A guidare l’atteggiamento conoscitivo fenomenologico, come per la forma di vita naturale e per quella che orienta la vita dell’uomo che osserva scientificamente, è un principio di ordine assiologico ed etico. Se a guidare l’orientamento natu-rale verso le “cose” è la selezione di contenuti secondo i
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velli della loro importanza vitale, in base dunque alla loro uti-lità per la vita nell’ambiente umano (cfr. FET: 129-130), la scienza è guidata dal canto suo da un principio di possibile finalizzazione tecnica, vale a dire sempre da un valore vitale, ma con l’importante differenza che il fine non è più la vita, ma il dominio e la potenza impiegata su quest’ultima e sulla natura. Tra queste due forme di vita e la filosofia fenome-nologica si spalanca dunque una differenza, un vero e pro-prio abisso di ordine etico e assiologico e, solo in questo modo, conoscitivo.
Il ricercare che caratterizza la fenomenologia come filoso-fia è guidato dalla verità intesa come valore e non, come si diceva poc’anzi, come carattere qualitativo di un giudizio nella sua corrispondenza a uno stato di fatto. Conoscere le cose e ordi-narle a un fine pragmatico sono due atteggiamenti innanzi-tutto etici, guidati da principî e rivolti a conseguenze fonda-mentalmente differenti.
La fenomenologia come ricerca – e con ciò si svela come tendenza – è aperta al darsi autonomo delle cose del mondo per poter così partecipare di ciò che in esse è essenziale. Il che significa, quindi, una conversione e un rovesciamento (Um-kehrung) di prospettiva dal versante fenomenico della cosa che, offrendosi in sé stessa e da sé stessa, fa sì che colui che ricerca sia per prima cosa aperto da questo libero movimento delle cose.
Con un termine che dovrà necessariamente essere chiari-ficato ulteriormente, quello fenomenologico-filosofico è un atteggiamento mosso da amore per l’essenziale nelle cose, vale a dire, in primo luogo e almeno per ora negativamente, libero, purificato da quella struttura relazionale in senso stret-tamente biologico (cfr. FOF:66) che lega le cose e il mondo agli impulsi, ai desideri, ai bisogni e alle condizioni interne dell’organismo, e viceversa. In negativo, dunque, quest’atto, ben lungi dall’essere meramente conoscitivo, si caratterizza come annullamento, recisione e inibizione delle tendenze pulsionali che caratterizzano l’essere vivente in generale (e l’uomo in particolare) nel suo rapporto con le cose, che ora
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appaiono non più come esistenti solo relativamente a e utili in vista di, ma come offerentesi in modo autonomo, auto-datità (Selbstgegebenheit).
È fondamentalmente un presupposto di ordine etico che consente a colui che si dedica alla filosofia di predisporsi, a differenza soprattutto di colui che osserva scientificamente, al sapere e alla conoscenza. Non di un tipo particolare, né dotato di maggiore profondità o elevatezza. Se la filosofia, e essa soltanto, è essenzialmente attività conoscitiva, essa può que-sto sulla base di una precondizione etica, del darsi prioritario e precedente di un valore e di un atteggiamento rivolto al va-lore nella fondazione dell’atto conoscitivo stesso. C’è un at-teggiamento morale (moralische Haltung) che è precondizione essenziale necessaria (wesensnotwendige Vorbedingung) per quel particolare genere di conoscenza che si chiama filosofica (cfr. FIL:257), una forma di vita senza la quale il conoscere filosofico è impossibile, e che consiste proprio nel supera-mento di tutti gli atteggiamenti solo pragmatici verso l’esistente.
Alla radice dell’idea per cui la conoscenza filosofica sia qualcosa di essenzialmente diverso da una faccenda per eru-diti, vi è la convinzione che
per la conoscenza pura di un determinato oggetto esi-stente sia presupposta proprio una certa forma di vita mo-rale duratura (moralische dauernde Lebensform) e che precisa-mente le illusioni metafisiche (metaphysischen Täuschungen) siano legate all’atteggiamento “naturale” e a quello pre-valentemente “pratico” [tecnico-scientifico] verso il mondo (FIL:259).
Il percorso metodologico conoscitivo in senso stretto del-la filosofia richiede dunque del-la disattivazione di una tendenza morale più che logica – quella che porta a rinchiudere l’essere nei limiti dell’essere oggettivabile, e dunque a non tenere debi-tamente in conto della distinzione tra l’essere degli oggetti (e dei non-oggetti) e l’essere-oggetto dell’essere – in grado di condurre verso una differente forma d’essere della vita
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dell’uomo, a permettere un passaggio e una conversione da una forma di vita orientata al bisogno, al dominio e al con-sumo, a un’altra guidata dall’interesse a partecipare della realtà es-senziale, dell’essenza delle cose (cfr. CUSINATO 2017a: 375-387).
La fenomenologia delle forme di vita finora esposta – dove la specificazione “di vita” è un genitivus subiectivus, che sta a indicare un atteggiamento (non solo quello fenomeno-logico) verso le cose che scaturisce dalla pienezza del rap-porto vissuto con la «pesante pienezza dell’essere, delle qua-lità e del divenire infinitamente vario ed eterogeneo» attra-verso cui prende forma, appunto, la vita (cfr. anche NDB:
124e 138) – consiste nel tentativo di far vedere fenomeno-logicamente quegli atteggiamenti innanzitutto etici con cui ci si dispone verso le cose, e che determinano il tipo di persona con il suo intimo ordine di valori, vale a dire il grado d’interesse alle cose e l’importanza da queste assunte in rela-zione al diverso genere di disposirela-zione nei confronti del mondo. Colui che assume l’atteggiamento proprio della co-noscenza filosofica, affermando la condizione (Bedingung) in-sita nell’essenza delle cose stesse, del darsi autonomo e indi-pendente (Selbstgegebenheit) del dato, edifica la sua forma di vita pratica (pratktische Lebensweise) tentando di tr-ascendere realmente a una condotta e a una disposizione svincolata dalla relazione con il centro psico-fisico e con la costituzione bio-logica umana, «per gettare poi uno sguardo sull’essere di tut-te le cose» (FIL:277).
È all’interno di una condotta morale rivolta a valori, per dir così, sovravitali che ha luogo quel processo di ascesi che è, prima di ogni cosa, superamento di quell’impedimento mo-rale che ostacola l’apertura alle e delle cose in sé stesse. Ri-durre all’essenziale le cose significa in prima istanza rimuo-vere quei vincoli che legano l’essere delle cose alla semplice sfera dell’ambiente-proprio dell’uomo, e con «riduzione fe-nomenologica» si indica nient’altro che l’atto con cui ci si pre-dispone all’essere e al darsi in se e per sé delle cose in di-rezione dell’essere assoluto svincolandolo dalla relatività alla vi-talità o dalla relatività dell’essere (Seinsrelativität) in generale, e
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perciò anche da qualche specifico sistema di impulsi corporei e sensibili.
La riduzione in quanto conversione e pre-disposizione all’essenza comporta dunque un’auto-limitazione (Selbstbegrenzung) della filosofia come tale e dell’uomo che cerca di arrivare fino al punto in cui l’oggetto della filosofia giunge a possibile auto-datità. Tale auto-limitazione si realizza a partire dalla combi-nazione di alcuni atti morali fondamentali:
1) l’amore di tutta la persona spirituale nei confronti del valore e dell’essere assoluti; 2) l’umiliazione dell’io e del sé naturali; 3) il dominio su di sé e l’oggettivazione – possibile solo attraverso di esso – degli impulsi istintivi (Triebimpulse) della vita vissuta, che si dà come “vivo-corporea” (leiblich) e si fonda nel corpo-vivo (FIL:
283).
In primo luogo, l’amore inteso come atteggiamento fon-damentale personale verso le cose di tutto l’uomo rimanda a quanto si diceva poc’anzi a proposito dell’anteriorità delle qualità valoriali e delle unità di valore rispetto all’essere neu-trale delle cose. Primariamente, il centro personale degli atti umani è sede dell’amore, non della conoscenza: tutti quei tipi di atti specificamente emozionali con cui i valori giungono a pre-datità, e che sono anche le fonti materiali di tutti i giudizi di valore secondari, nonché di tutte le norme e le obbliga-zioni, costituiscono il comune anello di congiunzione sia per la no-stra condotta pratica sia per tutta la nono-stra conoscenza e ri-flessione teoretica. Dal momento, però, che all’interno del gruppo di questi atti emozionali,
l’amore e l’odio sono i modi di agire più originari, com-prensivi e fondativi rispetto a tutti gli altri genere di atti (avere interesse, sentire [Fühlen], preferire, ecc.), essi co-stituiscono anche la radice comune del nostro comporta-mento pratico e teoretico; essi sono gli atti fondamentali, in cui la totalità della nostra vita teoretica e pratica trova e mantiene la sua unità ultimativa. Come si può vedere, questa dottrina […] afferma un primato dell’amore e dell’odio
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tanto rispetto a tutte le specie di “rappresentazione” e di
“giudizio”, quanto rispetto a ogni “volere” (FIL: 269).
Sulla base di tale priorità, nell’ordine di fondazione degli atti, del Wert-nehmen sul Wahr-nehmen, gli oggetti di ogni atto conoscitivo devono essere amati o odiati, prima di essere co-nosciuti, analizzati e giudicati con l’intelletto.
Ovunque colui che ama (Liebhaber) precede colui che conosce (Kenner), e non si dà alcun ambito dell’essere (sia di nu-meri, stelle, piante, relazione storiche, cose divine), la cui indagine non passi attraverso una fase empatica, prima di entrare nella, fase dell’analisi neutrale – una fase che coincide con una sorta di trasposizione metafisica dell’ambito di indagine (ossia della sua falsa elevazione alla sfera della rilevanza “assoluta”) (FIL: 265).14
In particolare, e con riferimento alla direzione, per così dire, ascetica della riduzione, l’amore si determina come quel complesso di atti dinamici che conduce a entrare in contatto con le cose disattivando i filtri selettivi della costituzione bio-psichica, al di là quindi della loro rilevanza organica, trascen-dendo la relatività esistenziale degli oggetti rispetto al nostro essere. Intraprendendo questa via, ci s’imbatte in un’esperienza fondamentale, ovvero la scoperta di un ambito di vissuti inten-zionali i quali
trascendono la sorda esistenza di quegli stati corporei a cui soltanto è possibile attribuire sensatamente il nome di sensazioni; un’esperienza che a grandi linee fa però con-tinuamente anche l’uomo naturale, ne abbia egli co-scienza a livello riflessivo oppure no. Per descrivere quest’esperienza basta dire poco: anzitutto, la persona spirituale in ogni suo atto […] trascende ciò che le è “dato”
14 Anche se svolte in un contesto profondamente differente, tali rifles-sioni sulla connessione di teoria e prassi, riflessione e interessamento, e sull’ordine di priorità effettivo, si sintonizzano, almeno nel comune in-tento di fondo, con la questione del coinvolgimento affrontata da FABRIS 2009: 11-74.
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come “limite” imposto dal corpo […]; in secondo luogo, la quantità di contenuti di questi atti spirituali è sempre più grande rispetto alla quantità di stati corporei a essi corrispondenti (MOS: 88-89).
La conoscenza come atto partecipativo di un ente all’esser-così di un altro ente all’interno di questo movimento diretto al di là dell’io-psichico e del corpo-vivo, e il momento determinante per l’esecuzione degli atti che portano a questa particolarissima forma di partecipazione che è la relazione conoscitiva consiste nella tendenza di quella X – spirito, uo-mo o coscienza, al uo-momento non ulteriormente specificabile – a trascendere il proprio essere e la propria esistenza per diri-gersi verso l’esser-così di un altro ente, considerato come ens intentionale «e che noi, in un senso assolutamente formale, chiamiamo “amore”» (COL: 108).
La questione se e come noi si esca dalla cosiddetta “co-scienza” verso le cose, non è di conseguenza per noi sen-sata. Coscienza o sapere di sapere (con-scientia) presup-pongono già il sapere estatico […]. Senza una tendenza dell’essente che “sa” a uscire da sé e ad aprirsi alla parte-cipazione a un altro essente, non è assolutamente possi-bile alcun sapere. Non trovo nessun altro termine per designare questa tendenza se non quello di “amore”, dedi-zione: rottura per così dire dei limiti del proprio essere e del proprio essere-così mediante amore (Ibid).
Da questo è probabile si capisca perché soltanto all’amore competa di condurre nella direzione dell’essere assoluto (cfr. FIL:
285), e prima ancora cosa si debba intendere con il concetto di essere assoluto. Perché se è vero che l’intenzionalità è ciò che caratterizza in senso pregnante quel centro di atti che in-staura un rapporto conoscitivo con le cose, e con ciò si ca-ratterizza come una delle parole-chiave dell’atteggiamento fenomenologico, è pur vero che assoluto, in questo senso, è proprio quell’essente che «rimane lo stesso anche dopo ogni possibile trasformazione pratica del mondo legata ai nostri
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interventi» (COL: 126). Se questa tendenza estatica precede il momento dell’intenzionalità intesa come proprietà dei vissuti di essere coscienza-di-qualcosa (cfr. HUSSERL 2002:209), al-lora il tema fondamentale della fenomenologia sarà una con-tro-intenzionalità, vale a dire ciò che oltrepassa e precede tutte le funzioni del pensare, osservare, conoscere, inferire, rappre-sentare e giudicare, che solo conducono a una relazione co-noscitiva con le cose stesse, senza risolversi né in quella rela-zione né nelle cose.
Come si avrà modo di vedere quando sarà sottoposto a chiarificazione fenomenologica l’eidos dell’atto d’amore, vale in generale che quello fenomenologico è un atteggiamento rivolto non al momento costitutivo-trascendentale della realtà (cfr. HUSSERL 2002:153; 374),15 ma è dichiaratamente quel metodo che,
procedendo da ciò che viene dopo, cioè la nostra espe-rienza, porta ciò che viene prima, cioè il mondo stesso – nel suo essenziale e di valore – a presentarsi. Essa è un attenersi ai fatti, scontando l’idea che un pensiero senza presupposti, consumandosi nel ripiegamento su se me-desimo, non fornisca “cose”. Innanzitutto sta l’“autodato”, per cui […] [la] distinzione-correlazione husserliana di significato/significare è ripresa da Scheler e riformulata in una prospettiva ontologica, nel senso che nel pensare, e anche nel volere e nell’amare, non ab-biamo il riferimento a cose esterne, ma a cose di pen-siero, di volere, di amore, che sono presenti, nel
presen-15 Per Husserl, l’unica dimensione che non può essere ulteriormente ri-dotta è quella che egli stesso definisce la coscienza pura nel suo proprio essere assoluto. In questo caso, Husserl scrive: «l’essere della coscienza […] ver-rebbe sì necessariamente modificato da un annientamento del mondo delle cose, ma non ne sarebbe toccato nella sua propria esistenza. […]
Dunque nessun essere reale […] è necessario all’essere della coscienza stessa […] l’essere immanente è dunque indubitabilmente un essere assoluto [corsi-vo nostro] […] d’altra parte il mondo della res trascendente è interamente riferito alla coscienza» (HUSSERL 2002: 120-121). La coscienza è dunque ciò che racchiude in sé tutte le trascendenze del mondo reale e le costitui-sce per come sono in sé.
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tarsi da parte loro. […] La conoscenza è nell’amore, per cui nulla viene conosciuto se non è a sua volta preso come degno di essere conosciuto, anzi, prima ancora, se non ha in sé la dignità dell’essere conosciuto. Accanto-nando questo presupposto – nonostante lo abbia intravi-sto – Husserl non mette la fenomenologia a capo della teoria della conoscenza, ma ne fa una teoria della cono-scenza. […] Le cose non sono né nel concetto né in una percezione disinteressata – o lo sono solo secondaria-mente – ma nella presa di interesse e ci risultano nel co-involgimento» (D’ANNA 2013:27-28).
Data questa incurvatura in senso onto-assiologico della feno-menologia (cfr. ZHOK 1997: 208), le cose non sono quindi semplicemente “dati” da assumere attraverso la coscienza, ma sono proprio nel loro venire avanti nell’atto non-oggetti-vante dell’amore come interessamento puro. La conoscenza non viene dopo per il semplice ma evidentissimo fatto che ogni atto conoscitivo implica una presa di interesse, e che quindi si conosce tanto meglio una cosa quanto più la si ama, ma ancor più radicalmente che una cosa ha bisogno di essere amata per esserci, e di conseguenza (e solo in un secondo momento) essere conosciuta (cfr. AMO: 143).
Tradotto nei termini di quanto detto poco fa a proposito dell’apertura all’esistente “contro-intenzionale”, questo mo-vimento estatico a prender parte dell’esistenza e dell’esser-così di un ente risulta fondativo per l’atto di conoscenza. È come se la persona intera, nella sua struttura d’atto globale, vivesse effettivamente e pienamente in primo luogo nelle cose, nel mondo e in tutte le modalità dell’atto, anche in quelle alogi-che, facendo esperienze che non hanno prima facie nulla a che vedere con l’esperienza conoscitiva, e che forniscono conte-nuti immediati e correlazioni che non sono affatto ricavabili da un puro pensiero (cfr. OAM: 159).
Nell’interpretazione più temeraria, si potrebbe anche in-tendere l’amore come ciò che rende operante, attiva la riduzione fenomenologica, con ciò disattivando la tendenza ad assumere e costituire ciò che si offre come pieno auto-dato invece che
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accoglierlo nel suo essere assoluto, indipendente dal sistema di pulsioni e di bisogni, dalla pulsione vitale di controllo sulla natura, e inoltre dal contingente flusso temporale di co-scienza di questo o quell’uomo (cfr. CFM: 155).16 L’amore per l’essenziale delle cose, per il loro assoluto essere e valore, si oppone alla fonte della relatività dell’essere (Seinsrelativität) che si trova in ogni uomo (cfr. FIL: 285), facendo sì che a restare come residuo sia ciò che è in modo assoluto, «fino al massimamente indipendente dalla coscienza umana» (CFM:
156).17
In secondo luogo, se innanzitutto stanno le cose, il puro quid del mondo e dei suoi contenuti indipendentemente da come questo quid e la sua relazione si dispongano nella sfera dell’esistenzialmente relativo allo spazio, al tempo, ecc., e dunque indipendentemente da ogni loro essere qualcosa per una coscienza intenzionale, la conoscenza fenomenologica con il suo portare le cose alla vista ha dietro di sé non solo la presa di posizione nell’amore, ma anche il mettersi all’ascolto nell’umiltà (cfr. D’ANNA 2013: 30), come quel «costante, in-timo pulsare della sollecitudine spirituale nel nucleo della no-stra esistenza, sollecitudine verso tutte le cose, buone e
cat-16 Flusso temporale che, come sottolineato anche in precedenza, non scorre con la stessa “regolarità” e “linearità” del tempo oggettivo-cronologico, bensì si condensa nel vissuto dell’ampiezza variabile in senso decrescente della possibilità-di-fare-esperienza. Cfr. MOS:42-43. In realtà, afferma Sche-ler, «la nostra vita è a noi interiormente presente in ogni istante come una totalità conclusa. […] Così ogni esperienza di vita relativa a noi stessi com-pare sullo sfondo di un’unità di vita delimitata temporalmente tanto in avanti quanto all’indietro, un’unità che in quanto tale è sempre presente in ogni vissuto» (MOS: 49). Contrariamente al flusso dei cambiamenti e dei movimenti della natura inanimata – il cui “tempo” è un continuo uni-forme, che va in una direzione determinata, senza la ripartizione tra pas-sato, presente e futuro -, nell’esperienza di ciascun momento della nostra vita temporale indivisibile sono co-presenti la struttura e l’idea della totali-tà della nostra vita e della nostra persona (cfr. PER:163).
17 Una filosofia che disconosca o addirittura neghi pregiudizialmente l’appello alla trascendenza avanzata da tutti gli atti alogici, sarebbe come
«un uomo che chiude i suoi occhi sani, volendo percepire i colori con le orecchie o con il naso» (OAM: 161).
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tive, belle e brutte, vive e morte» (VIR: 160)18 che precede nell’ordine di fondazione lo stesso moto emozionale della meraviglia (Verwunderung) di fronte alla prima e più immediata evidenza all’interno dell’«ordine delle evidenze più fondamentali»
(FIL: 291), vale a dire al fatto che «in generale qualcosa è (überhaupt Etwas sei), o detto più drasticamente che “non c’è il nulla” (daß nicht Nichts sei)» (Ibid).19 Conoscere significa innanzitutto pre-disporsi all’esistenza in modo da svincolarsi dall’esistenza contingente di qualcosa e dai modi di esistenza
18 L’umiltà «apre l’occhio dello spirito per tutti i valori del mondo. Solo l’umiltà, che parte dal fatto che niente è meritato e tutto è dono e miracolo, fa guadagnare tutto! […] L’umiltà è quella profonda arte dell’anima, in cui essa si libra oltre la misura consistente nel semplice lasciarsi vivere e flui-re. Ci sono due vie di una cultura dell’anima e di un superamento della sua ristrettezza e opacità naturale. La prima è la via della tensione dello spi-rito e del volere, della concentrazione, dell’estraniazione autocosciente dalle cose e da sé stessa. […] La seconda è la via della distensione dello spi-rito e del volere, dell’espansione e del crescente spezzare i fili che conti-nuano a incatenare automaticamente anche nell’atteggiamento rilassato, inattivo, il mondo, Dio, gli uomini e gli altri essere viventi al proprio or-ganismo e al proprio io, la via dell’unione con le cose e con Dio. […] Chi
18 L’umiltà «apre l’occhio dello spirito per tutti i valori del mondo. Solo l’umiltà, che parte dal fatto che niente è meritato e tutto è dono e miracolo, fa guadagnare tutto! […] L’umiltà è quella profonda arte dell’anima, in cui essa si libra oltre la misura consistente nel semplice lasciarsi vivere e flui-re. Ci sono due vie di una cultura dell’anima e di un superamento della sua ristrettezza e opacità naturale. La prima è la via della tensione dello spi-rito e del volere, della concentrazione, dell’estraniazione autocosciente dalle cose e da sé stessa. […] La seconda è la via della distensione dello spi-rito e del volere, dell’espansione e del crescente spezzare i fili che conti-nuano a incatenare automaticamente anche nell’atteggiamento rilassato, inattivo, il mondo, Dio, gli uomini e gli altri essere viventi al proprio or-ganismo e al proprio io, la via dell’unione con le cose e con Dio. […] Chi