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2. Lo studio del lessico

2.3 Le vittime

Sino ad ora abbiamo avuto modo di parlare di conflitti, delle loro cause – da ricercarsi negli animi bui e corrotti degli empi – e del loro svolgimento. Ora ci soffermeremo sulle conseguenze.

Ferreto non manca di ricordare gli infelici esiti e la disumanità che accompagnano le battaglie: la caedes occorre numerose volte all’interno del primo e del quarto libro, seguita talvolta da descrizioni, molto concise e limitate, di pene e torture38. Tuttavia in più di un’occasione questo limite viene superato dal poeta che si espone apertamente a condanna della ferocia bellica.

Così accade nel primo libro. Dopo aver attaccato invano Vicenza, i soldati al seguito di Ezzelino si abbandonano a razzie predando le campagne limitrofe. Interrotta la narrazione dei fatti, ecco levarsi la voce del poeta:

[…] Miseros semper premit ense colonos Mars ferus, et subitam primi sensere ruinam, se quotiens tumidis infert discordia regnis.

(I, 291-293)

Con uno stile asciutto, un periodare conciso e lineare Ferreto indica quella che ai suoi occhi appare una triste, immutabile, verità: ad essere schiacciati dalla furia di Marte sono sempre i più poveri, i miseri abitanti del contado.

Alle tessere lessicali già incontrate se ne aggiungono di nuove che permettono di arricchire e meglio conoscere non solo il lessico dell’autore vicentino ma anche il suo pensiero. Da una parte, infatti, annoveriamo i «tumidi regni» (I, 293) e «Mars ferus» (I, 292) - l’uno riconducibile all’ambito del vizio e l’altro al lessico militare - dall’altra è interessante focalizzare l’attenzione su due nuovi elementi.

Il primo è il sintagma «miseros […] colonos» (I, 291); l’attributo occorre per la prima volta all’interno del poema, lasciando trasparire uno sguardo pietoso nei confronti dei più umili. Tuttavia accanto alla pietas Ferreto rivela anche un certo pessimismo. Infatti l’avverbio «semper» (I, 291), la cui connessione con il verbo è ulteriormente accentuata dai valori fonici, non lascia spazio ad altre possibilità: conseguenza certa della guerra è la violenza sul debole.

38

Sulla stessa scia anche le considerazioni del poeta vicentino in seguito all’uccisione dei prigionieri padovani da parte del da Romano:

[...] Sic interiit miserabile vulgus auctoris Phrigii, sic sors premit aspera multos insontes, sic et gnati delicta parentum

sepe luunt.

(I, 354-356)

Gli elementi che abbiamo individuato poc’anzi come innovativi ritornano con leggere, ma significative, variazioni. Innanzitutto permane lo sguardo pietoso dell’autore che tuttavia si allarga ad abbracciare nuovi soggetti. I «miseros […] colonos», infatti, vengono sostituiti dal «miserabile vulgus» (I, 354) e dai «multos insontes» (I, 355-56); mantenendo inalterati i valori fonici, Ferreto amplia la propria prospettiva includendo ora anche il popolo e, più genericamente, i molti innocenti. Contemporaneamente si diffonde a macchia d’olio anche il pessimismo. Non solo le vittime aumentano in quantità ed estrazione sociale, ma peggiora anche il carnefice: anche se occorre nuovamente «premit» (I, 355), è una generica, e per questo molto più desolante, «sors […] aspera» (I, 355) a provocare pianto e dolore. In pochi esametri traspare un dilagante e pervadente senso di impotenza e di ineluttabilità ulteriormente enfatizzato dalla cornice sintattica e retorica in cui è inserito. L’asciutta paratassi, il lineare parallelismo, la semplice anafora conferiscono al periodo un carattere sentenzioso che potremmo, a buon diritto, definire epifonema.

Alla luce di queste considerazioni recuperiamo un passo già citato in precedenza:

[...] iam publica quisque

corripiebat atrox et se privatus agebat

inter opes, maiorque humilem sine lege premebat, impius insontes, et plebi noxia semper

vis procerum, et quecunque solent turbare quietas fata vices.

(II, 26-31)

Le scelte stilistiche non sorprendono, anzi si inseriscono appieno nell’alveo della lingua poetica di Ferreto. Al lessico del vizio - basti citare gli eloquenti «atrox» (II, 27) e «impius» (II, 29) – si associano termini e stilemi che velano di pessimismo il brano. Il poeta, pur variando soggetto – ora è un generico «maior» (II, 28) – ripropone il duro «premebat», ricompaiono, vittime della superbia, gli «insontes» (II, 29) a cui si aggiunge

la «plebs» e, soprattutto, occorre nuovamente l’avverbio «semper» (II, 29). A questi si aggiungono i disturbanti «fata» che turbano le «quietas vices». E ancora parallelismo e paratassi sono i mezzi prediletti per esprimere con fermezza una realtà ineluttabile. Insomma, pur aumentando il numero di esametri, il pensiero – e le forme scelte dal poeta – non mutano.

Continuando la lettura del poema, l’eco pessimista pare riverberare anche se in maniera più discreta e sottile. Il pio Alberto si è unito da poco in matrimonio con Verde dei Salizzole ma non è ancora giunta l’ora in cui:

magne Canis, nec adhuc miserum peregrinus in orbem exieras […].

(II, 175-176)

Mentre nel quarto libro, là dove i padovani scendono in guerra contro i veronesi, si legge:

[…] hac est de stirpe vocandus dux tibi, quem misero nondum pater optimus orbi prodidit […].

(IV, 116-118)

Le uniche altre occorrenze dell’attributo «miser» del poema, qui riportate e in entrambi i casi concordate con «orbis», rivelano proprio uno sguardo disincantato e pessimista. D’altro canto palesano anche il recupero che Ferreto attua nei confronti della classicità, e in particolare la forte influenza che esercitano due celebri autori dell’età argentea sul poeta vicentino. «Miserum quid decipis orbem, /si seruire potes?»39 scrive Lucano, mentre nella Tebaide «[impius] implorantesque Tonantem / sternet humi populos miserumque exhauriet orbem»40. Scelte lessicali, quindi, ma anche stilistiche e tematiche lasciano scorgere la tensione di Ferreto verso un mondo altro da imitare.

Per concludere leggiamo un brano del primo libro:

[…] o fatis semper iniquis,

o tristi fundata loco bona menia nunquam servili caritura iugo neque tabe nocentis

invidie! vos hinc Patavus premit, inde modesto poplite lenis Athes [...].

(I, 308-312)

39

LUC. Phars. VIII, 340

40

Questa descrizione di Vicenza - «genus unde meum et natalis origo» (I, 307) aveva detto poco prima Ferreto – è senza dubbio frutto dello stilo del poeta: ogni verso è carico di pessimismo, di critica amarezza. Da una parte spicca il vizio che corrode e deprime la città, da sempre soggiogata alla «tabes nocentis invidie» (I, 310-11), dall’altra domina l’ineluttabilità di una sorte «semper iniqua» (I, 308). Le pennellata del poeta, decisa, a tinte fosche, è ottenuta attraverso una sintassi povera e figure retoriche essenziali e ripetitive: nonostante la campata del discorso occupi due periodi, compare un solo grado di subordinazione, il carattere sentenzioso invece è conferito dall’anafora e dalla semplice efficacia dell’exclamatio. Ferreto non si smentisce, quindi. Tuttavia nella variazione permette di cogliere un altro tassello utile all’analisi del suo stile. Lo sguardo pietoso e al contempo disilluso a cui ci ha abituato, colpisce ora la sua città. L’attaccamento è forte ma altrettanto severa è la critica al declino morale della sua patria, proprio come scriverà nell’Historia. Ma di questo parleremo a tempo debito.

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