• Non ci sono risultati.

Sunshine

Fra trasfigurazione e trasformazione, dionisiaco e apollineo, verginale e divino, ha un ruolo essenziale la luce, il cui significante principale è, nel romanzo, il sintagma sunshine. Le occorrenze del composto e le relative accezioni si contano a decine dal principio all’epilogo, e per determinarne la natura converrà tornare, quale punto di partenza, alla dimora di Donatello, in particolare al capitolo XXV, denominato appunto “Sunshine”.

L’ambientazione è il palazzo sugli Appennini, dimora ancestrale dei Monte Beni, in cui Kenyon viene ospitato. La casa avita è ampia e desolata, evidente contrasto rispetto a ciò che un tempo è stata, un “cheerful place” abitato da una “merry and kindly race of people, for the most part, [who] kept one another’s heart warm” (p. 135). Donatello, unico superstite della sua stirpe, il cui cuore è rimasto freddo e vuoto come la sala di marmo antico che a breve lui e Kenyon visiteranno, tace per il momento sui motivi per cui crede che i maschi della famiglia tendano ad avere vita intensa ma breve1,

e pone invece l’accento su uno dei motivi per cui in passato la casa godeva di inusuale vivacità: “they had many pleasant customs, and means of making themselves glad, and their guests and friends along with them. Nowadays we have but one!” (p. 136). Questo ‘mezzo di godimento’ viene introdotto secondo un preciso rituale culinario, un pranzo evocatore di abbondanza:

By this time, he had ushered the sculptor into one of the numberless saloons; and, calling for refreshment, old Stella placed a cold fowl upon the table, and quickly followed it with a savory omelet, which Girolamo had lost no time in preparing. She also brought some cherries, plums, and apricots, and a plate full of particularly delicate figs, of last year’s growth. (p. 136)

1 Cfr. infra, cp. V.

152

L’elemento principe del pasto viene trattato in termini ambigui, tanto che l’ordine di Donatello al maggiordomo (“Tomaso, bring him some sunshine”) non è immediatamente compreso da Kenyon:

The readiest method of obeying this order, one might suppose, would have been to fling wide the green window blinds and let the glow of the summer noon into the carefully shaded room. But, at Monte Beni, with provident caution against the wintry days, when there is little sunshine, and the rainy ones, when there is none, it was the hereditary custom to keep their Sunshine stored away in the cellar. Old Tomaso produced some of it in a small, straw-covered flask, out of which he extracted the cork, and inserted a little cotton wool, to absorb the olive oil that kept the precious liquid from the air. (p. 136)

Il Sunshine è una qualità di uva e di vino prerogativa dei Monte Beni; da subito viene posto quale fulcro del capitolo e contraltare metaforico della luce: è il solo lucore nella stanza in penombra e, come da contesto, nella desolata esistenza di Donatello; ma è anche parte centrale di una cerimonia del vino attentamente eseguita e attraverso la quale il conte espone la natura della propria stirpe e della propria eredità. Vigna (ovvero terra), vite e vino (il prodotto) sono indissolubilmente legati ai Monte Beni, tanto da equivalere all’essenza stessa di Donatello, loro ultimo rappresentante: “There is little else left me, save that patch of vines”, che si può leggere in modo ambivalente come eredità ora terriera ora di sangue. Si ricordi che il capitolo si apre con un interrogativo: perché quello dei Monte Beni sia stato un lignaggio tanto lungo quanto precario.

Mediante l’assaggio del vino, la metafora del sangue si reitera ancor più fortemente: “Taste it, […] But first smell its fragrance; for the wine is very lavish of it, and will scatter it all abroad”. Osserva Kenyon: “The flavor must be rare, indeed, if it fulfill the promise of this fragrance, which is like the airy sweetness of youthful hopes,

153

that no realities will ever satisfy!” (pp. 136-137). Figuralmente, le giovanili speranze di cui il vino è simbolo sono tanto irrealizzabili quanto la promessa di dolcezza che la sua fragranza suscita nel bevitore. Nella metafora, attuata utilizzando il parallelo dei sensi, ci si trova perciò in un reame sospeso in cui leggere sensibilmente il concetto di fondo della storia. I sensi rivelano il gusto del Sunshine:

[…] the wine demanded so deliberate a pause, in order to detect the hidden peculiarities and subtle exquisiteness of its flavor, that to drink it was more a moral than a physical enjoyment. There was a deliciousness in it that eluded analysis, and – like whatever else is superlatively good – was perhaps better appreciated in the memory than by present consciousness. (p. 137)

“Hidden peculiarities” e “subtle exquisiteness” rimandano a un valore sostanziale, ipostatico, che si risolve in un’esperienza che da mero dato sensoriale diviene oggetto interiore, o superiore. È curioso infatti l’accostamento alla sfera morale quale contraltare di quella fisica. Se ‘fisico’ si può glossare come ‘sensibile’, ‘morale’ non è automaticamente associabile a ‘spirituale’. La lunga pausa necessaria a gustare il vino esalta le sue qualità intrinseche, ma non ne permette una razionalizzazione se non nell’elaborazione mnemonica successiva, in cui il sapore si coniughi all’esperienza pregressa agendo quasi come un catalizzatore di analogie sensoriali2. Sfugge all’analisi,

ponendosi a un livello che non è né oggettivo né immediato, poiché necessita di un passaggio attraverso il sentire individuale stratificato, raziocinante, noetico3. È

2 La relazione tra vino, memoria e parola è sottolineato già nella filosofia classica: “It is while drinking wine that one says memorable things which should be recorded and transmitted to posterity” (Luciana Romeri, Food and Forgetfulness at Socratic Symposia, in Food and the Memory. Proceedings of the Oxford

Symposium on Food and Cookery 2000, a cura di Harlan Walker, Prospect Books, London 2001, p. 201);

ma il vino, come il nepente, può anche dar luogo all’oblio, ed è simbolo polisemico di cultura e dissoluzione. Si veda Anthony Blake, The Language of Flavour: Learning and Memory, in Food and the

Memory, cit., pp. 39-48.

3 È quella che le neuroscienze oggi chiamano “semantic memory” del vino (Wendy V. Parr, Application

of Cognitive Psychology to Advance Understanding of Wine Expertise, in Applied Psychology Research Trends, a cura

di Karl H. Kiefer, Nova Science Publishers, New York 2008, p. 130) e che sottende, ad esempio, all’esperienza religiosa di cui il vino è fulcro e oggetto sacramentale.

154

caratterizzato da attribuzioni preziose e sublimemente spirituali (“pale golden hue”, “pale liquid gold”, “admirable endowements”, “ethereal potation”) e sempre relative alla luce (oltre che per il colore, anche per il “little circle of light [that] glowed on the table round about it, as if it were really so much golden sunshine” (p. 137).

La relazione che il vino crea con il passato è espressa da Kenyon in termini mitici: “This is surely the wine of the Golden Age, such as Bacchus himself first taught mankind to press from the choicest of his grapes” (p. 137). Tuttavia, il Sunshine è tanto inalienabile quanto la terra dei Monte Beni, non essendo mai stato venduto o esportato. Kenyon sta qui portando avanti un’analogia piuttosto scontata, ovvero l’associazione del Sunshine con il romano Bacco, messo direttamente in relazione con vino ed ebbrezza. È interessante che non venga menzionato Dioniso, che sebbene assimilato a Bacco nella interpretatio Graeca non è originariamente un dio del vino, bensì dell’oscurità bonaria che è preludio alla luce4.

Ferrato come si dimostra nel mito latino, pare che qui Hawthorne faccia invece esprimere Kenyon per luoghi comuni, come nell’affermazione successiva: “As I understand you, it is a sort of consecrated juice, and symbolizes virtues of hospitality and social kindness?” (p. 137), che appare eccessivamente semplificante e contrastante rispetto alla complessità simbolica dell’insieme. La ragione per cui il vino non è usufruibile al di fuori delle terre dei Monte Beni è che inacidisce non appena sia portato oltre i confini della tenuta.

Sul significato del Sunshine la critica non si è granché spesa, limitandosi, il più delle volte, a rilevare semplicemente, e en passant, la presenza del vino (e del termine) nel romanzo. Chi ne ha dato un’interpretazione univoca, concedendo un po’ di spazio alla speculazione, è stato invece Clark Davis. Il critico vede il sunshine e le sue caratteristiche come figura della perdita, da parte degli artisti americani espatriati, della purezza

4 La relazione tra Dioniso, la luce e la vinificazione è messa in rilievo da Walter Friedrich Otto: “Through its transformation wine seems to bring out again the heat of the sun which the grape received outside in nature” (Dionysus: Myth and Cult, translated and with an introduction by Robert B. Palmer, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 1965, p. 147). Dioniso prelude alla luce del giorno come l’assunzione del vino prelude al calore il cui insorgere esso provoca; ma con tale relazione al sole richiama, implicitamente, la sua epifania diurna sotto forma apollinea, come già considerato supra.

155

originaria causata dal perseguire l’ideale di bellezza e vita rappresentato dalla cultura europea. In altre parole, Hawthorne imputerebbe ai connazionali il fatto che questi abbandonino l’America natia in cerca di un supposto completamento ideale senza cercare e riconoscere, in primis, il valore che la cultura del Nuovo Mondo, sebbene relativamente recente, possiede e che essi tendono a svilire. Per la sua unicità nel panorama dei commentari a Hawthorne, sarà bene citare estesamente il ragionamento di Davis:

[They] risked losing their national identity for little more than the prospect of abundant marble. Each of these expatriate artists seemed to Hawthorne to have sacrificed something irreplaceable, their national character, for the dilettante’s second-hand acquisition of a pseudo-European sophistication.5

Si argomenta poi riguardo al vino:

Its “deliciousness” depends on its location. According to tradition, its flavor will not travel. […] Originality of taste, in other words, depends upon origin, and the displaced have a tendency to lose the subtleties of local flavor that result from the strict cultivation of origin. This is as much a personal caution as a criticism of Americans abroad. Attractive though it may be, Italian art and culture could only defer or misdirect the New Englander’s native talents. Hawthorne had no desire to spend his remaining days as a cultural copying, no matter how alluring the subjects.6

L’interpretazione di Davis si concentra dunque sulla critica di Hawthorne ai connazionali e sulla nozione di originalità, il che si accorderebbe di per sé con l’opinione espressa in generale, dall’autore, in merito agli americani in fatto di gusto e di

5 Clark Davis, Hawthorne’s Shyness, cit., p. 148. 6 Ibidem.

156

arte. Il vino sarebbe un modo per esprimere allegoricamente la volontà di distanziarsi da essi e di affermare una dignità propria dell’americanità anche sul piano estetico e letterario.

Il commento, tuttavia, lascia perplessi, soprattutto perché il Sunshine è di per sé un oggetto prettamente ‘italico’, nato e gustato in ambiente italiano e posseduto da italiani. In quanto tale, non pare avere un legame ‘consequenziale’ con l’americanità. In ogni caso, questa interpretazione è fortemente limitativa, ossia non esaurisce la complessità del simbolo specifico in relazione ad altre produzioni autoriali.

Hawthorne sfruttò a più riprese l’identificazione tra una bevanda dalle virtù magiche e il vino (come in The Dolliver Romance e in Septimius Felton); ma è nel racconto semi-gotico Dr. Heidegger’s Experiment (incluso nella raccolta Twice-Told Tales, pubblicata in volume, in due riprese, nel 1837 e nel 1842) che troviamo gli elementi più congruenti con quelli del vino dei Monte Beni, tali da corroborare l’interpretazione qui proposta. Nel racconto è presente un elisir proveniente dalla leggendaria fonte dell’eterna giovinezza a suo tempo ricercata da Ponce de Léon e situata in Florida. Il dottor Heidegger, avente tutti i tratti dell’alchimista, ne somministra una certa quantità a quattro anziani e avvizziti amici (tre uomini e una donna, rappresentanti di altrettanti tipi umani) rovinati dal vizio e dall’età, che rimpiangono tutti la gioventù perduta e che vengono descritti come “melancholy old creatures”7. La scena viene in parte così

descritta:

On the summer afternoon of our tale a small round table, as black as ebony, stood in the centre of the room, sustaining a cut-glass vase of beautiful form and elaborate workmanship. The sunshine came through the window, between the heavy festoons of tow faded damask curtains, and fell directly across this vase; so that a mild splendor was reflected from it on the ashen visages of the five old

157

people who sat around. Four champagne glasses were also on the table.8

Pur essendo in realtà un’acqua sorgiva, l’elisir è assimilabile al vino, essendo servito in contenitori a esso deputati, i quali hanno un’impronta estetica (“beautiful form”)9.

L’elisir stesso e il campo semantico della luce sono qui messi in relazione con gli invecchiati “ashen visages” degli astanti, sui quali, ancor prima che ne bevano, il liquor esercita attraverso la luce un suo potere ‘risplendente’. Della miracolosa sostanza si afferma: “It was apparently impregnated with an effervescent gas, for little bubbles were continually ascending from the depths of the glasses, and bursting in silvery spray at the surface […] the liquor diffused a pleasant perfume”10. Dei suoi effetti si dice poi:

Assuredly, there was an almost immediate improvement in the aspect of the party, not unlike what might have been produced by a glass of generous wine, together with a cheerful sunshine brightening over all their visages at once. There was a healthful suffusion on their cheeks, instead of the ashen hue that had made them look so corpse-like. They gazed at one another, and fancied that some magic power had really begun to smooth away the deep and sad inscriptions which Father Time had been so long engraving on their brows.11

Elisir, vino e sunshine sono perciò serratamente relazionabili, e possono avvalorare la chiave di lettura che si sta cercando di costruire per l’interpretazione del Sunshine dei Monte Beni. L’elisir è vettore del ritorno alla perduta giovinezza. In quanto tale è però anche memoria e reiterazione della perdita, poiché mette letteralmente ‘in luce’, prima

8 Ibid., p. 260.

9 Il tema è sfruttato, nell’Europa romantica, da diversi autori, quali William Godwin (St. Leon), Mary Shelley (The Mortal Immortal), Balzac (L’Élixir de Longue Vie e Le Peau de chagrin)) e Alexandre Dumas, padre (Prologue a Le Collier del la Reine); in ogni caso, “in the nineteenth-century, the magic potion or elixir is well on its way to being literalized as liquor” (Marty Roth, Drunk the Night Before: Anatomy of

Intoxication, University of Minnesota Press, Minneapolis 2005, p. 64; si vedano anche le pp. ss.).

10 Ibid., p. 263. 11 Ibid., p. 264.

158

d’esser consumato, l’effetto devastante del tempo sui volti cinerei dei protagonisti. Esso a sua volta perde il proprio potere perché, poco dopo l’assunzione, gli effetti dell’età ritornano, con tutta la pesantezza che segue la presa di coscienza dell’impossibilità di tornare alla mitica età giovanile. È un materiale instabile, “the delicate spray of which, as it effervesced from the surface, resembled the tremulous glitter of diamonds”12.

Assomiglia al diamante ma solo quanto alla luce – intangibile – che riflette. Il “tremulous glitter” ne rivela il carattere evanescente (come le sue ‘bubbles’ ed ‘effervescences’) che sarà presto manifesto, ma solo dopo che gli anziani personaggi avranno sperimentato “the exhilarating gush of young life [that] shot through their veins”13. Infine, “The Water of Youth possessed merely a virtue more transient than

that of wine. The delirium which it created had effervesced away”14.

La morale che il dottor Heidegger mira a sostenere è che ogni cosa ha il proprio tempo, e che la giovinezza rivissuta nella vecchiaia non ha nulla di naturale o di propositivo. Nel suo insieme, tuttavia, la novella è un inno alla malinconia per il tempo passato vissuta attraverso una bevanda ‘luciferina’ che induca consapevolezza. Per questi tratti è paragonabile al vino dei Monte Beni. La partita che Kenyon assapora proviene da una vendemmia risalente alla fanciullezza di Donatello. La sensazione che si prova consumando la bevanda è che il gusto divenga impercettibilmente “clouded”, come la luce, a mano a mano che si giunge al fondo del fiasco.

La similitudine con l’infanzia e con la luce è quindi riferibile al vino quale correlativo oggettivo della vitalità insita nei due elementi, che tendono a disperdersi a mano a mano che ci sia allontana in senso rispettivamente temporale e spaziale dal loro epicentro15. Il fauno ritiene la propria vitalità nella condizione ideale di allontanamento

dal mondo; ma il suo distanziarsi spaziale è anche trasferibile sul piano temporale: il

12 Ibid., p. 266.

13 Ibid., p. 267. 14 Ibid., p. 270.

15 In Denys l’Auxerrois, certe categorie di vino vanno soggette a una simile perdita di forza e di sostanza. Dopo che il monaco Hermes mostra a Denys alcuni scritti in cui Dioniso è raffigurato come avente due tratti distintivi, uno più luminoso, l’altro più oscuro, si afferma: “And in truth the much- prized wine of Auxerre has itself but a fugitive charm, being apt to sicken and turn gross long before the bottle is empty, however carefully sealed; as it goes indeed, at its best, by hard names, among those who grow it, such as Chainette and Migraine” (Imaginary Portraits, cit., p. 75).

159

piccolo Donatello (nella cui fanciullezza il vino è prodotto), come un Bacco fanciullo, perde a poco a poco la spinta vitale, il bouquet che è giovanile promessa di irrealizzabili speranze16.

Come l’elisir di giovinezza, anche il vino di Donatello ha un duplice valore. Da una parte, è come un nepente che riportando in auge la dorata, sunshining age cui il Fauno anela fa dimenticare i mali del tempo e della sua condizione presente. Dall’altra, per il suo carattere transeunte e per lo scarto tra passato e presente ch’esso prepotentemente reitera, è in realtà fonte d’ulteriore malinconia, dalla quale il Fauno (come i protagonisti di Dr. Heidegger’s Experiment) deve trarre una lezione superiore: è necessario distaccarsi dal passato ed elaborarlo per poter ottenere una lettura dell’esistenza presente. Inoltre il Tempo lascia nelle esistenze individuali tracce indelebili, rappresentate dall’immagine degli “ashen visages” dei quattro protagonisti, che vengono subitaneamente illuminati come ‘pareti’ impolverate, scrostate e sbiadite; le stesse pareti che costituiscono uno degli elementi centrali della sala in cui ha luogo la scena del Sunshine.

La sala, il tempo, gli dèi

Il vino che incarna lo spirito festivo di cui i Monte Beni sono espressione quale connessione tra il mito e la storia viene servito in una particolare sala della magione:

Being thus refreshed, Kenyon looked around him at the antique saloon in which they sat. It was constructed in a most ponderous style, with a stone floor, on which heavy pilasters were planted against the wall, supporting arches that crossed one another in the vaulted ceiling. The upright walls, as well as the compartments of the roof, were completely covered with frescoes, which doubtless had

16 Bacco può esser qui assimilato alla nozione romantica di ‘fanciullo divino’. Come i fanciulli primigeni che in Wordsworth e Coleridge simboleggiano variamente la freschezza creativa dell’immaginazione incorrotta, il fanciullo bacchico o faunesco risente, crescendo ed esperendo, del progressivo distaccarsi dalla natura: “the child will evaporate like a dewdrop”, come il sapore del Sunshine si oblia nell’insipienza (Anya Taylor, Bacchus in Romantic England. Writers and Drink, 1780-

160

been brilliant when first executed, and perhaps for generations afterwards. The designs were of a festive and joyous character, representing Arcadian scenes, where nymphs, fauns, and satyrs disported themselves among mortal youths and maidens; and Pan, and the god of wine, and he of sunshine and music, disdained not to brighten some sylvan merrymaking with the scarcely veiled glory of their presence. A wreath of dancing figures, in admirable variety of shape and motion, was festooned quite around in the cornice of the room. (p. 138)

Lo stile della sala, che si presta a essere immaginato come gotico, è ascrivibile a un edificio di culto. Le volte, affrescate con figure sbiadite dal tempo, si fanno fulcro ideale

Documenti correlati