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Academic year: 2021

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N. 23 – 05/2020 202

Edoardo Esposito,

Con altra voce. La traduzione letteraria

tra le due guerre

(Roma, Donzelli, 2018, pp. 169 ISBN 978-88-6843-869-2)

diPaolo Caponi

Il volume, scritto per lo studioso ma leggibilissimo anche da chi non si occupa professionalmente di letteratura, affronta l’argomento della traduzione di testi d’autore materialmente prodotta in Italia tra le due guerre mondiali. Gli strumenti con cui avvicinarsi a questo spinoso oggetto, incrostato da decenni di pregiudizi e luoghi comuni, sono forniti da quello strano animale, per certi versi estinto (o meglio, lamarckianamente contrattosi, nella sua influenza sul moderno pensiero intellettuale) rappresentato dalle riviste letterarie, oltre che da alcuni ricorrenti interessi scientifici dell’autore come per esempio, ça va sans dire, Elio Vittorini.

L’attenzione verso lo straniero, come ci ricorda Esposito, era già viva nell’atteggiamento rigoristico de La Ronda. Con il fascismo il rapporto si complica, certo, ma non si interrompe. Si rifletta sul rapido fiorire ed estinguersi di case editrici specializzate (una per tutte, Slavia, così denominatasi perché specializzata, appunto, in lettere slave) e di nuove riviste, come Il Baretti, fondata nel 1924, Solaria, la milanese Il Convegno, oppure 900 di Bontempelli e Malaparte. Raccontava Luigi Albonetti in un libro curioso e davvero memorabile dell’ormai lontano 1994, che la politica dei traduttori e degli editori durante il fascismo andava intesa come improntata a un sostanziale stop and go: si cominciava a tradurre, dopo aver tastato il terreno con le

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autorità, e poi ci si interrompeva quando le autorità, non di rado, cambiavano idea e toglievano il nullaosta. Salvo poi riprendere, e magari interrompersi ancora… Aldo Camerino a Einaudi, 1941: “Ho tradotto per Guanda di Modena ‘Serenade’ di James M. Cain, per il quale l’editore aveva avuto il permesso. Ma, a traduzione avvenuta, alla revisione, il permesso è stato negato” (citato in Billiani 224).

Con questo non si intende, appunto, che durante il fascismo i libri degli stranieri, tradotti, non si affacciassero entro i confini italiani. Li varcavano i confini, eccome: certo, tra mille fatiche e impedimenti, incertezze e incidenti di percorso, ma liquidare il periodo, come spesso si faceva, come una fase del tutto autarchica anche in questioni letterarie sarebbe, ed era, semplicistico oltre che brutalmente riduttivo. Basti pensare ai diplomatici slalom di Mondadori tra i paletti normativi del ventennio, autentico Giano bifronte davanti a Mussolini e al pubblico dei lettori, il primo da obbedire, il secondo da compiacere.

Si trattava naturalmente, come bene spiega Esposito, di una traduzione ancora dilettantesca in molti casi (talvolta zeppa di errori, in primis per una insufficiente conoscenza della lingua da tradurre) e poi mediata spesso e volentieri dal testo francese, autentica gramigna della traduzione italiana primo-novecentesca che immancabilmente veicolava, nella lingua straniera allora più nota agli italiani, il testo (anche inglese, per esempio, o americano) da tradurre. E del resto non era colpa di Visconti (che si lasciò folgorare dal Postino di Cain in un dattiloscritto francese) o di Montale (sul quale si tornerà) se l’inglese soffriva del sostanziale disprezzo rivolto agli anglosassoni quando invece il francese era la lingua dei nostri ‘cugini’, come peraltro qualcuno li chiama ancora oggi. E si profila, tra le due guerre, anche un primo, rudimentale (né poteva essere altrimenti) abbozzo di teoria della traduzione, in un dibattito capace di contrapporre, per la verità senza ancora molto definire, l’immancabile Croce a Gentile, o a Gobetti, o a Borgese.

Di Montale, appunto, si diceva. Figura di traduttore assai curiosa, la sua, che supera i limiti cronologici del periodo affrontato da Esposito e che approda alla nostra modernità (pre-telefonino e pre-computer o, in altre parole, agli anni Settanta) quale praticante di diverse lingue tra cui l’inglese senza averne, forse, una grandissima conoscenza. Aveva studiato il francese, lui, per diventare ragioniere, e sempre più compare, oggi, in prossimità del nome del poeta traduttore, quello di Lucia Rodocanachi che pare fornisse una prima traduzione letterale di molti testi poi riveduti, si spera per il meglio, dall’occhio poetico montaliano. Erano certo anni, quelli, in cui la figura del ghost-writer non era ancora stata adeguatamente messa a fuoco, per così dire, e tanti ‘collaboratori’, e non solo di Montale, sono rimasti nell’oblio. Ma questa è davvero un’altra storia, che ancora aspetta di essere raccontata fino in fondo. Quella delle traduzioni alle lingue straniere in Italia invece è raccontata, brillantemente nei suoi limiti cronologici, in questo saggio di Esposito.

BIBLIOGRAFIA

Albonetti, Pietro, a cura di. Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30. Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1994.

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Billiani, Francesca. Culture nazionali e narrazioni straniere. Italia, 1903-1943. Le Lettere, 2007.

_____________________________________ Paolo Caponi

Università degli Studi di Milano paolo.caponi@unimi.it

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