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La pubblicazione di Invito alle immagini chiude emblematicamente una pagina della storia della cultura cinematografica italiana per aprire una nuova fase, caratterizzata dal cambio di polarità della battaglia per il cinema, che da puramente negativa e fondata sul rifiuto acquisisce una tensione progettuale positiva, articolata intorno ad un modello filmico capace di guardare alle contraddizioni della realtà italiana senza infingimenti né edulcorazioni estetiche che non siano le mediazioni culturali della tradizione letteraria veristica e del contemporaneo romanzo americano o del cinema francese del periodo del Fronte Popolare. Il nuovo obiettivo polemico diviene allora il cinema calligrafico e l’atteggiamento nei confronti di esso assume il carattere di vero e proprio criterio discriminante e identitario della “seconda ondata” della critica cinematografica, capeggiata naturalmente dalla corazzata di «Cinema».

In questo processo di differenzazione la posizione di Aristarco viene ben presto percepita come omogenea alla temperie culturale e polemica della rivista romana, tanto che, soltanto pochi mesi dopo la prefazione di ispirazione decisamente chiariniana al numero speciale di «Pattuglia», Foscanelli, nella già citata recensione ad Invito alle immagini nella quale individuava la dinamica di diversificazione innescatasi nella critica cinematografica italiana, lo collocava, come uno dei leaders della battaglia antiformalistica, accanto ad alcune delle più influenti firme di «Cinema»:

«Di quanto andiamo dicendo si veda un esempio sintomatico nella discussione sopra l’edonismo nel cinema italiano che sta nascendo appunto

di questi tempi (Lizzani, Pietrangeli, Aristarco) e che si delinea opportuna e chiaramente impostata, testimoniando della maturità dei recensori»369

È infatti soltanto a partire dal 1943, negli ultimi, tragici mesi del regime fascista, che Aristarco riuscirà, tardivamente, a colmare i limiti della prospettiva formalistica, di cui comunque aveva sempre sentito l’insufficienza, tramite l’assimilazione della proposta “neorealistica” del gruppo di «Cinema», che però fino ad allora era rimasta sostanzialmente estranea alla linea evolutiva “interna” dell’attività critica del nostro autore. Tuttavia, una volta acquisita questa nuova e più avanzata visione, Aristarco fu il vessillifero della lotta contro l’epidermico calligrafismo cinematografico e l’ipocrita disimpegno critico che culminò nello scontro su Ossessione.

Naturalmente, seppur, come crediamo di aver dimostrato, la dominante culturale che orientò il processo di formazione del pensiero di Aristarco fu senz’altro la riflessione chiariniana, gli stimoli e le proposte provenienti dal gruppo di «Cinema» cadevano su di un terreno favorevole. Non è difficile infatti rintracciare nell’opera del giovane Aristarco inclinazioni di gusto e interessi che erano la spia di un orientamento estetico e morale destinato probabilmente a rimanere allo stato potenziale se lasciato a se stesso ma che, fecondato e nutrito dai nuovi fermenti intellettuali e dai rapporti diretti con i maggiori esponenti della rivista di punta della resistenza culturale antifascista in campo cinematografico, si era rapidamente sviluppato fino a tradursi, in tempi notevolmente accelerati, in un decisivo cambio di paradigma critico- ideologico e poi, con la Resistenza, in una definitiva scelta di campo politico-sociale. Indicativa, a questo proposito, è ad esempio la linea di recursività di un termine- chiave come «realismo», o del campo lessicale legato all’area semantica ad esso affine, linea che attraversa tutta l’opera critica aristarchiana con connotazioni quasi univocamente positive. Abbiamo già visto come, fin dai suoi primissimi esordi, con

gli articoli su Duvivier370, egli abbia dimostrato una certa attenzione all’emergere di

modi stilistico-espressivi e di poetiche definibili come “realistiche”. Anche nei resoconti da Venezia il critico segnala più volte il suo apprezzamento per la riuscita estetica di brani di ispirazione realista:

«La cosa migliore del film è, a nostro avviso, la descrizione della vita dei ricoverati, piena di tetre malinconie, e dell’ambiente nel quale essi trascorrono la loro adolescenza tra odi e piccole vendette, rappresentata con un coraggio realista di cui poche cinematografie sarebbero capaci»371

«Le sequenze della pesca, della scuoiatura dei cetacei, del disastro del legno che, rimasto prigioniero tra i ghiacci, affonda, la morte e il funerale di Knut, la cena di Natale, sono tutti del più alto interesse e così perfettamente aderenti alla realtà da far sembrare il tutto un documentario, ma non un documentario arido e freddo, bensì un’opera viva e suggestiva, fatta con delicata poesia»372

«Le vicende d’amore sono sempre state - in linea di massima, alla base di ogni sua opera (a proposito di Una storia d’amore di Camerini, nda): da

Rotaie che rimane ancora il suo film più significativo – alla Romantica avventura con cui l’anno scorso passò su questo stesso schermo. Ma nella

pellicola di questa sera la storia d’amore non è più una favola, un romanzo, idillio a lieto fine; qui la favola, l’idillio si tramutano in dramma e in dramma crudo, scarno, verista»373

370 Cfr. infra, p. 185 e segg.

371 G. Aristarco, All’Olimpiade del film, in «La Voce di Mantova», 25 agosto 1939, a proposito di I

figli della luce, del regista giapponese Abe

372 G Aristarco, All’Olimpiade del film, in «La Voce di Mantova», 29 agosto 1939, recensendo il film svedese Pescatori di balene.

Si tratta di semplici affermazioni di gusto, mosse da un istinto critico educato a cogliere crocianamente le sequenze artisticamente riuscite; e tuttavia esse denotano l’accensione di un certo interesse ogni volta che l’obiettivo dilata l’angolazione sociale del suo campo visivo.

D’altra parte, anche dopo la “svolta” in direzione della politica culturale di «Cinema», Aristarco non considererà mai sufficiente la semplice presenza di un soggetto “realistico” per concedere dignità artistica al film. Così, nonostante l’orizzonte umano del film Periferia («Periferia è la miserabile storia di miserabili personaggi, di derelitti che la vita ha abbandonato nei bassifondi di una grande città») sia costituito da «personaggi – e vite – cari al neorealismo francese [è la prima volta che il termine fa la sua comparsa nelle recensioni di Aristarco, nda]» di Renoir, Duvivier, Carné, accumunandolo in ciò a film come Verso la vita, Pel di carota, Alba

tragica, ad avviso del critico il «realismo, il documento, la cruda vita dei crudi

personaggi»374 non ricevono un’adeguata elaborazione cinematografica sicché il film

rimane al di qua della linea di confine che per lui rappresenta la soglia della terra promessa di un cinema artisticamente compiuto. Il che, per inciso, è un’ulteriore dimostrazione di come, contrariamente a quanto sostenuto da una parte della critica negli anni ’70, nei «critici progettuali», come li chiamava con una sfumatura di

dispregio Giovanni Buttafava375, che avevano gettato le basi per la rivoluzione

neorealista, non venne mai meno la sensibilità per l’aspetto formale dell’analisi cinematografica; ed è altresì una smentita al convincimento ancor oggi troppo diffuso che l’unico criterio allora considerato valido a misurare la tensione innovatrice fosse

quello contenutistico376.

A partire dal gennaio 1943 le occorrenze del termine “realismo” e delle sue varianti sinonimiche e aggettivali si moltiplicano, pareggiando in pochi mesi (recensioni di Aristarco compaiono sul «Corriere padano» fino al maggio del 1944, ma si tratta

374 G. Aristarco, Periferia, in «Il Corriere padano», 12 luglio 1943.

375 Cfr. G. Buttafava, Al cinema con don Benedetto, in «L’Espresso», 15 gennaio 1984, ora ripubblicato in Id., Gli occhi del sogno, Marsilio, Bianco & Nero, Roma, 2000, p. 184.

376 Cfr. per questa problematica M. Mida Puccini, L. Quaglietti, Dai telefoni bianchi al neorealismo, op. cit., pp. 191-192.

oramai di anodini trafiletti di pochissime righe del tutto trascurabili. L’ultimo articolo di una qualche rilevanza appare il 25/26 dicembre 1943) il numero raggiunto nei quattro anni precedenti (ne abbiamo contate 6), e la loro accezione cessa di essere generica, diviene univocamente positiva e assume sempre una certa pregnanza, come nella recensione a Quattro passi tra le nuvole. Anche il sondaggio lessicale conferma dunque la nostra ipotesi di un’affermazione tardiva del modello realistico nel lavoro e nel pensiero critico aristarchiani.

Un altro prodomo della sua conversione pre-neorealistica è ravvisabile nella particolare predilezione mostrata da Aristarco verso il documentario, la cui individuazione come forma privilegiata di linguaggio cinematografico che, per i suoi minori costi produttivi, la distribuzione più limitata, le particolari condizioni realizzative, permette una maggiore libertà espressiva e si propone come immediato antecedente di un cinema realista, rappresenta, nell’ambiente della critica cinematografica più avanzata, una sorta di comune passaggio obbligato.

Anche in questo caso le istanze avanzate dalla «passione cinematografica» dei giovani del tempo, costretta a misurarsi con le rigide mutilazioni imposte dalla censura fascista ad ogni iniziativa che sfuggisse minimamente all’ortodossia e con una oramai cronica povertà ideale ed economica del mondo produttivo italiano, erano destinate a trovare sfogo quasi esclusivamente sulla carta (malgrado non mancassero sparuti ma estremamente significativi esperimenti di realizzazione pratica, come vedremo) e ad acquisire una tensione utopistica, accumunate anche in questo aspetto alla lotta per il rinnovamento del cinema tout-court che in quegli anni veniva condotta, spesso dagli stessi che spronavano ad una diversa concezione del documentario. Così, mentre in Italia dilagava l’idea documentaria incarnata dai prodotti dell’Istituto LUCE, martellanti sinfonie di attualità e propaganda, di cui quelli della INCOM rappresentavano un’estetizzazione ancora, se possibile, ideologicamente più marcata, e i residui spazi venivano dedicati a film documentari

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