Il primo intervento di Pica su Zola costituisce anche una delle sue prime prove critiche. Non aveva egli scritto, infatti, sin lì che due recensioni, una alle poesie di Sully Prudhomme1, l’altra alle Nuove liriche di Naborre Campanini2, oltre ai brevi racconti dei quali si è già accennato3. L’articolo Leggerezza4 è una replica, caustica, a un intervento
di Bordi su Zola, che Il Genio e l’arte di Zola5 appunto si chiamava. La leggerezza del
titolo è quella che commette il critico trattando con sicumera d’opere delle quali non ha che una conoscenza sommaria. Nella sua risposta, Pica dispiega, con malcelato orgoglio, la sua padronanza della letteratura francese e debutta:
1 Rec. a Sully Prudhomme, Paris 1877-1878, in “La Crisalide”, II, 24, 6 luglio 1879, pp. 283-284. Cfr. supra
p. 12.
2 Poeta di gusto carducciano e studioso della storia canossiana (accanto ai resti del castello di Canossa è oggi
un piccolo museo a lui dedicato, Naborre Campanini (1850-1925) pubblicò le Nuove liriche nel 1879 (la seconda edizione è del 1884) per i tipi di Zanichelli. La recensione di Pica (N. Campanini, Nuove liriche) apparve su “La Crisalide” (II, 24, 16 novembre 1879, pp. 464-466).
3 Cfr. supra p. 12.
4 Leggerezza, in “La coltura giovanile”, 15, 15 novembre 1880, pp. 1-6.
5 Il saggio di Bordi apparvenell’anno 1880 in diverse puntate, sulle stesse colonne de “La coltura giovanile”
che avrebbero ospitato la replica di Pica, la quale sopraggiunse dopo cinque mesi, prima che le dispense del Bordi fossero terminate e il suo discorso compiuto. Una precocità alla quale Pica fu tratto dalla propria intemperanza. Così almeno dichiara: “Dalla lettura del principio dell’articolo ebbi una impressione piuttosto sgradevole (…) ciò non ostante continuai pazientemente a leggere l’articolo sullo Zola per 5 o 6 mesi, poiché voi ce lo davate e continuate a darcelo a brani a brani, ma arrivato ad Ottobre e l’articolo non mostrando di essere prossimo alla fine ed avendo io calcolato che la mia pazienza non avrebbe resistito alla fatica penosissima di seguirlo per altri 5 o 6 mesi, ho deciso di non aspettare più a lungo a fare uno sfogo che debbo ai miei nervi”.
125
Io ho un sistema nervoso molto delicato e quindi molto irritabile; ora, quando io, che, per una lettura abbastanza vasta e svariata di libri francesi, conosco discretamente la letteratura francese, ho letto con quanta leggerezza e disinvoltura il Signor Bordi la bistratta, mostrando troppo spesso di non conoscere e libri e scrittori, anche quando di essi parla con tuono autorevole e sprezzante il mio sistema nervoso, che è come sopra vi dicevo facilmente irritabile, è entrato in grande orgasmo.1
Con una certa baldanza giovanile che, di lì a qualche anno, si stempererà in equilibri tonali più dimessi, Pica elenca la genealogia delle opere di Zola, contestando l’idea d’una loro originalità assoluta. Prima v’era stata la Germinie Lacerteux, argomenta il critico napoletano, e prima ancora Champfleury e Balzac dal quale tutta la linea del realismo discende. Per quanto molte delle idee esposte siano derivate da recenti letture, è sorprendente la sicurezza con la quale Pica traccia in questo articolo i contorni della letteratura francese (egli non aveva in fondo che 18 anni!): stupisce l’esigenza, già tanto chiara, d’una corretta collocazione dei fenomeni studiati, la comprensione dei processi di sviluppo e cristallizzazione delle poetiche, della diffusione e metamorfosi di una idea, quella del realismo, attraverso una variegata folla di scrittori. Leggerezza come anche
Corrotti od incoerenti?2, breve saggio d’un anno più giovane dove sono egualmente
trattate tematiche legate al Naturalismo, sono articoli dall’aria disinvolta, ribattute d’interventi altrui, puntualizzazioni, nel tono a volte della lettera familiare a volte della ciarla; e ancora colpisce, tuttavia, la volontà di trasparenza e di sintesi che queste
difficiles nugae tradiscono.
Nel merito dell’argomento può dirsi questo: che, forse per influenza di Martini, allora prestigioso direttore del Fanfulla della domenica, l’atteggiamento di Pica nei riguardi di Zola è dapprincipio piuttosto cauto. Egli ammette, innanzitutto, un certo indulgere da parte del romanziere francese nelle scene di lussuria, una certa qual lubricità compiaciuta della pagina (cosa che, viceversa, negherà nei Goncourt) e una certa tendenza alla ridondanza. Ne avversa inoltre decisamente il teatro: la Thèrese Raquin è un “dramma,
1 Leggerezza, in “La coltura giovanile”, 15, 15 novembre 1880, p. 1.
126
che per essere vero cade nell’esagerazione di una produzione da arena”1, Les hèritiers
Rabouillet una “serie di scene lunghe, scucite, monotone nelle quali per tre lunghi atti si
ripete la stessa situazione, che comincia col far ridere e finisce col far sbadigliare”2, Le
Bouton de rose, infine, una “commedia (…) che (…) avrebbe dovuto risvegliare il
ricordo del gran Molière, ma che in realtà merita di stare tra «Les domino, couleur di
rose” [sic] e «Bebè” commedie, che supera per dévergondage, ma alle quali è molto
inferiore per vivacità comica”3. Anche il giudizio sull’opera critica di Zola è severo: ai
suoi due maggiori libri di critica pubblicati fin lì, cioè Mes haines, Causeries littéraires
et artistiques4 e Le roman contemporain5, Pica rimprovera la faziosità delle opinioni, le
idiosincrasie tutt’affatto personali che inquinano la serenità delle valutazioni. Giovane egli ha già un’idea chiara di quel che un savio critico non deve fare: mischiare nel calice del giudizio ragioni oggettive e personali simpatie. Le pagine di Zola gli paiono, viceversa, animate d’uno spirito ghibellino:
“Mes haines”, raccolta di suoi articoli, non rivelano un critico, ma uno scrittore, che guidato dalle sue simpatie e dalle sue antipatie, ora è entusiasta ed esalta il libro e lo scrittore che gli è simpatizzato, ora è sprezzante e gitta giù l’oggetto delle sue antipatie; “Le roman contemporain
en France” non è uno studio accurato, preciso indipendente, ma invece uno sfogo di bile contro
quei romanzieri francesi, che, benché siano di una scuola letteraria diversa dalla sua, godono sempre le simpatie del pubblico; le sue critiche drammatiche non peccano certo d’imparzialità (…)6
1 Leggerezza, in “La coltura giovanile”, 15, 15 novembre 1880, p. 4. 2 Ivi, p. 5.
3 Ibidem.
4 A. Faure, Paris, 1866.
5 Si tratta di un articolo che uscì come supplemento al “Figaro” del 22 dicembre 1878 e che riproduceva un
precedente scritto di Zola, Les Romanciers contemporains, apparso sul Messager de l’Europe (V, 1-13 settembre 1878), il quale riproponeva a sua volta una serie d’articoli già apparsi su Bien Public dall’8 al 22 aprile 1878.
127
Certo Pica rileggerà più tardi\ Mes haines, come ci fa noto una lettera inviata a Pagliara1 con un po’ forse di leggerezza in meno e facendo suoi alcuni degli acrimoniosi giudizi del romanziere francese ma il concetto di critica qui espresso non muterà lungo il corso della sua carriera.
Prima del grande ciclo d’articoli su Zola, Pica tornò a parlare del Naturalismo francese in un saggio breve e somigliante ad una conversazione briosa. Col quel piglio baldanzoso che distingue questi suoi aurorali esercizi di diatriba letteraria, il critico partenopeo si slancia sull’argomento favorito di quegli anni, l’aura di licenziosità che circondava Parigi e gli uomini che la descrivevano. “A Parigi fumano l’oppio” scherzerà molti anni più tardi Palazzeschi nella celebre poesia Visita alla contessa Eva Pizzardini Ba; all’epoca di Pica nella capitale francese c’era il Can-can e il Moulin Rouge e in Italia si ciangottava molto su questi romanzi che lasciavano frugare il lettore nelle case di malaffare e nei salotti delle ruffiane; Pica ne trasse un articolo, per il periodico La libellula, che s’intitolava Corrotti o incoerenti?2. Vi si tratta la morale dei romanzi e i suoi rapporti
con l’integrità etica della società. L’articolo nasce d’una costola della celebre conferenza sull’ Assommoir, tenuta nel 1879 da Francesco De Sanctis al Circolo Filologico di Napoli; la lezione, dattilografata e successivamente rivista, sarà infine raccolta, assieme agli altri interventi su Zola, nei Saggi critici. Nell’edizione curata da Luigi Russo per la Laterza si trova al terzo volume. Nel lungo discorso di De Sanctis i temi della corruzione e dell’ambiente s’incalzano più volte; se ne tratta in passi come questo:
Quando in un quartiere tutti fanno a un modo, dico: “Perché non farò io il simile?” E quando, vinta la resistenza, una cosa si fa per la prima, la seconda e la terza volta, nasce l’abitudine: quello che prima era scandalo diviene cosa abituale: ridete voi e ridono tutti. Questa è la corruzione di un popolo. Finché rimane la voce potente del senso morale offeso, quella non è corruzione. (…) Quando complici sono tutti, scrittori e pubblico, quella è corruzione, quella è decadenza.3
1 In P. Villani, La seduzione dell’arte, Pagliaro, Di Giacomo, Pica, i carteggi, cit., p. 175. Cfr. la pagina 65n
di questo studio.
2 V. Pica, Corrotti o incoerenti, in “Libellula”, IV, nn. 2 e 3, 15 gennaio, pp. 1-2, e 1 febbraio 1881, pp. 1-2. 3 F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari, Laterza, 1963, vol. III p. 280-285.
128
Seppure Pica diverga dal De Sanctis nell’opinione che Zola sia nient’altro che un liquidatore del vecchio mondo idealista1, un crepuscolo erroneamente confuso con
un’aurora, come Debussy diceva di Wagner, i due critici s’occupano, nei loro rispettivi interventi, di motivi simili e d’uno più di tutti: l’esibizione che si fa in questi romanzi d’esistenze tribolate germogliate nella turpitudine.
Il ragionamento che si snoda lungo le quattro pagine di cui consta Corrotti o incoerenti? è facile a seguirsi. Non potendo una società definirsi corrotta fintantoché i vizi non siano oltre che praticati dagli uomini anche glorificati dai poeti, il giudizio ultimo su di essa dipende dall’arte che vi si produce. Se nell’arte la virtù resterà in onore, gli uomini che traligneranno potranno dirsi incoerenti ai loro stessi principi ma non corrotti; s’essi, viceversa, non sapranno più scernere il bene dal male e leveranno cinicamente, per bocca dei loro poeti, ditirambi al vitello d’oro, saranno allora irrimediabilmente corrotti. Il discorso, ridotto così alle sue giunture, sarebbe quello di un tetro predicatore, se Pica non lo conducesse ad un trotto brioso. Gli esempi di corruzione che adduce sono tre: l’antica Grecia, l’Impero romano e la Francia di Luigi XV. Ad ogni età risponde una figura ch’è quasi un emblema: la Grecia ha avuto l’etera, Roma la cortigiana, l’Ancien regime la favorita. Giacché l’etera, la cortigiana e la favorita ebbero in quelle epoche illustri cantori, se ne può concludere che gli uomini a quel tempo erano gioiosamente immorali e che d’ogni cosa si resero colpevoli salvo che d’incoerenza. Chi voglia dunque analizzare la complessione morale della società d’oggidì deve rivolgersi a quella letteratura che tratta del vizio per vedere di che colori vi sia dipinto. Deve leggere la
Dame aux camélias, deve leggere Nana. Quale partito prendono Zola e Dumas2 nei
confronti dei loro personaggi?
1 Così De Sanctis a chiusura della sua lezione: “Egli non è un creatore di arte nuova, e neppure un precursore
come si tiene. È un fenomeno, o se meglio vi piace, un sintomo. È il pittore della corruzione. Il bel mondo dell’arte ideale va in sfascio; e Zola raccoglie le macerie e te le butta sul viso. È la conclusione ordinaria di ogni demolizione, non è il principio di un nuovo edifizio. Il suo mondo animale è ottuso; Zola non intravede niente al di là” (Saggi critici, cit., p. 295).
2 Può stupire l’associazione di questi due nomi che tuttavia non è inedita. Dumas figlio si trova ad essere un
realista maggiore anche nelle pagine autorevoli di Cameroni e probabilmente anche nell’opinione di Capuana, che nella Giacinta, mischiò i moduli dell’uno e dell’altro scrittore.
129
Lo Zola, nel suo romanzo, non ha inteso idealizzare la cortigiana, che anzi ne ha voluto mostrare la vita corrotta in tutta la sua cruda verità per eccitare verso di essa il disgusto e la nausea: lascio da parte se vi sia o meno riuscito, basta solo il sapere quale fosse il suo scopo scrivendo Nana. Si è poi accusato molto vivacemente e molto leggermente A. Dumas figlio di aver voluto poetizzare la cortigiana nel tipo di Margherita Gauthier non riflettendo che il Dumas, col suo romanzo, e collo stupendo dramma da esso tolto (…) è stato ispirato dalla nobile idea della riabilitazione, che spandeva primieramente per il mondo il Cristianesimo, la sublime religione dell’amore e della quale, al principio di questo secolo, s’impadroniva dell’arte.1
Gli uomini del presente sono perciò per lo più incoerenti ma non corrotti perché i migliori fra loro sanno ancora riprovare il male ed additare il giusto.
Sullo stesso tema Pica ritornò due anni più tardi, in una recensione a Pot-Bouille, apparsa sul Fantasio2. Alcuni critici, come Cafiero di sopra il pulpito del Corriere del Mattino3,
avevano tuonato la solita omelia che diceva pruriginosi i romanzi di Zola. Pica rispose con gli argomenti già esposti nel saggio precedente, adattandoli questa volta, ancora più specificatamente, al caso di Zola:
A me dunque pare che, se l’immoralità potesse esistere nelle opere d’arte, si dovrebbe piuttosto muovere tale accusa contro quei romanzi, che, come ad esempio quelli della Sand, presentano l’adulterio idealizzato da un’aureola poetica, e non già contro un libro di schietta verità quale è “Pot-Bouille”, in cui invece l’adulterio è presentato in tutta la sua disgustosa ed abbominevole realtà.4
O ancora:
Non sarebbe cosa né facile né breve il voler raccontare distesamente la complicata matassa delle sei o sette storie borghesi che si svolgono in questo romanzo: vi dirò soltanto che in esso lo Zola
1 V. Pica, Corrotti o incoerenti?, In “Libellula”, IV, n. 3, 1 febbraio 1881, pp. 1-2
2 II, 7, 4 maggio 1882, pp. 1-2. La recensione fu poi raccolta dallo stesso Pica assieme ad altre recensioni dei
romanzi di Zola (Au bonheur des dames, La joie de vivre, Germinal, l’Oeuvre) nel volume All’Avanguardia, cit., p. 115-125.
3 Nel numero del 2 maggio 1882. 4 All’Avanguardia, cit., p. 123-124.
130
ha voluto mostrare tutta la profonda immoralità, tutta la disgustosa corruttela, che ritrovasi nella borghesia, sotto la maschera di severa autorità e di bonomia, e che quindi ha scelto una di quelle moderne case borghesi parigine dalle apparenze rispettabili e ne ha narrato due anni di storia intima, studiandola dal basso all’alto, dal casotto del portinaio alle camere della servitù nel granaio, rendendone le mura trasparenti, come se fossero di vetro.1
Codeste case borghesi Zola le popola d’individui della loro stessa misura, non dando, come aveva fatto invece Balzac, a personaggi ritagliati dal vero le proporzioni degli eroi dell’antica epopea. In Zola, gli uomini come le cose sono impastati d’una medesima sostanza, peritura e feriale: le case sono fatte di calce, gli uomini di carne, d’istinti e di sangue. Ecco Pica osservare:
Mentre Balzac aveva il vezzo d’ingrandire smisuratamente i protagonisti dei suoi romanzi, di dar loro delle proporzioni colossali, in modo che essi sembrino giganti, aggirantisi in mezzo ai nani, invece i moderni romanzieri naturalisti, i quali si preoccupano soprattutto di scrivere opere di verità, che siano quasi processi-verbali, ripugnano dal mettere in scena eroi e ritraggono invece uomini e donne nelle loro proporzioni precise, quali li mostra a noi tutti quotidianamente la realtà dell’esistenza ordinaria2
È Zola secondo Zola, un’analisi, cioè, del romanzo naturalista che fa proprie le critiche a Stendhal e a Balzac mosse ne Le Roman expérimental3. Qui non s’ammira in Pica tanto
l’originalità dell’idea, quanto piuttosto la sua mirabile capacità di sintesi. Quel che, in tanti critici italiani e stranieri, si trova sovente scompaginato nell’urgenza del contraddittorio come si stende invece pianamente nell’esposizione di Pica! Cosa manca dei caratteri del Naturalismo in questo scritto che, in fondo, altro non è che una succinta recensione? I tratti salienti sono tutti qui. Il Naturalismo privilegia la descrizione analitica sul segno sintetico ed in ciò, scindendosi dallo stile astratto del XVIII secolo,
1 Idem, p. 115-116.
2 V. Pica, All’Avanguardia, cit., pp. 116-117.
3 Pica, tuttavia, delle molte questioni poste da Zola individua una fra le problematiche centrali del realismo,
oggetto in anni a noi più vicini d’importanti studi quali, per esempio, i celebri Saggi sul realismo (Balzac, Stendhal, Zola e Nagy orosz realisták) di G. Lukács del 1946.
131
continua il realismo ottocentesco di Dumas e di Balzac. Zola, tuttavia, conduce talora le sue descrizioni al limite del virtuosismo, dimenticando i suoi personaggi, dimodoché, se tutte le arti nell’Ottocento paion tendere alla pittura1, il Naturalismo, nel particolare,
tende alla fiamminga. È un concetto che sarà sviluppato in altri articoli e, forse meglio che in altri, in Per un busto di Teofilo Gautier2 tra le cui pagine Pica si domanda se
“queste esitazioni tra le arti belle e la letteratura non ci rivelano già il carattere essenzialmente plastico e colorista del temperamento di Gautier, il cui principale merito rimane pur sempre di aver rinnovato i procedimenti letterari della descrizione, con effetti di rilievo e colore, chiesti in prestito alla scoltura ed alla pittura, creando così quello stile pittorescamente splendido, che è uno dei maggiori titoli di gloria del Romanticismo?”3
Ciò, naturalmente, non potrebbe dirsi d’ogni letteratura; la tedesca, ad esempio, pervenne assai prima a quella simbiosi con la musica, conclamata più tardi dal Simbolismo, ma l’osservatorio di Pica, e particolarmente in questi anni, è francese, con rare eccezioni. Con una strutturazione sempre chiara e trasparente, il discorso sui principi del Naturalismo ne diviene l’esposizione del metodo, coi debiti riferimenti alle due inchieste di Zola, l’una L’adultère dans la bourgeoisie e l’altra Les femmes honnêtes, col mostrare come questi materiali sian poi serviti al romanziere per costituire l’impasto di cui son fabbricate le varie Valérie Vabre, Marie Pinchon e Mme Hédouin. La recensione a Pot-
Bouille prosegue con un resoconto dettagliato della trama e si conclude enunciando
quello che è il motore primo della sua estetica, la sua pietra angolare che potrebbe descriversi con queste parole: l’arte segue il vero, la non arte lo contraffà per piacere alle folle:
1 “Ogni nuova scuola letteraria porta con sé inevitabilmente una nuova rettorica e quindi anche la scuola ha
portata la sua, che le è stata in certo modo inoculata dal romanticismo, e che consiste specialmente nelle lunghe interminabili descrizioni, che ad altro non dovrebbero servire che a determinare l’ambiente, in mezzo al quale si muovono i personaggi del romanzo, ma che troppo spesso sono veri tours de forces dello scrittore, che si sforza di rivaleggiare in evidenza col pittore e con lo scultore”(All’Avanguardia, cit., p. 117-118)
2 Pubblicato sulla “Cronaca partenopea” il 24 agosto 1890 in prima e seconda pagina, l’articolo è stato più
recentemente ospitato nell’antologia di D’Antuono: V. Pica, “Arte aristocratica” e altri scritti su Naturalismo, Sibaritismo e Giapponismo (1881-1892), cit., pp. 196-202.
132
Mi si dirà che “Pot-Bouille”, non lo si può dare a leggere ad una signorina: ma che forse le signorine non hanno “Ivanhoe” e “Quintino Durward” per ricreare le loro ore d’ozio? Non hanno i romanzi di tante miss e mistress inglesi per rallegrarle con le poetiche bugie di avventure straordinarie e di eroine e di eroi meravigliosamente virtuosi, per farle fantasticare di una vita rosea e artificiale (…)?1
Ove l’arte segua il vero è nel giusto ove l’abbandoni è nel torto. Può sembrare un assioma, e quasi lo è, ma è soprattutto un principio di classificazione dell’arte moderna la cui utilità appare fin d’ora evidente giacché include il verismo senza esaurirvisi. Al di là dell’arte v’è la rimembranza estetica, il ninnolo d’epoche già consumate che piace alle signore romantiche perché ogni eco di verità vi è spento. È arte piacevole com’è piacevole il ritornello d’una melodia già tante volte udita. Il Simbolismo, qualche anno più tardi, significherà per Pica la ricerca d’un vero ideale ma pur sempre d’un vero, perciò non contraddirà il Naturalismo che questo vero aveva cercato nei destini generali, “nella mediocrità corrente, che livella nella vita la grande maggioranza degli uomini”2. La
distinzione fra Naturalismo e Simbolismo si sfumerà ulteriormente nel concetto d’eccezione, che da queste pagine inizia a delinearsi. Esso si annuncia così:
So bene che nella società s’incontrano anche uomini veramente superiori, ma è così raro incontrarli, che non si può proprio incolpare uno scrittore di voler imitare la verità, perché non