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Il problema della forza e la ricerca di giustizia Pensatori in rivolta

13 VIII/6 14 III/72.

96 consuetudine costituiscono il fondamento delle leggi e dei costumi, secondo Pascal l’origine profonda del problema va rintracciato in un altro e più potente nemico della ragione.

Decaduto dallo stato di grazia iniziale di comunione con Dio, l’essere umano ha perso il diretto contatto con l’amore divino e vi ha sostituito l’amore di sé, ponendosi al centro dell’universo. È ciò che Pascal chiama altrove “l’io odioso”15. Osserva infatti: “Quale aberrazione di giudizio, per cui non c’è nessuno che non si metta al di sopra degli altri, e che non anteponga il proprio bene e la conservazione del proprio benessere e della propria vita a quella di tutti gli altri”16. L’interesse egoistico è posto da Pascal tra le facoltà nemiche che si oppongono e vincono facilmente la ragione, teorica ma ridicola guida dell’uomo che alla prova dei fatti soccombe sotto il vento di sensi più potenti. Ancora nel frammento II/44 si legge: “Il nostro proprio interesse è un altro meraviglioso strumento per accecarci piacevolmente. Non è permesso all’uomo più equo del mondo di essere giudice nella propria causa”. L’amor proprio è dunque, per Pascal, il motore delle nostre scelte, la sorgente di tutte le nostre azioni volontarie17. Tale tendenza alla concupiscenza si manifesta fin dall’inizio: “Mio, tuo. Questo cane è mio, dicevano quei poveri ragazzi – recita il frammento 3/64 inserito nella liasse Misère –. Questo è il mio posto al sole. Ecco l’inizio e la raffigurazione dell’usurpazione di tutta la terra”. Questo atteggiamento insito nella natura umana, ammonisce Pascal in un altro punto, è esattamente “l’inizio di ogni disordine, in guerra, in politica, in economia, nel corpo singolo dell’uomo”18.

La realtà stessa dimostra che si nasce dotati di una volontà ingiusta, “depravata”, cosicché l’uomo non è degno dell’amore degli altri, anzi, è addirittura ingiusto e irragionevole da parte sua desiderarlo: “Se nascessimo ragionevoli e indifferenti, e capaci di conoscere noi e gli altri, non daremmo affatto questa inclinazione alla nostra volontà. Nasciamo tuttavia con essa, nasciamo dunque ingiusti”19. Ma tale istinto connaturato di prevaricazione non può imporsi da solo sugli altri, né sottometterli e asservirli efficacemente, se non è sostenuto dalla forza. La forza è infatti lo strumento che permette a colui che se ne impossessa di signoreggiare. Essa non ha bisogno di

15 XXIV/597. “… In una parola, l’io ha due qualità. È ingiusto in sé, in quanto si fa il centro di tutto. È scomodo agli

altri in quanto vuole asservirli; poiché ogni io è nemico e vorrebbe essere il tiranno di tutti gli altri …”.

16 XXVI/748.

17 Cfr. V/97: “Ragione degli effetti. La concupiscenza e la forza sono le sorgenti di tutte le nostre azioni. La

concupiscenza origina quelle volontarie, la forza le involontarie”.

18 Serie non classificate II/421. Qui si manifesta il secondo importante riferimento culturale per il pensiero politico di

Pascal, vale a dire “la concezione agostiniana del mondo come regno del male. La natura umana, per Agostino, è profondamente corrotta. Prima del peccato, l’uomo era giusto e non desiderava dominare sul proprio simile, ma, dopo la caduta, è divenuto avido di beni, egoista ed incline alla sopraffazione” (I.ADINOLFI, Il cerchio spezzato. Linee di antropologia in Pascal e Kierkegaard, Roma, Città Nuova, 2000, p. 88. Cfr. Agostino, De civitate Dei, XIX, 15, in Opere di Sant’Agostino, V/3, Città Nuova, Roma, 1991, pp. 56-58).

97 travestimenti o di abiti, ma s’impone in modo diretto. Non a caso, osserva l’apologista, “solo i guerrieri non si camuffano in questo modo poiché effettivamente la loro parte è più sostanziale. Si impongono con la forza, gli altri con le smorfie”20. Eppure, la nudità della forza possiede una capacità di colpire l’immaginario superiore a ogni travestimento. L’imperio della forza s’impone con una potenza pari a quella della necessità, provocando, come si è visto nell’analisi dell’Iliade weiliana e di Venezia salva, uno smarrimento dell’uomo nell’irrealtà, che impedisce di vedere le cose come sono. Si legge ancora nel frammento II/44 dei Pensieri pascaliani:

Per questo i nostri re non hanno cercato simili travestimenti. Non si sono mascherati con abiti straordinari per sembrare tali. Ma si fanno accompagnare da guardie, da alabardieri. Queste scorte in armi che hanno mani e forza solo per loro, le trombe e i tamburi che marciano in testa e le legioni che le li circondano fanno tremare i più saldi. Non hanno l’abito, hanno soltanto la forza. Bisognerebbe avere una ragione ben pura per considerare come un altro uomo il sultano circondato nel suo superbo serraglio da quarantamila giannizzeri.

Tuttavia, all’interno delle dinamiche del potere, Pascal osserva che la forza va mostrata soltanto all’occorrenza. Infatti, il potere ottenuto con la forza deve essere in un secondo momento trasformato in potere di diritto, tramite il camuffamento della forza stessa. Per potersi conservare e tramandare nel tempo, esso ha bisogno a sua volta di un abito. Così, preso il potere, è il più forte21 a desiderare la pace, vale a dire una situazione più stabile che gli consenta di non compromettere il proprio governo. Tutti gli sforzi sono quindi volti alla costruzione di un apparato legislativo che nasconda la forza che vi soggiace. Da questo momento in poi la forza iniziale è oscurata da leggi che diverranno la consuetudine di un popolo. Ma si tratta ancora di un processo in cui l’immaginazione gioca un ruolo fondamentale, divenendo l’alleata principale della forza. Tale processo si trova mirabilmente sintetizzato in un frammento delle liasses non titolate, che recita:

I legami che vincolano il rispetto degli uni verso gli altri in generale sono legami di necessità; bisogna infatti che vi siano gradi diversi, perché tutti gli uomini vorrebbero dominare e non tutti lo possono ma alcuni possono farlo.

Immaginiamoci dunque di vederli cominciare a formarsi. È fuori dubbio che si batteranno fino a che la parte più forte opprima la più debole, e che alla fine ci sia un partito dominante. Ma una volta che questo è stato stabilito allora i signori che non vogliono che la guerra continui ordinano che la forza che sta nelle

20 II/44.

21 O meglio, il gruppo dei più forti, dal momento che “la maggioranza è la strada migliore poiché è palese e ha la forza

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loro mani si trasmetta come a loro piace: gli uni la rimettono all’elezione dei popoli, gli altri alla successione per nascita, ecc.

Ed è qui che l’immaginazione comincia a recitare la sua parte. Fino a qui l’ha fatto la pura forza. Ora è la forza che mediante l’immaginazione si mantiene in un certo partito, in Francia quello dei nobili, in Svizzera in quello dei popolani, ecc.

Ora queste corde che legano dunque il rispetto al tale o al talaltro in particolare sono corde d’immaginazione22.

Questo ritratto degli uomini perpetuamente in lotta fra loro, spinti da una concupiscenza da cui nessuno sembra essere immune, è in sostanza identico con la tesi di Tucidide nel V libro delle

Storie, ripresa e commentata numerose volte da Simone Weil. Come sostenuto da Montaigne,

un’analisi degli statuti politici finisce per rivelarne l’arbitrarietà, la pura casualità che si trasforma in consuetudine e fa sì che in un luogo comandino i nobili e in un altro i popolani, stabilisce una verità che muta da un versante all’altro dei Pirenei, decreta una forma di giustizia che è considerata un crimine al lato opposto del fiume23. Mediante l’immaginazione il potere si aggiudica il rispetto dei sottomessi e gli interessi di partito divengono valori. Ma sono valori fittizi, così come immaginaria, irreale, è la forma di giustizia sulla quale pretendono di poggiare. Al di sotto, ciò che li fonda è ancora la forza.

Dunque per Pascal esiste uno stato storico in cui gli uomini sono per natura portati al conflitto, data la concupiscenza e la tendenza a espandersi insite nell’io. L’ordine politico comincia quando il desiderio di dominazione si consolida e riesce a legittimarsi tramite le corde immaginarie con modi pacifici. In entrambi i casi si tratta di violenza, ma nel secondo l’usurpazione viene nascosta. Per Pascal non esiste nessun potere politico che non sia stato, almeno all’origine, ingiusto. Ora, per via di queste considerazioni Pascal è stato accusato da numerosi critici di cinismo, di amoralismo politico e di una sorta di machiavellismo di ritorno. Tuttavia, come ha ricordato Jean Mésnard, egli “sta definendo i fatti e non ciò che è giusto”24; in altri termini Pascal, con metodo scientifico, descrive la realtà com’è, non come dovrebbe essere. Oltre a ciò, va tenuta presente la

22 Serie non classificate XXXI/828.

23 Cfr. III/60 e II/51, che recita: “Perché mi uccidete a vostro vantaggio? Sono senz’armi – ma come, non abitate forse

sul lato opposto del fiume? Amico mio, se abitaste da questo lato, sarei un assassino, e sarebbe ingiusto uccidervi in questo modo. Ma poiché abitate dall’altro lato sono un valoroso e questo è giusto”.

24 J.MÉSNARD, Les Pensées de Pascal, Paris, Sedes, 1993, p. 205. Tale considerazione confuta l’accusa che già nel ‘700

Voltaire muoveva contro Pascal, schernendo “la strana rabbia di questi signori che vogliono assolutamente farci credere che siamo miserabili” (VOLTAIRE, Lettres philosophiques, XXIV). La dialettica del renversement pascaliana mostra continuamente la natura doppia dell’uomo, il suo essere misero ma anche grande, al punto tale che la sua grandezza “è così visibile che essa si ricava persino dalla sua miseria” (VI/117). La visione di Pascal non è mai unilaterale ma è volutamente complessa, dialettica, ammette la contraddizione perché la individua come cifra del reale e dell’umano, la vera chimera, a un solo tempo “gloria e rifiuto dell’universo” (VII/131).

99 dialettica degli opposti che regge l’intera opera delle Pensées. Anche una lettura sintetica com’è questa mostra come il sostanziale pessimismo pascaliano riguardo alla possibilità di una giustizia sulla terra non sia totale. Secondo il pensatore francese infatti una giustizia è possibile nel mondo e ve ne sono alcune tracce, che però spesso gli uomini non riconoscono o non riescono a seguire. Si legge per esempio in un frammento: “Tutte le buone massime sono presenti nel mondo; non si è in difetto che nell’applicarle”25. Pascal, quindi, non nega la conoscibilità di una legge morale, bensì la sua presenza nelle leggi positive degli uomini e nei loro governi. L’uomo vano è anche l’uomo grossolano, incapace di giudicare, di distinguere l’essenziale dall’inessenziale: “La giustizia e la verità sono due punte così sottili che i nostri strumenti sono troppo ottusi per raggiungerle esattamente”26. L’essere umano, che non è solo misero, ma porta in sé un germe della grandezza passata, sa che una vera giustizia politica “risiede nelle leggi naturali comuni a tutti i paesi”27; eppure nell’ambito delle cose umane non è in grado di renderla effettiva, di seguire una legge morale e di farla prevalere sulla forza. La ragione di una simile incapacità va ricondotta alla sostanziale differenza che intercorre fra la natura stessa della giustizia e quella della forza.

Secondo Pascal esistono tre ordini differenti di grandezza: l’uno secondo la carne, l’altro secondo lo spirito e l’intelligenza, l’ultimo secondo la carità. Nel composito frammento 308 appartenente alla liasse Prove di Gesù Cristo, vengono detti grandi rispetto al primo i re, i ricchi e i condottieri, rispetto al secondo gli intelletti, al terzo i santi. La distanza dei primi due ordini dalla carità è infinita, poiché essa sola è soprannaturale: “Tutti i corpi insieme e tutti gli spiriti insieme e tutte le loro produzioni non valgono il minimo moto di carità. Questo è di un ordine infinitamente più elevato”. I re e i condottieri rappresentano la forza, che si conferma grande e incontrastata regina nel mondo della carne, poiché possiede la pesantezza materica dell’ordine cui appartiene. La giustizia vera, che è la giustizia divina, è invece dell’ordine della carità; la sua infinita distanza dal mondo della carne la rende inerme nello scontro con la potenza gravitazionale della forza. Ne consegue allora che “dato che la forza non si lascia maneggiare come si vuole poiché è una qualità tangibile, mentre la giustizia è una qualità spirituale di cui si dispone come si vuole, si è messa la giustizia nelle mani della forza e in tal modo si chiama giusto ciò che è forza osservare”28. Pascal non nega l’esistenza della giustizia, ma è costretto a constatare che su un piano unicamente contingente e immanente, quale è la lotta per il potere terreno, la forza trionfa e che pertanto ciò che si chiama pace o giustizia è solo una copia fittizia della giustizia vera. Il gioco di forze che sempre

25 XXIII/540. 26 II/44. 27 III/60. 28 V/85.

100 sottende la formazione di un ordine politico è riassunto da brevi quanto incisive frasi nel frammento V/81:

Senza dubbio l’uguaglianza dei beni è giusta ma

Non potendo ottenere che per forza si debba obbedire alla giustizia si è fatto in modo che sia giusto obbedire alla forza. Non potendo fortificare la giustizia si è giustificata la forza, affinché giustizia e forza coincidessero e fosse la pace, che è il supremo bene.

Un altro importante frammento della medesima liasse Raison des effets, il 103, rappresenta efficacemente lo scontro dialettico tra forza e giustizia e mette in luce un tratto fondamentale della prima, a riprova della coesione del pensiero d’insieme che unisce e tiene, al di là dell’incompiutezza, tutti i frammenti delle Pensées. Così recita il testo:

+ Giustizia, forza.

È giusto che quel che è giusto sia accettato; è necessario che ciò che è più forte sia accettato. La giustizia senza la forza è impotente, la forza senza la giustizia è tirannica.

La giustizia senza la forza è contraddetta, poiché vi sono sempre dei malvagi. La forza senza la giustizia è messa sotto accusa. Bisogna dunque mettere insieme la giustizia e la forza, e perciò fare che ciò che è giusto sia forte o che ciò che è forte sia giusto.

La giustizia è soggetta a contestazione. La forza è riconoscibilissima e senza contestazione. Così non si è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia dicendo che questa era ingiusta, ed affermando che essa sola era giusta.

E perciò, non potendo far sì che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che ciò che è forte fosse giusto29.

La forza possiede un carattere necessitante: è inevitabile, è necessario, che nella situazione in cui l’uomo si trova, di caduta e distanza da Dio, la forza domini. In quanto qualità tangibile e materica, la forza si rivela emblema della necessità come intesa dal pensiero dualistico che da Platone la oppone diametralmente al bene. Dunque il parallelismo è presto trovato: la forza è tanto opposta alla giustizia, quanto la necessità lo è dal bene. Necessità, forza, carne appartengono al medesimo ordine, mentre giustizia, bene e carità formano un unico che è Dio. Per Pascal l’uomo

101 contiene tracce delle une e delle altre, ed è tale dualità intrinseca che lo rende un grumo di contraddizioni, tale per cui egli è a un tempo “giudice di tutte le cose, imbecille verme di terra, depositario del vero, cloaca d’incertezza e di errore, gloria e rifiuto dell’universo”30, infinitamente grande e infinitamente piccolo, lontano da entrambi gli estremi, capace di tutto e di niente.

A fronte di un simile scenario, come può l’uomo conoscere ciò che è giusto? Una comprensione puramente razionale è impossibile, data la facile sottomissione della ragione alle passioni e alle illusioni. Ammonisce Pascal: “Invano, o uomini, cercate in voi stessi i rimedi alle vostre miserie. Tutti i vostri lumi possono giungere a conoscere che non è affatto in voi stessi che troverete né la verità né il bene. I filosofi ve lo hanno promesso e non hanno potuto farlo”. I frammenti contenuti nelle liasses Vanité e Misère non fanno che ridicolizzare la ragione come strumento di conoscenza certa, eppure, con tipico rovesciamento pascaliano, poco più avanti l’essenza della grandeur dell’uomo viene riposta proprio nel pensiero31. Tuttavia non è nemmeno a questa facoltà che l’uomo deve fare appello, bensì al coeur, l’unico organo di conoscenza immediata e intuitiva, che sa e sente, e dirige così la ragione. “Conosciamo la verità non soltanto grazie alla ragione ma grazie al cuore”32, afferma Pascal, riferendosi alla conoscenza di quei principi che non si possono provare mediante ragione33. È la ragione del cuore a rivelare all’uomo in ascolto l’ingiustizia dell’amore che egli nutre per sé:

Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce; lo sa in mille cose.

Dico che il cuore ama l’essere universale naturalmente, e naturalmente se stesso, a seconda che vi si consacri, e si indurisce contro l’uno o l’altro, a sua scelta. Avete respinto l’uno e conservato l’altro; è forse per ragione che amate voi stessi?34

Soltanto un corretto orientamento del cuore, una conversione interiore che compete al singolo, costituisce il presupposto per la realizzazione di una vera giustizia. Quest’ultima, si è visto, è per Pascal una qualità spirituale, che non può essere maneggiata dalla forza, che è fisica, ma può

30 V/131.

31 “Giunco pensante. Non è affatto dallo spazio che debbo ricercare la mia dignità, ma dalla regolatezza del mio

pensiero. Non avrei affatto vantaggi possedendo delle terre. Mediante lo spazio l’universo mi comprende e mi inghiotte come un punto: mediante il pensiero lo comprendo”. VI/113. “La grandezza dell’uomo è grande in ciò che egli si conosce miserabile; un albero non si conosce miserabile. È dunque essere miserabile il conoscer[si] miserabile, ma è esser grande il conoscere che si è miserabile”. VI/114.

32 VI/110.

33 “L'ultimo passo della ragione consiste nel riconoscere che ci sono un'infinità di cose che la superano”. 34 Serie non classificate II/423.

102 essere ricevuta dal coeur, che rappresenta “un punto di trascendenza nella creaturalità dell’uomo”35. Il compito dell’apologista consiste allora nello spingere il lettore libertino delle Pensées a un’autentica conversione, mostrandogli come sia ragionevole sottomettere la ragione alla fede, dal momento che “l’uomo senza la fede non può conoscere il vero bene, né la giustizia”36. Non si tratta però di una resa irrazionalistica alla fede. Pascal non misconosce la capacità ordinatrice e persuasiva della ragione, anzi, tutta l’argomentazione del “pari” si avvale dei “lumi naturali”. È un ragionamento disinteressato e onesto che indurrebbe anche il libertino ad ammettere la convenienza di scommettere sull’esistenza di Dio. Ed è ancora tramite uno sforzo cosciente di volontà che il singolo si può predisporre alla sua discesa, in attesa della grazia: “Poiché la ragione vi porta a questo e tuttavia non lo potete – si legge nel celebre frammento del “pari” –, adoperatevi dunque non a convincervi con l’aumento delle prove di Dio ma con la dominazione delle vostre passioni. Volete andare alla fede e non ne conoscete la strada. Volete guarirvi dall’infedeltà e ne chiedete i rimedi, imparate da quelli, ecc…che sono stati legati come voi e che scommettono ora tutto il loro bene. […]. Seguite il modo con il quale hanno cominciato. È col fare come se credessero, prendendo l’acqua benedetta, facendo dire delle messe, ecc.”37. L’uomo senza fede che decide di convertirsi deve quindi “fare come se credesse” o, nel linguaggio di Pascal, inclinare “la Macchina”38, vale a dire cercare mediante la ragione e obbedire ai precetti della legge di Dio come fa il certosino obbedendo liberamente al suo superiore39. Solo l’obbedienza a Dio, per Pascal, rende liberi, poiché solo un corretto orientamento del coeur e della volontà costituisce la condizione in cui la fede possa germogliare, portando con sé la carità, che è la vera giustizia.

Il compito dell’uomo è dunque stabilire un contatto con la trascendenza, benché ciò non dipenda interamente da lui, dal momento che non gli è dato di conoscere direttamente Dio, perché è un Dio nascosto40. Se l’uomo intraprende un’ascesi durissima per affrancarsi da sé, come il certosino, potrà liberarsi dell’io ingombrante e scoprirsi parte di un corpo di membra pensanti41. Questa è la formula della giustizia suprema realizzabile in terra secondo Pascal: una repubblica

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