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La virtù della povertà

«Se apparteniamo a Cristo», dice don Giussani, se Cristo è presente nella vita, se Cristo è immanente alla vita, allora noi, come Zaccheo, «non apparteniamo alle cose che abbiamo», perché c’è qualcosa d’altro, di più grande, che prevale: questo è ciò che si chiama povertà. «Perché la ricchez-za è l’attaccamento a sé, alla propria misura, alla propria immagine. [...]

La povertà si radica nella coscienza che io sono non in quanto ho questo o quello.» Don Giussani ci avverte, senza fare sconti a nessuno: «Guardate che la frase: “La nostra consistenza noi la identifichiamo in quello che pos-sediamo” - che è la frase che definisce tutti gli uomini di questo mondo - è una terribile possibilità anche per noi».125 Basta che Cristo cominci a di-ventare un fatto del passato, basta che Cristo non determini più il presente, basta che Cristo non prevalga e non sia la cosa più interessante del vivere, che subito cominciamo a riempire la vita di altre cose.

E allora che cosa succede? Riponiamo la speranza della nostra felicità nel possesso di questo o di quello. La povertà è invece «non porre la

spe-123 Fil 3,7-9.

124 Francesco, Discorso al movimento di Comunione e Liberazione, 7 marzo 2015.

125 ASAEMD, Registrazioni audiovisive, OR.AUDIO/1030, Ritiro di Quaresima. Lezione del po-meriggio del 19 febbraio 1983; trascrizione della registrazione.

ranza della felicità in un oggetto fissato da noi. Sfido uno di voi ad aver già sentito questa definizione di povertà, che è profondamente contraddittoria a tutte le immagini di povertà che vi siete fatti. Mentre la povertà è una virtù che nasce [attenzione ai nessi tra le cose!] dall’ontologia profonda dell’uomo [cioè dal cambiamento radicale che Cristo introduce nella vita dell’uomo]: il suo essere una cosa sola con Cristo, essere alla presenza di Cristo».126 È questo che rende possibile la povertà.

Per rendere facile la nostra comprensione, immedesimandosi come suo solito con i racconti del Vangelo, don Giussani immagina questa situazione:

«Se foste entrati nella casa in quelle due ore o tre in cui Giovanni e Andrea sono stati là e aveste detto: “Aspetta un momento, maestro, sospendi! Gio-vanni e Andrea: volete qualche altra cosa? La vostra felicità, la vostra gioia, la vostra sicurezza, la vostra luce è in qualche altra cosa? Volete qualche altra cosa?”, vi avrebbero buttato fuori come quando uno sta contemplando un bel quadro e un altro cretino gli va davanti: lo prende e lo tira via forzo-samente! Se è presente, la nostra speranza non può essere che poggiata su questa presenza, non su una cosa che vogliamo noi».127

La povertà, dunque, «è resa possibile dal fatto che c’è Cristo, che la presenza dominante [della vita] è Cristo, che l’oggetto del mio sguardo è Cristo».128 È l’opposto del moralismo. La povertà è frutto della Sua presen-za nella nostra vita, altrimenti è come «un castello di carte», che crolla da un istante all’altro. Se non c’è povertà in noi, a nulla serviranno rimproveri e propositi, saranno tutti fallimentari. Domandiamo piuttosto che Cristo ci attiri ancora, ci prenda ancora, ritorniamo a Lui così come siamo. Se non lo facciamo, significa che abbiamo già iniziato ad allontanarci. Chi di noi, almeno per un momento nella sua vita, non è stato totalmente preso da Cri-sto, dall’incontro con Lui? Non saremmo qui, vi assicuro che nessuno di noi sarebbe qui! Perciò è a quel momento che dobbiamo guardare, al punto sorgivo; e quando manca qualcosa dobbiamo ritornare lì, come mendicanti, e chiedere in ginocchio – come abbiamo ascoltato ieri sera – che il Signore abbia pietà di noi. Altrimenti saremo in balìa di tutto e non saremo mai contenti, vivremo come “mine vaganti”.

Come ci siamo detti agli Esercizi dello scorso anno, è sempre una «storia particolare [...] la chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo».129 Né un discorso né un richiamo etico hanno la potenza di prendere tutto

126 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, op. cit., p. 345.

127 Ibidem, pp. 345-346.

128 Ibidem, p. 388.

129 L. Giussani-S. Alberto-J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, op. cit., p. 82.

noi stessi e di generare un altro modo di guardare e trattare le cose. È solo perché Cristo è presente e domina la mia vita, la riempie, risponde all’atte-sa del mio cuore, che mi sorprendo libero rispetto a tutto. Fuori da questa esperienza della Sua presenza che domina, gli appelli alla povertà sono inefficaci, mancano di mordente, non hanno la forza di cambiarci e la loro realizzazione ottiene il risultato opposto a quello auspicato. Per questo ri-durre il cristianesimo a una etica è un fallimento in ogni senso. Guardiamo Zaccheo: tutti gli appelli immaginabili a cambiare stile di vita, che gli sono stati rivolti dai farisei, non lo hanno spostato neanche di un millimetro.

Ciascuno di noi può trovarne conferma nella propria esperienza.

La povertà è «il non riporre la propria certezza in niente salvo che in un presente, [...] in ciò che ci è presente sempre». Per essere poveri occorre cioè che Cristo sia presente, occorre che il cristianesimo sia un avvenimen-to presente (e se non è un avvenimenavvenimen-to presente, non è cristianesimo). Ecco dunque l’alternativa: o il cristianesimo è un avvenimento che prende tutto di noi, dall’interno, che ci fa compiere un’esperienza unica di sovrabbon-danza, e per questo ci rende liberi da tutto, dalla varietà di briciole in cui riponiamo la nostra speranza, o saremo sempre in balìa dell’uno o dell’altro possesso o progetto. Ma questo equivarrebbe ad ammettere che non c’è una risposta alla nostra sete, al nostro bisogno, perché se anche si realizzasse tutto quello che abbiamo in testa, ciò non sarebbe in grado di compiere re-almente la nostra vita, come abbiamo già tante volte sperimentato. E ci sa-rebbe veramente da piangere, non per il fatto di non essere sufficientemente coerenti, ma per l’impossibilità a essere noi stessi. Che non ci fosse Cristo, questa sarebbe la vera disgrazia! Significherebbe che non c’è possibilità di risposta a tutta l’attesa che abbiamo. Cristo è una presenza presente: «La presenza di Gesù, che è di ogni giorno, di ogni nostro impegno con le circo-stanze, con la coda dell’occhio la vedete là».130 È su questo, sul riconosci-mento della Sua presenza presente, che si fonda la nostra speranza.

Don Giussani sviluppa in modo affascinante l’insistenza del Papa, ri-chiamata all’inizio, sull’«organicità tra le virtù», mostrando come la pover-tà nasca dalla speranza, sia «una conseguenza del dilatarsi fino agli estremi confini della speranza. La speranza dilata i suoi confini fino all’estremità del mondo, fino alla soglia del cielo; la povertà è una conseguenza di essa».131 Perché dalla speranza, come frutto della fede, nasce la povertà? Perché solo chi ha una fondata certezza nel futuro, per una fondata certezza nel presen-te, cioè per il possesso di Cristo presenpresen-te, può non attaccarsi a quello che

130 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, op. cit., p. 345.

131 Ivi.

ha o che progetta come prospettiva di compimento della sua persona, può non appoggiare a un certo possesso stabilito da lui la sua consistenza e le sue aspettative di felicità. Lo vediamo nella vita quotidiana, positivamente o negativamente. Un esempio tra i tanti: se non sono certo che mia moglie o mio marito non mi pianterà tra qualche anno dicendo: «Non ne voglio più sapere di te», io non metto in comune i beni neanche per sogno e preferisco senz’altro la separazione dei beni (al di là delle valutazioni fiscali). Solo se c’è una speranza per il futuro si può arrivare anche alla comunione dei beni; altrimenti sarà impossibile, perché non ci si può fidare l’uno dell’altra.

«Mi preme far capire questo», sottolinea don Giussani, «perché questa è la cosa più importante [...]. La fede mi fa riconoscere Cristo presente, io possiedo Cristo e perciò sono certo per il futuro, questa è la speranza». Solo per questa certezza nel futuro, che nasce dal rapporto con Cristo e che si chiama speranza, io posso non legare a quello che ho la mia consistenza, posso essere libero da tutto. Allora, «ciò che si oppone a questa speranza è qualunque modo con cui l’uomo fissa in una cosa determinata da lui, scelta da lui, la sua certezza, o nel presente o nel futuro, che è lo stesso». E questa è la grande illusione, perché non c’è niente di quello che possiedi «su cui tu puoi porre la tua speranza; in nessun possesso tu puoi porre la tua speranza nel futuro, perché ciò che possiedi, domani, il tempo o una bicicletta te lo toglie di mezzo: la bicicletta che violentemente percuote l’individuo, quello cade, cadendo batte la testa sul marciapiede e muore, e tu l’indomani inve-ce che festeggiare le nozze, vai al funerale».132 Quanto è vero per ciascuno di noi! Senza quasi accorgercene, agganciamo l’aspettativa del futuro al realizzarsi di questo o di quel risultato, al possesso della tal persona, della tal cosa o della tale situazione.

La povertà è allora conseguenza della speranza, cioè della certezza che Cristo compie, perché è una Presenza presente ciò che desideriamo (e se uno non fa già esperienza di questo, nessuno lo riuscirà a staccare da ciò che possiede). E allo stesso tempo è condizione per “salvare” questa spe-ranza: «La povertà salva questa speranza nel futuro, non ostacola questa speranza nel futuro, perché ci impedisce di porre la nostra speranza in un certo possesso presente».133 Questo ci fa capire ciò che il Papa scrive nella lettera, cioè che «la povertà è madre e muro». Quel rapporto nuovo con tutto che prende il nome di povertà è infatti generativo: «La povertà genera, è madre, genera vita spirituale, vita di santità, vita apostolica». La povertà

132 L. Giussani, Si può vivere così?, Bur, Milano 2009, pp. 257-258.

133 Ibidem, pp. 256-257.

genera vita, non è una disgrazia. È madre «ed è muro, difende»,134 aggiunge il Papa, ci difende dall’attaccamento alle cose.

La povertà, questo non possesso che nasce dalla fede attraverso la speranza, è nello stesso tempo l’unico autentico possesso, la possibilità di una vera e compiuta affermazione dell’altro: «La povertà può definirsi anche con questa frase: l’affermazione di un altro come significato di sé. L’affermazione di un altro come significato di sé, per sé è amore, ma dinamicamente, come avviene, è povertà, perché ti libera da ciò a cui ti appiccicheresti. [...] La povertà è condizione dell’amore (anche perché uno che si sente ricco, non ha bisogno di niente in quel momento; caso-mai userà, ma non amerà)».135

Dopo aver richiamato l’origine della povertà, domandiamoci: da che cosa riconosco che mi è accaduto Cristo, che la mia vita è caratterizzata dalla certezza della Sua presenza e quindi da quella certezza nel futuro che si chiama «speranza»? In che cosa si rivela la povertà vissuta?

Don Giussani ci segnala tre punti, che sono tre conseguenze o tre segni.

a) Libertà dalle cose

Poiché Cristo fa esplodere di pienezza il mio cuore, io sono libero dalle cose: «La povertà è quella libertà dalle cose - anche dalle facce - che av-viene come conseguenza della identificazione chiara di ciò da cui possiamo sperare la felicità, di quella Presenza da cui ci aspettiamo tutto, che è tutto:

“Tutto per me Tu fosti e sei”, diceva Ada Negri».136 Ciò da cui possiamo sperare la felicità è una Presenza presente.

Dunque, è il rapporto con Cristo presente la radice profonda della liber-tà dalle cose: «Se Cristo ti dà la certezza di compiere ciò che ti fa deside-rare, allora tu sei liberissimo dalle cose [...]. Non sei schiavo di niente, non sei legato a niente, non sei incatenato a niente, non dipendi da niente: sei libero. [...] Ora, non sei schiavo di quello che usi, perché sei schiavo solo di Colui che ti dà la certezza della tua felicità. La povertà si rivela come libertà dalle cose».137

Il fondamento della povertà sta nella certezza che Dio compie quello che ci fa desiderare. «La povertà, dunque, su cosa fonda il suo valore? Sulla certezza che è Dio che compie; Cristo compie il desiderio che ti fa nascere:

“Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento

134 Francesco, Lettera a Julián Carrón, 30 novembre 2016.

135 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, op. cit., pp. 369-370.

136 Ibidem, p. 346.

137 L. Giussani, Si può vivere così?, op. cit., p. 259.

domani nel giorno di Cristo”.»138 Facciamo attenzione alle parole di don Giussani: il fondamento, dice, è la certezza; non un ragionamento e neppu-re uno sforzo moralistico, ma una certezza – di compimento futuro, che è certezza di una presenza –, senza la quale inevitabilmente ci attacchiamo a tutto. «La povertà avviene perché una certezza più grande permette che ci strappiamo da qualcosa cui fino ad allora siamo stati legati.»139

Questa libertà si vede, si sorprende, nel modo in cui ci rapportiamo con le cose, con le persone, con quello che ci capita nella vita, come dice san Paolo: «Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piango-no, come se non piangessero; quelli che gioiscopiango-no, come se non gioissero;

quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!».140 Ma una tale libertà è possibile solo se Gesù è «“immanente”, [...] presente dentro il vivere»; solo a questa condizione si può «lasciare ciò che si vorrebbe avere: i soldi, la salute, la ragazza, la carriera, l’onore, la sedia politica».141 La povertà è perciò l’«eliminazione del possesso monda-no che vuol dire appoggiare, poco o tanto, la propria speranza, cioè il si-gnificato della propria vita e la consistenza della propria persona, su quello che si ha o su quello che si programma». È la raccomandazione di Gesù:

«“Non abbiate preoccupazione di quello che dovete vestire e mangiare, lo sa il Padre vostro che sta nei cieli che ne avete bisogno”». Ma che cosa significa questo? Vuol forse dire «non aver vestiti e non avere da mangiare?

No, non vuol dire questo. Vuol dire non fare il programma per vestire e per mangiare? No, non vuol dire questo. È un modo di possedere queste cose, è il non appoggiarvi la speranza e la consistenza della vita».142

Don Giussani non ci sta invitando a disprezzare le cose. Egli dice, in-fatti, che «la definizione di povertà che dà Gesù [...] non è l’abolizione o la censura di qualche cosa: di nulla, di nulla!». E ci ricorda la frase di san Pao-lo che Pao-lo afferma apertamente: «Tutto ciò che è belPao-lo, tutto ciò che è buono, tutto ciò che è degno di lode, tutto ciò che dà fama, che ottiene la lode degli altri, tutto questo fate». Dunque, sottolinea don Giussani, la povertà è «il distacco da un certo modo» di avere le persone e le cose, «più precisamente il distacco dal modo per cui uno tratta la persona o la cosa che ha davanti

138 Ibidem, p. 258.

139 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, op. cit., p. 387.

140 1Cor 7,29-31.

141 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, op. cit., p. 389.

142 ASAEMD, Registrazioni audiovisive, OR.AUDIO/1458, Incontro della casa, Gudo Gambare-do (MI), 23 marzo 1970; trascrizione della registrazione.

non secondo l’universo (il disegno di Dio), non secondo il sentimento che ha Dio, ma secondo il sentimento che ha lui, vale a dire secondo la reazione che prova lui; seguendo la sua reazione e non la destinazione oggettiva della cosa». Povertà, perciò, non significa in alcun modo una svalutazione delle cose, ma è «quel distacco che guarda con positività, senza eccezione, a tutto, a tutto quel che accade». Guardo tutto con positività, ma non pon-go la mia speranza in ciò che, pur vero e bello – persone e cose −, non è sufficiente a dare consistenza al mio vivere. Si introduce così una modalità diversa di guardare tutto: il rispetto. Perché «rispetto vuol dire guardare una cosa dominato dalla presenza di un’altra – [...] guardare una cosa seguendo con la coda dell’occhio un’altra» cosa. Vale a dire: «il Mistero che fa te domina me mentre ti guardo, mentre ti penso. Questo è il distacco: non sei mia. E, infatti, tutto il mio rapporto con te s’esaurisce nell’affermar te».143 b) Letizia

Qual è il segno della povertà intesa come libertà dalle cose? La letizia.

«Da questa libertà dalle cose, che nasce dalla certezza che Dio compie tutto Lui, scaturisce un’altra caratteristica dell’animo povero che è la letizia.»144 Quanto più matura, quanto più diventa abituale la certezza che Dio compie e quanto più diventiamo liberi dalle cose, tanto più diven-tiamo lieti. «La letizia non fiorisce su altro terreno. [...] La letizia nasce esclusivamente sul terreno di questa coscienza di povertà.»145 La nostra letizia non dipende da quello che possediamo, perché siamo stati liberati da Colui che ci è accaduto. L’origine della nostra letizia è il riconosci-mento che c’è Cristo, che Lui è presente.

Ma chi potrà convincerci di questo, quando intorno a noi tutti dicono il contrario? Occorre scoprirne la verità nella propria vita. Ma questa sco-perta è solo per audaci, cioè per chi accetta il rischio di verificare che il rapporto con Cristo presente libera e rende lieti, in qualunque condizione ci troviamo, come ci ha testimoniato la persona della lettera di questa mattina. Altrimenti nessuno ci convincerà e cercheremo di giustificare il nostro possesso delle cose.

Don Giussani ha instancabilmente richiamato e documentato il dina-mismo da cui scaturisce la letizia: «“Sono lieto” vuol dire: “Il mio cuore è lieto perché Dio vive”».146 È il fatto che Dio vive, che è presente, ciò che mi

143 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, op. cit., pp. 392, 395, 396.

144 L. Giussani, Si può vivere così?, op. cit., p. 260.

145 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, op. cit., p. 347.

146 L. Giussani, L’attrattiva Gesù, op. cit., p. 281.

assicura quanto al passato, al presente e al futuro, e perciò mi rende lieto.

«La consistenza della vita, la felicità che il futuro ci riserva, non sta in quel che appare.» Quel che appare e che passa non è in grado di garantire qual-cosa per il futuro. Quindi non può offrire un fondamento sufficientemente consistente per la letizia. «La speranza non può essere posta nel fatto che uno ha moglie, che uno ha la fidanzata. La letizia non deriva da quello, da quello deriva la contentezza, più o meno passeggera, ma la letizia no, per-ché la letizia si appoggia a un possesso la cui prospettiva non termina più.»

Ciò spiega perché, anche quando si realizzano i nostri progetti e otteniamo quello che volevamo, siamo contenti, fin quando lo siamo, ma non lieti.

Perché è un’altra la sorgente della letizia. Allora «non c’è nessuna formula della letizia più bella di questa: chi ha, sia come se non avesse. Sia che abbia sia che non abbia è uguale... ma l’avere qualche cosa che dura per l’eternità... no, questo non può essere uguale! Se tu hai qualcosa che dura per l’eternità», questo rende diverso «l’amore, l’amore dell’uomo alla don-na, l’amore al compagno, l’amore al genitore, l’amore al sole che sorge».147 c) Libero perché nulla ti manca

Quando noi poggiamo su qualcosa che permane, cioè sul divino, non ci manca nulla «perché tutto è tuo». Tutto è tuo. «Come mai tutto è tuo?»

domanda don Giussani. «Perché hai ciò che ti è necessario, hai tutto ciò che ti è necessario.»148 È impressionante l’affinità con le parole di san Paolo:

«Tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio».149

È questa la povertà che l’attrattiva Gesù introduce nella storia, nella nostra vita, affinché non rimaniamo costantemente incatenati all’esito dei nostri progetti. La Sua presenza ci incolla talmente a Lui, ci riempie a tal

È questa la povertà che l’attrattiva Gesù introduce nella storia, nella nostra vita, affinché non rimaniamo costantemente incatenati all’esito dei nostri progetti. La Sua presenza ci incolla talmente a Lui, ci riempie a tal

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