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Il cambiamento culturale ed economico travolge, alla fine degli anni sessanta anche la filosofia, e le consuetudini dell’antica Casa di Salute, i cui standard di domesticità non corrispondono più alle tendenze di una società in rapida evoluzione, nella quale anche la comunicazione accresce la visibilità della condizione umana e la partecipazione alle vicende da parte dell’opinione pubblica.

Il vento della contestazione, incontrando non poche resistenze, riporta sul terreno di dibattito antichi problemi, rendendo urgenti i cambiamenti di rotta da parte dell’amministrazione, annessa ormai alla gestione generale dell’ospedale civile.

167 Interlocutore mR54Mu03. 168 Note di campo del 30.12.2015.

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Figura 11 1972: La Casa di Salute sulla stampa locale. Archivio Biblioteca

Marostica. Foto S. Fanchin.

Alcuni passi della relazione preliminare del Direttivo prendono atto del disagio di chi occupa le corsie psichiatriche dovendovi soggiornare per tempi ancora molto lunghi.

L’Amministrazione dell’Ospedale Civile di Marostica, sempre intenta a maggiorare sia quantitativamente che qualitativamente i suoi edifici per dare maggiore funzionalità, maggiore confortabilità e ricettività a tutti i suoi reparti e particolarmente a quelli ove più numerosi sono i degenti ha iniziato gli studi per dare maggiori locali alla Casa Psichiatrica. L’attuale edificio […] contiene sia in pianterreno sia al primo piano ampi locali di degenza e soggiorno, ma che sono poco funzionali essendo posti su un unico asse […] L’amministrazione potrebbe costruire due ampi locali in corrispondenza dei sopracitati, da adibire a soggiorno con ampie finestre sul parco-giardino ed in felice esposizione, risolvendo così in modo perfetto il problema dei

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locali di degenza con i locali di soggiorno direttamente comunicanti […].

Il problema non è tanto la recettività che verrà comunque migliorata quanto di sistemare meglio le ricoverate in corsie meno affollate e con sale di soggiorno-refettorio già più decorose169 […].

Il nuovo Primario della Casa di Salute, nella primavera del 1972, inoltra, così, alla direzione sanitaria ed al direttore dell’Ospedale una serie di richieste:

[…] sarebbe vivo desiderio, istituire presso la Casa di Salute Psichiatrica, una sartoria sì da permettere a sei pazienti con diploma di sarta di adoprarsi e dare a tutte le degenti della Casa di Salute un vestiario diverso dall’attuale. Il quale è costituito come è noto alla S.V. da un camicione di colore e tipo uguale per tutte.

Ciò oltre a rendere l’ambiente poco accogliente è certamente oggetto di problemi per l’Ospedale, infatti detti pazienti circolando per l’Ospedale sono oggetto di attenzioni da parte di tutti…170

Figura 12: 1972, ancora sulla stampa locale. Foto S. Fanchin.

169 Archivio Biblioteca di Marostica. Riproduzione fotografica dei reperti d’archivio in possesso dell’autore. 170 Archivio Biblioteca di Marostica. Riproduzione fotografica dei reperti d’archivio in possesso dell’autore.

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A distanza di pochi mesi la direzione della Casa, di fronte al dibattito sulle condizioni dei manicomi, mette sul piatto della bilancia le nuove opportunità per chi vi soggiorna:

[…] si sono iniziate piccole attività ergoterapiche come la sartoria ed altre lavorazioni semplici, con il ricavo ad esclusivo beneficio delle interessate. Vi risparmio la lettura del menù settimanale che potrebbe essere accettato da qualunque famiglia: sia a pranzo che a cena un primo ed un secondo con possibilità di sostituzione, pane e contorno, frutta e vino, con assicurata la qualità, la genuinità e la varietà degli alimenti…sono in costruzione moderni servizi igienici…sono state pavimentate a nuovo le stanze da soggiorno addobbandole e rendendole accoglienti. Le tavole sono a quattro posti in sostituzione di panche e tavoloni. Entro il limite accettabile si tolgono grate ed inferriate a tipo carcerario, per offrire e dimostrare fiducia alle ricoverate.

Si cerca di assecondare quel senso di femminilità sempre tenace in loro, con l’istituzione di un’attrezzatissima e quasi lussuosa sala per parrucchiera e ben servita da parrucchiera stipendiata dall’ospedale. Il solito grembiule uguale per tutti che le abbruttiva è sostituito da vestiti diversi e confezionato secondo il gusto delle interessate in un piccolo laboratorio di sartoria. La dirigente di esse mi ha dichiarato: «Mi sentivo morire vestita da Ospedale, ora mi sento un’altra». Anche le scarpe vengono scelte a cura delle interessate. Si sentono ancora esseri umani e la loro soddisfazione è evidente. I buoni risultati raggiunti permettono di concedere sempre più fiducia alle ammalate, che ottengono, ovviamente entro certi limiti, il permesso ad uscire da sole per passeggiate, per fare la spesa o andare al cinematografo. Quando i familiari vengono a prenderle sono lasciate libere al sabato ed alla domenica…

Da questa salutare esperienza viene spontaneo chiedersi se sarebbe tanto opportuno che gli ammalati di mente si trovassero abbastanza vicino alle loro famiglie per restarne a contato e avere la loro collaborazione coi medici.

Di più ancora: con opportune visite a casa di Assistenti sociali e – al bisogno – di psichiatri e psicologi si potrebbero curare a domicilio

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certi malati con risultati migliori… e con un risparmio di spesa per la società171.

I nodi, ad uno ad uno, vengono al pettine e l’idea di casa che ne esce, attraverso i concetti di famiglia, mensa, uscite, abbigliamento, sembra finalmente cogliere la misura dello scarto accumulato nei decenni precedenti. Non spetta a chi scrive stabilire se la stalla venga chiusa quando i buoi siano ormai scappati. Importa, invece, come la corsa ai ripari si aggrappi nuovamente alla metafora domestica per ricostruire spazi più densi, legati all’emozione ed all’esperienza vissuta.

La citazione, quasi etnografica, della testimonianza di una paziente all’interno della dichiarazione di intenti, sottoposta al dibattito del Consiglio Provinciale, appare finalmente un tentativo di accogliere la filosofia dell’abitare, vista dagli occhi dell’inquilino e non attraverso la demiurgica interpretazione della dirigenza medica. Sono molti i temi sollevati in questa fase storica e di rilievo antropologico.

Il vestiario rappresenta uno degli aspetti evidentemente ancora irrisolto: le degenti, attraverso un camicione uguale per tutte, perdono il loro tratto identitario, attraverso un’omologazione che accomuna, tuttavia, solo la classe delle ammalate e le rende chiaramente distinte ma anche riconoscibili dal mondo dei sani. La diversità offende certamente la dignità del paziente:

171 Si tratta della trascrizione dell’intervento del Consigliere Provinciale B. Basso, del 4.7.1972, in risposta ad una interpellanza sulle condizioni generali delle Casa di salute di Marostica a seguito degli articoli di denuncia pubblicati sul settimanale “Veneto 7”. Archivio Biblioteca di Marostica.

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ma soprattutto disturba anche i visitatori come un refuso, un’anomalia, una cosa “fuori luogo”: è quanto si percepisce nel concetto di “essere oggetto di attenzione”. Tornando sul concetto di eterotopia, è ciò che si intende quando si parla di spazi che «incoraggiano l’immaginazione […] favoriscono visioni “altre” del mondo» (Vallega: 2004), quand’anche quest’ultime siano permeate da un giudizio preventivamente negativo, in cui aleggiano timori, spregio, distacco. Ma si può davvero abitare un vestito o attraverso un vestito? Si può sentirsi morire a causa di un vestito?

Indubbiamente nella sensazione di “sentirsi un’altra”, riferita dalla paziente, sembrano essere inclusi il rifiuto di una reductio ad unum e la scelta di definire individualmente il proprio corpo nello spazio: un corpo diverso dagli altri presenti dentro alla casa; in un gruppo familiare, normalmente, non esiste un rigido protocollo di presenza legato all’uniforme, come può essere nelle scelte di alcuni gruppi religiosi. Uguali a tutti quelli fuori, quindi potenzialmente in grado di seguire una tendenza stilistica: «vestirsi come tutti gli altri… corrisponde alla conquista di una normalità a volte negata dalle difficili condizioni abitative, lavorative, familiari, e sociali» (Lunghi 2010: 67).

La casa sembra qui conferire in generale il diritto alla conservazione del proprio aspetto abituale, attraverso un corredo del tutto individuale che transita dal vestiario ed arriva agli accessori personali che assumono una priorità di collocazione negli spazi dell’abitazione: i vestiti divengono,

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pertanto, «territori appartenenti al sé» (Goffman 2003: 53). Beppe, l’ospite decano di Mure, conferma questo rilievo:

STEFANO: Tu ti vesti molto bene, hai un sacco di vestiti: come scegli questi vestiti, com’è un vestito bello secondo te?

BEPPE (nome di fantasia): Che sia alla moda. [Momento di ilarità comune]

S.: Quando vai a scegliere un vestito cosa guardi del vestito che ti compri?

B.: Che sia all’altezza delle mie [non si capisce la parola]. S.: Ho capito.

B.: Sulla base della marca.172

E non è un caso che nei cambiamenti di abitazione, quand’anche si tratti di una frequenza almeno teoricamente temporanea, come trattata nel contesto di questa tesi, si conferisca la massima importanza al vestiario inserito nel bagaglio. Nell’intervista ad Ottavia173, ragazza in affido temporaneo,

emerge con evidenza l’importanza di questa selezione: nel suo corredo di trasferimento gli abiti occupano il posto principale, accanto ad un peluche (destinato a rimanere definitivamente nell’abitazione temporanea), poi in subordine le foto e ad altri piccoli oggetti di minor conto.

STEFANO: C’è uno spazio che ricordi meglio in questa casa? OTTAVIA (nome di fantasia): Sì la mia camera.

S.: Me la descrivi?

172 Intervista allinterlocutore mB45Mu23 registrata in data 13.4.2016. Testo completo al capitolo 4.

173 Interlocutore fO97Ba27: intervista registrata il 15.1. 2016. Ho inteso includere una situazione diversa da quelle relative alle case che si rivolgono alla sofferenza mentale come contesto di controllo utile allo scopo di generalizzazione di alcuni temi, la cui importanza si riscontri anche al di fuori di ambienti temporanei destinati alla patologia, evitando il rischio che questi vengano derubricati a mere manifestazioni patologiche.

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O.: Beh all’inizio quando sono venuta qua c’era il letto e i mobili, poi quando ho portato qua le mie cose poi abbiamo preso la bacheca con i disegni un po’ di cose, quindi è diventata una camera colorata.

S.: Quali erano queste ‘ste cose? Inizialmente la tua valigia cosa conteneva?

O.: I vestiti

S.: I vestiti, la priorità. Perché necessariamente i vestiti?

O.: Perché penso che senza i vestiti non… cioè avevo bisogno dei vestiti, poi ovviamente non solo i vestiti. Ho portato tutto qua in una volta insomma.

[La famiglia conferma questa soluzione unica nel trasferimento dei beni: c’è brusio.]

O.: Vestiti libri. Sì…Ho portato il peluche che è ancora qua e le mie foto cioè foto delle persone.

S.: Queste foto sono uscite dalla valigia come da un vulcano oppure…?

O.: No pian piano. Quando mi girava tiravo fuori qualcosa. Però sì, quando son arrivata qua ho messo a posto subito i vestiti e dopo le foto, i disegni o le scritte.

S.: Interessante questa cosa dei vestiti. Ci rimaniamo sopra un minutino di più?

[La signora che ha accolto Ottavia, presente al colloquio, conferma che ha un armadio pieno di vestiti.]

S.: Rappresenta qualcosa di importante il vestiario? Sembra molto importante se è la prima cosa che è uscita dalla valigia.

O.: Sì perché, a parte che mi piacciono i vestiti in generale, mi piace averne tanti di vestiti anche se alla fine ho sempre le solite cose addosso però…poi se magari voglio mettermi qualcosa di…capita che un vestito lo metto pochi mesi e dopo… Sì i vestiti devo averli perché sono via…

S.: Sono rassicuranti? E’ rassicurante averne tanti? O.: Sì in un certo senso, non si sa mai che cosa succede.174

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Un corposo corredo può concorrere, dunque, ad un’idea di stabilità, per un luogo che nasce già provvisorio: la valigia, generalmente votata all’essenzialità del viaggio, si fa essa stessa armadio, contenitore di sicurezze ed identità. Nella struttura di Col Roigo Carla è una ragazza che a dispetto della giovane età ha già conosciuto diverse strutture di accoglienza. Anche per lei, ogni volta che arriva il momento di fare le valigie, l’accento cade sugli abiti da inserire, più che su altri oggetti: ricorda con nostalgia l’armadio enorme della casa di origine e nella sua stanza attuale, momentaneamente a sua intera disposizione, gli abiti ingombrano anche i letti vuoti quasi ad accentuarne la presenza175.

Inoltre nei contesti di povertà, nella più ampia accezione, sino ad ora fornita, di esclusione sociale, l’osservazione di campo mostra come si possano operare anche scelte più complesse che si orientano ad una selezione di abiti all’interno di un ampio novero di doni, dove alla discriminante estetica possono legarsi il ricordo di una antica sensazione di casa o simbolicamente l’appartenenza ad una rete familiare o sociale. Agli abiti può essere affidata la narrazione di vita che un corpo veicola, perché la povertà non diventi anche «povertà di speranza, di prospettiva» (Teti 2004: 416).

Durante l’osservazione svolta nella Comunità La Terra ho avuto modo di assistere ad un piccolo contenzioso fra l’ospite Valeriano e lo staff in

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servizio, legato all’abbigliamento. Quel giorno176il suo atteggiamento

manifestava estrema chiusura: il berretto di lana calato sugli occhi e felpa di pile, indossati nonostante la gradevole temperatura, tradivano la volontà di esprimere, anche verbalmente, le ragioni del disappunto. Ho accettato dunque di ascoltare il suo racconto, dopo aver rotto il ghiaccio chiedendogli se non fosse per caso arrabbiato con qualcuno.

L’oggetto della contesa era proprio la felpa bianca con cerniera, di foggia vagamente (anche se non troppo marcatamente come si voleva nel rimprovero) femminile. Il dettaglio di genere sarebbe potuto sfuggire a qualunque sguardo profano. Si trattava di un capo appartenente alla madre del paziente, anche lei attualmente ospite di una struttura per anziani, distante una decina di chilometri dalla comunità.

L’appunto sul taglio femminile, mosso al paziente, è stato percepito dallo stesso come un rilievo con implicazioni sul proprio orientamento sessuale ed ha scatenato una serie di reminiscenze sulle proprie prime esperienze sessuali infantili ed adolescenziali. In realtà in pochi minuti vengono a galla altri potenziali significati diversi, attribuiti da Valeriano al capo indossato: mi dice espressamente che la distanza dalla madre, che lui fa fatica ad incontrare, gli impone di “indossarla” per avvertirne il calore. Aggiunge che questo vale anche per gli altri vestiti ricevuti dalla mamma o da altri conoscenti. Nel corso del pomeriggio, quando mi mostra il suo armadio,

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appare evidente che ogni oggetto ivi contenuto sembra avere una biografia che lo precede e che lui intende perpetuare: la camicia del padre, l’altra dello zio, una maglia di un compaesano. Quei vestiti sono altrettante presenze, destinate riempire lo spazio della comunità, sublimandone forse alcuni vuoti.

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