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Tra le molte particolarità del wakamono kotoba la più interessanti sono quelle attraverso le quali è

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informale e la creazione di neologismi non sono fenomeni che ci stupiscono in uno slang, mentre

merita particolare attenzione il fatto che nella sfera stilistica del wakamonogo sia presente un vero e

proprio fenomeno di language crossing o “sconfinamento linguistico”. Ben Rampton (2005), che ha

studiato a fondo questo fenomeno sociolinguistico, definisce il language crossing come una forma

particolare che un parlante fa di varianti/varietà linguistiche associate ad un gruppo sociale a cui

egli non appartiene. Nel nostro caso: il suffisso –damonde ~ (suffisso che indica una

conseguenza, simile al dakara del giapponese standard) è tipico del dialetto della zona del

Tōkai17, ma è utilizzato nell’ambito del linguaggio giovanile di tutto il Giappone; stesso discorso

vale per il suffisso –ssho ~ (il deshō del giapponese standard) che invece è tipico

dell’isola di Hokkaidō. Dunque per quale ragione avviene questo fenomeno sociolinguistico? Molti

linguisti giapponesi (come i già citati Yonekawa e Kitahara, ad esempio) che hanno dedicato le loro

ricerche all’uso che i giovani fanno della lingua hanno notato come questi adoperino il wakamono

kotoba come veicolo di giocosità, divertimento e senso di libertà. Nelle sue ricerche, Ramtpon

costata appunto che uno degli scopi per cui si viene a cerare il language crossing è proprio questo:

divertire e divertirsi facendo uso di una lingua della quale comunità non si appartiene. Nel caso dei

giovani giapponesi questo avviene “appropriandosi” di dialetti di altre regioni, ma in qualche modo

questo uso reiterato (e poi integrato in pianta stabile in uno stile linguistico) di espressioni dialettali

altre, deve essersi espanso dalla zona d’origine fino a raggiungere un’area culturale inerente a tutta

la nazione per una qualche ragione socioculturale. Mase (2003) ci fa notare come, ad esempio, si

pensava che il suffiso -jan ~ fosse tipico della prefettura di Yamanashi intorno la terza

decade del periodo Meiji18, e come si fosse poi espanso prima verso Nagano e poi Shizuoka, ma in

realtà questo suffisso era stato utilizzato in passato a Yokohama e nelle zone vicine a Tokyo già

tempo addietro, ed è stato poi nuovamente reimportato dalla cultura giovanile di quelle zone fino a

diventare di uso comune in tutto il Giappone. Dunque viene da chiedersi perché i giovani

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Subregione del Chūbu, a sua volta regione al centro dell’isola di Honshū.

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giapponesi abbiano pensato di reintrodurre nel loro vocabolario delle espressioni che non solo

oramai non gli appartenevano più, ma che sono anche totalmente contrastanti con la loro cultura

presente e sono proprie di due o tre generazioni antecedenti alla loro. È possibile ipotizzare che,

essendo il divertimento e lo scherzo, alcuni dei fattori per cui il language crossing viene utilizzato, i

giovani volessero in qualche modo rendere una parodia dei modi di parlare ritenuti “da vecchio”,

facendo da contrasto e provocazione sia alle generazioni precedenti sia al mondo contemporaneo

che invece chiedono proprio ai giovani modernità e innovazione. A dare sostegno a questa ipotesi ci

viene incontro Roger Hewitt (1986) che con la sua ricerca nelle scuole di Londra ha trovato come

gli adolescenti afro-caraibici trovassero provocatorio e fastidioso l’uso del creolo da parte di bianchi

e asiatici della loro scuola, ritenendo che questa fosse addirittura una forma di furto di una identità e

lingua altrui. In ogni caso non si può affermare che il crossing si presenti esclusivamente come una

forma di disturbo: Rampton (2005) in una ricerca analoga a quella di Hewitt, nota sì che questo uso

della lingua fosse malvisto dai reali appartenenti alla comunità della lingua “derubata”, ma solo nei

casi in cui questo comportamento fosse realmente percepito come appositamente provocatorio.

Alcuni degli adolescenti intervistati19 sostenevano invece di trovare divertente il crossing se

mantenuto entro certi limiti, soprattutto se gli utilizzatori facevano parte della propria cerchia di

amici. Argomento per noi ancora più rilevante è dovuto al fatto che in questa ricerca, Rampton si

accorga di come ci sia una stretta correlazione tra l’uso del crossing e la presenza degli adulti e che,

ancora una volta, non sempre questo sia uno strumento di provocazione o “ribellione” nei confronti

degli adulti, ma possa essere un fenomeno che si presenti allo stesso modo in situazioni non

conflittuali con il mondo dei “grandi”. È dunque ovvio che i casi di sconfinamento linguistico

vadano osservati caso per caso e sviscerati a seconda del contesto situazionale e delle condizione

sociali, culturali e storiche in cui si trovino i protagonisti di questo fenomeno: non sarebbe strano

19 Nella ricerca presentata in “Crossing – language and ethnicity among adolescent”, Rampton analizza i

comportamenti sociolinguistici in delle scuole di alcuni quartieri di Londra, focalizzandosi sull’uso del crossing da parte degli adolescenti, in particolare sullo sconfinamento linguistico che questi attuavano riguardo le lingue creole afro- caraibiche, il punjabi, e le stilizzazioni dell’inglese degli asiatici.

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pensare che i ragazzi creoli afro-caraibici del primo esempio non vedano con simpatia l’utilizzo di

forme stilizzate della propria lingua da parte di ragazzi inglesi come retaggio di un’ostilità verso i

discendenti dei propri colonizzatori. Tornando al caso giapponese, l’ipotesi che qui sosteniamo è

che l’uso di forme dialettali lontane dalla propria zona di origine, un uso ritenuti “da vecchi”, deve

essersi diffuso come forma provocatoria/parodistica: se ai giovani si chiede innovazione, questi si

“ribellano” e provvedono sì al rinnovamento, ma scimmiottando e provocando il mondo degli

adulti, inserendo in pianta stabile e in maniera sistematica nel proprio slang una parlata che

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Capitolo 3

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