggiore aderenza in contesti aziendali in cui è forte la presenza di lavoratori di tipo “core”, motivati, autonomi e presenti indipendentemente dalle richieste produttive. Il fenomeno del downsizing, evidenziato tanto da Gallino quanto da Sennet, farebbe propendere per

una diffusione delle pratiche aziendali anche all’interno di realtà industriali più piccole. Allo stesso modo stabilimenti periferici dovrebbero essere caratterizzati da un maggiore grado di autonomia e di velocità di risposta in quanto costantemente stimolati dalla direzione centrale.

Capitolo III

HPWP e distribuzione europea 3.1 Introduzione

Quale che sia l’orientamento teorico o la prospettiva metodologica utilizzata per guardare alla diffusione ed alla distribuzione dei sistemi di pratiche di gestione del lavoro, le caratteristiche tratteggiate continuano a muoversi su confini non sempre perfettamente delineati. La ragione di fondo è da ricercare in un – non ancora – strutturato “decalogo” di che cosa può essere chiamato “pratica” e cosa no. La velocità ed i continui cambiamenti a cui sono sottoposte le aziende ed il loro tessuto industriale di riferimento può portare ad assorbire determinate pratiche a scapito di altre, così come le differenze legislative tra i paesi possono far sì che le aziende preferiscano alcuni set ad altri in virtù di agevolazioni o richieste restrittive da parte del governo. In questo capitolo si cercherà di spostare il focus non tanto sul contesto quanto sulle pratiche stesse quali aspetto dirimente della struttura aziendale. Per farlo ci si poggerà sulle basi metodologiche derivate dalle ultime direttive dell’Unione Europea, con le relative classificazioni, prima di procedere ad un’analisi di regressione in cui la variabile dipendente, costruita a priori, è data dall’insieme di tutte le pratiche riscontrabili all’interno del database a disposizione. In questa maniera si è creata una variabile dipendente cardinale che cerca di rappresentare un tipo ideale d’azienda in cui tutte le pratiche di gestione del lavoro ad alta prestazione vengono utilizzate simultaneamente e sono diffuse ad una larga parte della popolazione lavorativa.

Tale variabile è stata poi regredita su una serie di variabili esplicative dell’azienda, afferibili a struttura, dimensione, composizione della forza lavoro ed attività.

Il capitolo è così articolato: nel paragrafo 3.2 vengono esposte le definizioni ed i concetti alla base dell’analisi secondo quelle che sono le definizioni dell’Unione Europea e le iniziative messe in campo in tema di politiche di lavoro e crescita del tessuto industriale, con particolare riferimento ad “Europa 2020”.

Il paragrafo 3.3 presenta il database utilizzato per l’analisi. Si tratta della terza survey europea sulle aziende, realizzata nel 2013 e divisa in due sezioni: la prima rivolta esclusivamente al rappresentante dei lavoratori e la seconda al manager responsabile dello stabilimento o dell’ HR nel caso fosse presente. Per questo capitolo è stata utilizzata la

seconda survey, composta da oltre 27000 osservazioni su un totale di 32 paesi, Italia compresa. Sempre in questo paragrafo vengono identificate le variabili rappresentative di adozione di pratiche HR con le relative statistiche descrittive. Tali pratiche sono state poi agganciate a dei “sistemi” di pratiche di riferimento per un totale di 6 macro-categorie di riferimento così nominate: formazione, performance pay, comunicazione e coinvolgimento, teamworking, qualità, autonomia.

Il paragrafo 3.4 introduce alle variabili che compongono il modello di regressione lineare multipla. Nei due sottoparagrafi vengono presentate la variabile dipendente costruita – chiamata DICOHPWP (dichotomized high performance work pratices) con le relative caratteristiche e le variabili esplicative. I risultati attesi prevedono una maggiore presenza/correlazione di DICOHPWP in aziende con dipendenti giovani, di cui molti laureati ed una buona dotazione interna di firm specific human capital.

Nel paragrafo 3.5 si procede con la regressione, i test di significatività e la presentazione delle varie tabelle. I check di robustezza sono esposti nel paragrafo 3.5.a; I commenti e le conclusioni sono affidate al paragrafo 3.6. Questi ultimi tre paragrafi hanno subito una evoluzione a seguito di alcune notazioni sull’effettiva solidità del modello presentato. Per tale ragione, in appendice si cerca di rafforzare ulteriormente quanto precedentemente esposto attraverso un controllo/rimodellizzazione di tipo non parametrico con l’applicazione della tecnica del bootstrapping, di particolare utilità anche in relazione ai grafici di distribuzione ottenuti.

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