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Vedere lunghezze d’onda e quadri di Monet

Si è detto di come una delle ipotesi dei ricercatori sia quella di con- siderare il cervello come una sorta di meccanismo di bilanciamento ri- spetto alle variazioni della realtà esterna; questa ipotesi è particolar- mente efficace proprio qualora venga applicata ai colori e alle altera- zioni delle lunghezze d’onda della luce. In questo senso noi non vedia- mo mai lunghezze d’onda, ma più propriamente gli effetti di quella operazione di stabilizzazione del cervello che, tecnicamente, prende il nome di costanza cromatica. Supponiamo ora, servendoci del solito esperimento mentale, di vedere non così come vediamo, ma di vede- re proprio le lunghezze d’onda riflesse da una superficie osservata in un unico punto, alla von Helmholtz, appunto. Normalmente questo non accade ma, al solito, un indizio ragionevole di quanto dovremmo aspettarci se effettivamente le nostre giornate fossero cadenzate dalla visione di lunghezze d’onda in un punto ci viene da pazienti con un

visus alterato e, in un senso diverso, dai quadri di Monet.

Abbiamo già anticipato che nel cervello la composizione spettrale della luce che proviene da ogni piccola porzione del campo visivo sembra sia registrata dalle cellule selettive delle lunghezze d’onda che si trovano in V1. Tali cellule reagiscono soltanto a onde di una deter- minata lunghezza (per esempio, le onde lunghe) mentre rimangono inattive in presenza di stimolazioni diverse o di luce bianca. È estrema- mente probabile che queste cellule costituiscano il primo mattone in quel processo della formazione del colore che poi viene compiutamen- te realizzato dalle cellule presenti in V4. Va ancora notato che, salvo una variazione improvvisa della composizione spettrale, di norma non siamo assolutamente consapevoli dell’attività di queste cellule. È dav- vero complicato comprendere a pieno come funzionano realmente le cose in quest’area del nostro cervello. Tuttavia – come spesso accade – una strana patologia può fornirci qualche informazione interessante sui casi di elaborazione del colore nella corteccia. Si tratta dell’avvele- namento da monossido di carbonio. Una delle conseguenze più impor- tanti di questo tipo di avvelenamento è la cecità quasi totale che però,

piuttosto sorprendentemente, preserva in larga misura proprio la per- cezione cromatica 42.

L’avvelenamento da monossido di carbonio è una delle sindromi che sembrano indicare la specializzazione funzionale del cervello visi- vo. Zeki ipotizza che in una patologia di questo tipo la visione croma- tica verrebbe salvata in ragione di una circostanza strettamente fisio- logica: la concentrazione delle cellule selettive alla lunghezza d’onda di V1 in compartimenti altamente vascolarizzati e con intenso metaboli- smo, noti come blobs. La vascolarizzazione elevata proteggerebbe que- ste cellule dagli effetti dell’ipossemia. Il dato più interessante che è emerso dall’osservazione di questi pazienti implica un punto importan- te: la distinzione tra una condizione generale di ipovedenza e la capa- cità di discriminare abbastanza bene i colori. In un paziente in cui l’avvelenamento da monossido era stato simulato da una scossa elettri- ca ad alto voltaggio, con conseguente arresto cardiaco che aveva pri- vato il cervello dell’afflusso del sangue per un lasso di tempo abba- stanza prolungato, gli effetti furono grossomodo i medesimi: il sogget- to riusciva ad attribuire il giusto colore a una superficie solamente se questa rifletteva un eccesso di lunghezze d’onda di quel colore. La visione del colore da parte del paziente di Zeki corrispondeva in pra- tica a quella di un congegno capace di misurare le lunghezze d’onda senza essere in grado di sottrarre l’illuminante: gli mancavano in pra- tica tutti quei meccanismi di confronto che sono alla base della norma- le visione del colore. L’area del cervello attivata da un tipo di visione che non è in grado di sottrarre l’illuminante è – verosimilmente – la V1; e questo perché molte delle sue cellule si comportano alla maniera degli strumenti di misura utilizzati per determinare la quantità di luce della lunghezza d’onda riflessa dalla superficie. Nei pazienti normove- denti, che guardano una superficie qualunque, V1 è certamente attiva, ma, oltre a V1 anche un’altra area è fortemente coinvolta. Zeki identi- fica quest’area con il complesso V4 che, a sua volta, risulta costituito da almeno altre due sotto aree 43. Se questo complesso subisce danni

rilevanti il soggetto si ritrova affetto da acromatopsia oppure, nei casi in cui i danni sono minori, il suo cervello non è più in grado di met- tere in moto i meccanismi della costanza cromatica 44. Un soggetto

affetto da acromatopsia è in grado di discriminare una lunghezza d’on- da distinguendola da un’altra – per esempio, il rosso dal verde – men- tre, piuttosto sorprendentemente, non è capace di assegnare un colore a una superficie. Di nuovo, non è in grado di sottrarre l’illuminante. L’acromatopsia è notoriamente associata a una lesione sostanziale del complesso V4; quando la lesione è limitata a V4, la capacità di ricono- scere le forme viene conservata, sebbene l’area V4 contenga moltissime cellule selettive all’orientamento. Si tratta di uno dei pochi casi – non per nulla ci si trova in una condizione patologica – in cui il riconosci-

mento della forma e quello del colore non vanno di pari passo. In ge- nere, invece, pare impossibile separare la percezione del colore da quella della forma: perché si dia la possibilità di valutare un rapporto, la superficie osservata e quelle circostanti devono contenere un qual- che tipo di demarcazione – per esempio, il confine deve essere segnato da un bordo.