The Book Series of the “Centre for European Modernism Studies” collects contributions from internationally acclaimed scholars on literary modernism. The main aim of the Series is, in fact, to tackle the principal questions in the contemporary critical debate such as periodization, limits and geographical boundaries, centres and peripheries, its major authors, modernist’s persistence in the 20th Century, modernism and realism, modernism and literary theory, modernism vs postmodernism. The Book Series is multidisciplinary and while it mainly gathers comparative literature projects, it is also open to studies on canonical modernist authors between 19th and 20th Century. It is indeed an academic platform, but with the aspiration to produce works able to dialogue with a broader audience. Literature is therefore the point of departure, the common denominator of a Book Series that tries to contaminate different disciplines such as film studies, visual arts, music, philosophy and popular culture.
hanno come oggetto il modernismo letterario, nelle sue varie forme e nelle sue diverse articola-zioni. Lo scopo primario infatti è quello di ana-lizzare e studiare le principali questioni che agi-tano il dibattito sul modernismo europeo, quali la periodizzazione, i confini geografici, i concetti di centro e di periferia, il canone e gli autori che lo costituiscono, la persistenza del modernismo lungo tutto il corso del XX secolo, il rapporto con il realismo e il postmoderno, gli aspetti teo-rico-letterari. L’approccio comparatistico e multi-disciplinare è privilegiato nella collana: per que-sto motivo la letteratura, e tanto più le letterature nazionali, costituisce solo un punto di partenza e il minimo comune denominatore dei diversi vo-lumi, i quali poi si auspica possano contaminar-si con altre discipline quali la storia dell’arte, la musica, la filosofia, la cultura popolare. Al tempo stesso uno spazio editoriale sarà sempre preserva-to a quei volumi che si confrontano con gli aupreserva-tori canonici e di riferimento degli anni a cavallo tra Otto e Novecento. European Modernism infine vorrebbe essere anche un laboratorio e un punto di incontro tra studiosi di paesi e culture diverse, al fine di creare un proficuo dialogo scientifico.
«Un siepone pieno di roghi»
Il percorso di Tozzi
nel modernismo italiano
Massimiliano Tortora
Morlacchi Editore
C
oordinatoriMassimiliano Tortora (Università di Torino)
Annalisa Volpone (Università di Perugia)
C
omitatosCientifiCoOnno Kosters (Utrecht)
Rossella Riccobono (St Andrews)
Valentino Baldi (Siena Stranieri)
Novella di Nunzio (Vilnius)
Claire Davidson (Paris)
Ruben Borg (Jerusalem)
Paolo Tamassia (Trento)
Valeria Tocco (Pisa)
Antonietta Sanna (Pisa)
This series uses double blind peer review
Tutti i volumi sono sottoposti a doppia peer review
Il percorso di Tozzi
nel modernismo italiano
Massimiliano Tortora
ISBN/EAN: 978-88-9392-108-4
Copyright © 2019 by Morlacchi Editore, Perugia. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica, non autorizzata. Finito di stampare nel mese di agosto 2019 presso la tipografia “Digital Print – Service”, Segrate (MI). Mail to: [email protected] | www.morlacchilibri.com
Introduzione 9
Tozzi romanziere
Il romanzo di Federigo Tozzi 17
L’amicizia mancata: commento a una pagina di Con
gli occhi chiusi 39 Oltre il realismo: bestie e animali in Con gli occhi chiusi 61 Tozzi e la tradizione del romanzo impiegatizio europeo 73 Lo statuto del commento: leggendo Tre croci 87 Spazi geografici nel romanzo modernista italiano 103
Tozzi novelliere
La novella modernista italiana 127 Il valore dell’esperienza e l’insufficienza del ricordo:
Le raccolte di racconti in età modernista: Pirandello, Tozzi,
Svevo 191
G
li anni Novanta hanno sancito in maniera definitiva il successo di Federigo Tozzi: è in quel decennio, infatti, che escono Tozzi moderno di Baldacci (1993), Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere di Luperini (1995), Allegoria e sospetto. Come leggere Tozzi di Saccone (2000), oltre che i vo-lumi di Marchi, Bertoncini, Martini, ecc.1. Insomma a cavallotra vecchio e nuovo millennio, Tozzi è entrato stabilmente nel canone, a fianco di Svevo e Pirandello. È diventato espressione della narrativa sperimentale del primo Novecento italiano. E questa è stata la base per il successivo passo critico: la fisiono-mia di Tozzi modernista, che trova la sua più lucida riflessione nel volume di Castellana, Parole cose persone: il realismo mo-dernista di Tozzi (2009). Sicché alla fine degli anni Zero Tozzi appariva a tutti gli effetti come un classico: un classico del mo-dernismo italiano ed europeo.
A distanza di dieci anni quel panorama sembra cambiato: l’interesse della critica si è infiacchito, i saggi sono più radi, lo spazio riservato nei manuali scolastici e universitari si è ridot-to. Tozzi non è certamente uscito dal canone, ma non ha più il peso che aveva dieci fa, e che hanno, invece, Svevo e Piran-dello. Non ci interessano ovviamente le classifiche, ed è anche fisiologico che a una fase di grande effervescenza critica, ne segua un’altra di minore vigore. Eppure è indubbio che qual-cosa si è inceppato.
Questo volume, che raggruppa una riflessione dipanatasi proprio nell’ultimo decennio, cerca di sanare il guasto
criti-1. Sulla ricezione di Tozzi negli anni Novanta cfr. Bilanci: Federigo Tozzi
co, non tanto per consentire a Tozzi un’eventuale risalita nella borsa dei valori, quanto per comprendere nella maniera più fedele possibile la sua opera.
Il rilancio di Tozzi, avviato com’è noto da Debenedetti, è sta-to all’insegna del distacco dal naturalismo: «il naturalismo narra in quanto spiega, Tozzi narra in quanto non può spiegare»2. La
fortunata formula è diventata poi legge, e tutti gli studi succes-sivi hanno finito per confermarla. Inoltre anche la riflessione sul modernismo ha molto sottolineato la discontinuità – indubbia – tra Ottocento e Novecento. Pertanto Tozzi è diventato l’autore delle «illuminazioni», degli improvvisi squarci, delle epifanie, e della rappresentazione del male ingiustificato e inspiegabile.
Nulla di tutto questo va declinato: è stata anzi una conqui-sta, che arricchisce la nostra enciclopedia e la storia del ro-manzo italiano. E tuttavia rimane il sospetto – che è alla base del presente volume – che la modernità di Tozzi non possa essere pagata con la rimozione secca e radicale di qualsiasi ottocentismo.
Certamente Tozzi è al di qua di qualsiasi «barriera del na-turalismo», partecipa alla «linea Pirandello-Svevo»3, è in
sin-tonia con le maggiori esperienze europee (Joyce e Kafka). Ma questo non vuol dire che rimuova completamente ogni trac-cia del precedente mondo. Ha in fondo ragione Turchetta, quando afferma che «l’annosa alternativa fra “naturalismo” e “modernismo” in Tozzi, o fra tradizionalismo e modernità tout court, appare non solo poco produttiva, ma pressoché improponibile»4.
In sintesi quello che qui si vuole sostenere è che in Tozzi, diversamente e specificamente da altri, si registrano
persisten-2. G. DebeneDetti, Il personaggio uomo, il Saggiatore, Milano 1970, p. 95.
3. Si fa riferimento qui agli steccati proposti da due fortunati libri di R. baRilli:
La barriera del naturalismo, Mursia, Milano 1964, e La linea Pirandello-Svevo, Mursia,
Milano 1972.
4. G. tuRChetta, Lo sguardo offuscato: come si vede con «gli occhi chiusi», in
ze naturalistiche, sul piano del linguaggio, dello stile, delle de-scrizioni e in alcuni casi della costruzione narrativa. Solo in Tozzi, e non in Pirandello e Svevo, si respira quell’atmosfera regionalistica, che è creata dai dialoghi dei personaggi e da “un arredo di fondo” (campagna, cascine, poderi, balle di fieno, fe-ste campestri, ecc.), che è comune a tanta produzione del XIX secolo. Del resto in Tozzi l’intento mimetico o se si preferisce l’esigenza di un realismo che potremmo chiamare di primo grado è più pressante che in altri autori modernisti.
Tuttavia, e sono qui la novità e la particolarità dei romanzi di Tozzi, quegli elementi naturalistici, tradizionali, ottocen-teschi da un lato non smentiscono se stessi, e dall’altro sono anche quel dispositivo che serve a mostrare – senza dire – «la logica dell’inconscio» e a dare vita, senza eccessive spiegazioni, all’«ideologia del mistero»5.
Insomma la vera peculiarità dell’opera tozziana è quella di superare il naturalismo, senza negarlo e sopprimerlo: le de-scrizioni di Con gli occhi chiusi o di Tre croci si dilungano a volte perché devono mostrare al lettore l’ambiente nel quale si consuma l’azione. E di pari passo gli oggetti, gli animali e alcuni gesti certamente si impongono come elementi opaci e perturbanti, capaci di dischiudere forme di abisso, ma senza negare la loro plasticità e concretezza. Insomma, «un siepone pieno di roghi» è anche soltanto una siepe molto estesa, piena appunto di roghi.
Questa è la via seguita da Tozzi all’interno del modernismo italiano (a cui sono dedicati alcuni saggi qui raccolti). Il mo-dernismo del resto, ed è noto, non è una scuola e nemmeno una corrente. È una tendenza che trova il suo “minimo comun denominatore” nell’esigenza di rappresentare la vita psichica dei personaggi, le loro contraddizioni, quelle pulsioni che non
5. Si utilizzano qui le formule di un importante volume di critica tozziana: F. PetRoni, Ideologia dell’inconscio e logica del mistero nei romanzi di Federigo
hanno vocabolario nel linguaggio corrente. La realizzazione di questo obiettivo è perseguita da ogni romanziere in maniera autonoma e originale: per questo motivo romanzi che appar-tengono alla stessa temperie hanno forme e strutture molto diverse.
Anche Tozzi intraprende un percorso originale e singolare: quello di mantenere nel testo alcuni «ultimi ruderi d’un ritar-datario Ottocento, caparbio e duro da morire»6; e al tempo
stesso di utilizzarli per dare vita a «un caleidoscopico Nove-cento»7; per diventare insomma una delle espressioni maggiori
e più consapevoli del modernismo italiano.
Molti dei saggi qui riuniti sono già apparsi, in forma lievemente di-versa, in altre sedi. In particolare: I romanzi di Federigo Tozzi, con il titolo Federigo Tozzi, in Il romanzo in Italia, a c. di G. Alfano e G De Cristofaro, Carocci, Roma 2018, vol. 2, pp. 121-136; L’amicizia
mancata: commento a una pagina di Con gli occhi chiusi, con il titolo, Commentare Tozzi, in La pratica del commento. Atti del convegno di
Siena 8-10 novembre 2016, a c. di D. Brogi, T. de Rogatis, M. Mar-rani, Pacini, Pisa 2017, pp. 115-132; 4., in Federigo Tozzi in Europa:
influssi culturali e convergenze artistiche, Carocci, Roma 2017, pp.
39-50; Spazi geografici nel romanzo modernista italiano, con il tito-lo Geografie del modernismo italiano, in Geografie della modernità. Atti del 17° convegno MOD, Perugia 13-16 giugno 2015, a c. di S. Sgavicchia e M. Tortora, ETS, Pisa 2017, pp. 65-80; La novella
modernista, con il titolo La novella, in Il modernismo italiano, a c. di
M. Tortora, Carocci, Roma 2018, pp. 39-64; Una gobba di Federigo
Tozzi: indagine sul male ingiustificato, in L’ottimismo della volontà. Scritti in onore di Giovanni Falaschi, a c. di A. Tinterri e M. Tortora,
Morlacchi, Perugia 2010, pp. 253-266; Il valore dell’esperienza e
l’in-sufficienza del ricordo. Per un’interpretazione di Lettera, in «La punta di diamante di tutta la sua opera». Sulla novellistica di Federigo Tozzi.
Atti del convegno di Perugia, 14-15 novembre 2012, a c. di M. Tor-tora, Morlacchi, Perugia 2014, pp. 119-136; Le raccolte di racconti in
età modernista: Pirandello, Tozzi, Svevo, in Oltre il canone: problemi,
6. C.e. GaDDa, San Giorgio in casa Brocchi, in iD., Accoppiamenti giudiziosi,
Adelphi, Milano, 2011, p. 79 7. Ibidem.
autori, opere del modernismo italiano, a c. di E. Conti e L. Somigli,
Morlacchi, Perugia 2018, pp. 65-78.
Sono inediti Oltre il realismo: bestie e animali in Con gli occhi chiusi, e Lo statuto del commento: leggendo Tre croci.
Tozzi e il modernismo italiano
F
ederigo Tozzi ha avuto una produzione romanzesca piut-tosto limitata nel tempo. La sua scrittura infatti prende le mosse nel 1908, con i primi racconti, frammenti e abbozzi di ro-manzo (Adele ad esempio), e termina nel 1920, con l’improvvisa morte per polmonite. Nei tredici anni di attività letteraria scrive cinque romanzi: Con gli occhi chiusi (Treves, Milano 1919, ma redatto già a partire dal ’13), Tre croci (Treves, Milano 1920) e Il podere (su «Noi e il mondo» il 1° aprile 1920), pubblicati in vita o comunque licenziati dall’autore; mentre sono usciti postumi Gli egoisti (composto tra il ’18 e il ’19, e privo dell’ultima revi-sione) e Ricordi di un giovane impiegato (la cui stesura, benché l’opera sia brevissima, ha impegnato Tozzi dal 1910 al 1920; il romanzo è stato stampato più volte con l’erroneo titolo Ricor-di Ricor-di un impiegato1). A questi cinque romanzi, tralasciando lecentoventi novelle che per dirla con Baldacci costituiscono «la punta di diamante di tutta la sua opera» [Baldacci 1993, p. 131], è da aggiungere un libro come Bestie (Treves, Milano 1917), che appartiene sì al frammentismo, ma partecipa, come vedremo tra breve, alla ricerca narrativa portata avanti da Federigo Tozzi (lo stesso non può dirsi per gli inediti Cose e Persone, che avrebbero dovuto affiancare Bestie).
1. L’opera nasce come una novella e viene pubblicata su «La lettura» nel 1910 col titolo Ricordi di un impiegato. Successivamente, a partire dalla seconda delle quat-tro redazioni del testo, si trasforma in romanzo, mutando il titolo in Ricordi di un
giovane impiegato. Su questo punto cfr. F. tozzi, Ricordi di un giovane impiegato,
La ricezione critica dell’opera di Tozzi è emblematica di una certa percezione e cultura del romanzo in Italia nel Novecento. A lungo considerato un attardato naturalista, solo a partire dagli anni Sessanta Tozzi viene riconosciuto come romanziere decisa-mente moderno e novecentesco. Sono stati i saggi di Debenedetti, Baldacci e infine Luperini2 a collocare l’opera tozziana a fianco di
quelle di Svevo e di Pirandello in Italia, e di Kafka in Europa: ed è grazie a questi contributi critici che Federigo Tozzi, da periferico scrittore regionale, è diventato una delle espressioni più alte del modernismo italiano3; nonché partecipe di quello europeo, o in
ogni caso in sintonia con le sollecitazioni e le sperimentazioni che agitavano il romanzo di primo Novecento.
Non che l’opera di Federigo Tozzi non sia contigua e non abbia punti di contatto con la precedente, e in parte coeva, stagione veristica e naturalistica, o che non restituisca un certo sapore appunto campagnolo e, come già detto, regionalistico. La rappresentazione degli ambienti contadini – ossia la campa-gna senese – e della provincia – Siena appunto – in alcuni punti sembra richiamare certi moduli ottocenteschi. Si prendano ad esempio i seguenti passi tratti da Con gli occhi chiusi e riferiti rispettivamente al podere e alla città:
Il podere era di qualche ettaro, con la siepe di marruche e di bianco-spini su la strada: un piccolissimo appezzamento pianeggiante e col-tivato bene; il resto a pendice, fino al fosso di un’altra collinetta che regge le mura della Porta Camollia4;
La strada da Siena, dopo essere discesa fin già ad un torrentello dov’è un mulino, sale in mezzo a linee contorte e raggomitolate di colli che
2. Cfr. G. DebeneDetti, Con gli occhi chiusi, in «Aut-Aut», 78, novembre 1963,
pp. 28-43, l. balDaCCi, Tozzi moderno, Einaudi, 1993; R. luPeRini, Federigo Tozzi. Le
immagini, le idee, le opere, Roma-Bari, Laterza, Torino, 1995.
3. Sul modernismo italiano, e sull’inserimento di Tozzi in quest’area culturale, cfr. R. Castellana, Parole Cose Persone. Il realismo modernista di Tozzi, Fabrizio
Ser-ra, Pisa-Roma, 2009.
s’assomigliavano e della stessa dolcezza, con i filari delle viti tra i mu-riccioli a secco, di sassi, con le fattorie dietro i cipressi, con qualche campanile così lontano che dopo una voltata non si vede più5.
Tuttavia, anche a fronte di un certo sapore a volte addirit-tura campagnolo, è più opportuno inserire Tozzi all’interno di un’area letteraria più vasta, che possiamo chiamare la «linea Verga-Deledda-Pirandello»6: ossia una linea che muove i passi
dal realismo ottocentesco, quello verghiano, è capace di acca-rezzare stilemi più regionali (Deledda appunto7), ma si spinge
nel pieno della modernità. Del resto l’impostazione non è così stupefacente. Non sarà certamente un caso che non solo Tozzi, ma anche Pirandello e Svevo rivendicano la loro discendenza da Verga: il primo leggendo il memorabile discorso in onore degli ottant’anni dell’autore dei Malavoglia, l’altro recensendo con immediatezza, a caldo, Mastro don Gesualdo. Nel caso di Tozzi poi la scelta verghiana è consapevole, voluta e matura. Nel 1918, ossia all’apice della sua carriera letteraria, nel saggio Giovanni Verga e noi Tozzi scrive:
Tutto ciò che il nostro popolo ha di più sano, di più vivo di più spon-taneo, è anche nell’arte del Verga; che sembra una di quelle impalca-ture fatte per tenere in qualche remota elevazione la nostra anima; con tutti gli istinti e con tutte le vicende intuite8.
E poi aggiunge, dopo aver riconosciuto anche un debito nei confronti di d’Annunzio e del suo «insegnamento [...] essenzial-mente lirico»9:
5. Ivi, p. 105.
6. luPeRini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, cit., p. 74.
7. Scrive Tozzi nel saggio Per l’arte di Grazia Deledda (A proposito di Marianna Sirca): «ogni libro della Deledda è come un’esplicazione violenta di energie ancora fresche e insolite; anzi fatte più grandi e più vaste dalla doviziosa maturità» (tozzi,
Opere, cit., p. 1284).
8. Ivi, p. 1305.
9. Ma è da ricordare che sempre nel 1918 Tozzi prende definitivamente le dis-tanze da d’Annunzio, con una feroce stroncatura a La beffa di Buccari; scrive ad
es-Ma il D’Annunzio è stato per la nostra consistenza e per la nostra serietà umana soltanto una indispensabile violazione; dopo la quale è stato opportuno provvedere da noi stessi. [...] il Verga ha riunito nella prosa di due o tre libri tutto ciò che un’unità umana può dare. Egli non è scisso: è restato compatto10.
In sostanza Tozzi contrappone Verga a d’Annunzio sulla base di un criterio preciso: quello della compattezza. Tanto la prosa dannunziana è mobile, ondivaga, affascinante (in una parola: li-rica), quanto quella verghiana è precisa e soprattutto unitaria. Per questo motivo nel finale del saggio Tozzi può sostenere: «L’uno si potrebbe chiamare movimento inappagato e l’altro istinto di chiarezza ottenuto»11.
Se ci si è soffermati su questo aspetto, non è tanto per sot-tolineare storicisticamente la contiguità tra Otto e Novecento, quanto per rimarcare qual era il modello di romanzo a cui Tozzi in qualche modo mirava: un romanzo coeso e compatto12,
ca-pace di restituire al lettore «tutto ciò che un’unità umana può dare» (in altre parole una sorta di totalità).
Ma sono possibili l’unità, la compattezza e il perseguimento della totalità ad inizio Novecento, dopo le rivoluzioni compiute in campo fisico, filosofico e psicanalitico? È chiaro che la rispo-sta è negativa. Ma il punto è proprio questo: ancora ad inizio secolo gli scrittori e gli intellettuali in genere mantenevano ben saldi alcuni criteri che avevano regolato l’Ottocento, e che ave-vano guidato la loro formazione: solo che ne doveave-vano
constata-empio: «è certo che Gabriele d’Annunzio è soltanto un modesto, ma appassionato imitatore di sé stesso» (ivi, p. 1292). Questa recensione negativo peraltro costò a Tozzi il rinvio della pubblicazione di Con gli occhi chiusi presso Treves (il romanzo venne infatti stampato nel ’19 e non nel ’18 come previsto): l’editore infatti non aveva apprezzato di vedere il suo autore più rappresentativo bistrattato in quel modo.
10. Ivi, pp. 1305-1306, corsivo mio. 11. Ivi, p. 1307.
12. E può essere questa la spiegazione per cui Tozzi trova più congeniale alla sua scrittura la novella, un genere, a suo dire, che «fa pensare alla geometria del son-etto» (ivi, p. 168).
re lo scacco. Ed è questo in fondo il nucleo più radicale della po-etica modernista italiana (Svevo, Pirandello, Tozzi) ed europea (Kafka, Joyce, Woolf, solo per limitarsi a pochissimi esempi).
Più precisamente tutto il modernismo europeo si arrovella attorno al problema del raggiungimento della verità. Il mondo postfreudiano è inevitabilmente più ampio, sfuggente e sfac-cettato: la teoria dell’inconscio rivela che ci sono pulsioni pro-fonde di cui nemmeno il soggetto è consapevole, e che fanno compiere azioni che non sono facilmente interpretabili; e di pari passo Bergson insegna che il tempo non sempre è misurabile, così come Poincaré e Minkowski aprono lo spazio oltre la sua terza dimensione. È chiaro che una realtà così prismatica non basta osservarla per conoscerla, così come accadeva in passato: deve essere invece sottoposta a continue analisi e verifiche, con la certezza però di non poter mai arrivare a conclusioni incon-trovertibili. Naturalmente questo non significa che per i moder-nisti la verità non esista: piuttosto – e per quanto ovvio è bene sottolinearlo – non può però essere raggiunta. E tuttavia, anche a fronte di questo sistematico smacco, i vari Svevo, Pirandel-lo, Tozzi si sforzano di rappresentare il mondo in tutta la sua completezza e totalità, cercando di creare delle forme letterarie adeguate e adatte alla nuova realtà, e capaci di mostrarla in tutte le sue sfaccettature e in ognuna delle sue molteplici dimensio-ni13. È questo il motivo per cui il romanzo italiano ed europeo
di primo Novecento si presenta sempre sperimentale: si rende tentacolare e multiforme per riprodurre mimeticamente tutti gli aspetti del reale.
La rivoluzione più incisiva e visibile è la destrutturazione del-la trama, che cessa di essere causale e continua, per articodel-larsi
13. Scrive Raffaele Donnarumma al riguardo: «per i modernisti la verità va detta o almeno allusa nelle finzioni e nell’alterità della lingua e della letteratura, senza l’illusione di un suo accesso diretto. [...] Il modernismo [...] si ostina nella sua ricerca perché sa che la verità (una verità magari minore, frammentaria, paradossale) non può che vestire i panni presi in prestito, e persino rimediati» (R. DonnaRuMMa, Gadda
invece in segmenti da rimontare14; o in altri casi la trama diventa
così minimale da scomparire quasi del tutto (il limite estremo è senz’altro Finnegans’ Wake di Joyce). Del resto ad essere decisi-vi nei romanzi modernisti non sono tanto i grandi eventi e quelle che Svevo chiamava le «giornate campali»15 (e dunque
narrati-vamente il corso centrale della vicenda raccontata), quanto i pic-coli incidenti, le minime emozioni, le sensazioni apparentemen-te trascurabili; insomma quegli elementi marginali – comprese le descrizioni – che nel romanzo ottocentesco erano soltanto strumentali all’asse primario della trama. Più in generale sono i «motivi liberi»16, ossia quei dettagli svincolati da una gerarchia
narrativa (per questo «liberi»), che si fanno portatori di signifi-cati altrimenti nascosti.
Di conseguenza anche la temporalità perde il suo carattere lineare e continuo, per essere sottoposto a cambi di ritmo re-pentini, inversioni, talora delle vere e proprie abolizioni. Infatti le vicende sono per lo più raccontate da un narratore omodiege-tico, che non può non riferire gli eventi secondo un’ottica sog-gettiva, e dunque viziata e arricchita dalle percezioni persona-li: percezioni che inevitabilmente intaccano la misurabilità del tempo (e dello spazio), ricondotto a una dimensione puramente soggettiva.
Ma un narratore omodiegetico – pressoché predominan-te nei romanzi modernisti –, che oltretutto scivola facilmenpredominan-te verso lo statuto di inattendibile, intacca non solo le categorie spazio-temporali, ma più in generale un’oggettiva visione del mondo. E anche quando a raccontare è un narratore esterno, la via alla verità è preclusa: un simile narratore, lungi dall’assume-re una focalizzazione zero (ossia dal farsi onnisciente), cerca di
14. Sulla destrutturazione della trama nel romanzo modernista cfr. R. Don -naRuMMa, Disarticolazioni e sopravvivenze: la trama nel romanzo modernista italiano,
in «Allegoria», 78, lug.-dic. 2018, pp. ???.
15. i. svevo, Romanzi e «Continuazioni», a c. di n. PalMieRi e F. vittoRini,
Mondadori, Milano, 2004, p. 1656.
assumere il punto di vista – talvolta allucinato – del protagonista e talvolta di altri personaggi, così da metterne in primo piano gli stati d’animo e soprattutto la specifica visione del mondo. In-somma, sintetizzando in maniera brusca un discorso necessaria-mente più ampio, il vero oggetto di raffigurazione del romanzo modernista non è tanto il mondo diegetico/narrato, quanto l’io: e la rappresentazione dell’io – della sua “coscienza” per adotta-re ancora un lessico sveviano – passa proprio attraverso la sua percezione dell’esterno.
I romanzi di Tozzi rispondono perfettamente a questi prin-cipi: anche quelli apparentemente più tradizionali. L’obiettivo tozziano, come detto prima, è quello di tendere a un’opera com-patta e compiuta, e di fallire lo scopo prefissosi, facendo così emergere «tutte le crepe e gli abissi»17 che minano l’edificio
eret-to. Ma sono proprio queste improvvise aperture a dischiudere percorsi verso la verità; percorsi che però, e non potrebbe essere altrimenti, rimarranno necessariamente incompiuti. La verità, il senso ultimo, la totalità in Tozzi possono essere soltanto confu-samente alluse, ma mai raggiunte e conosciute.
2. Il romanzo oltre il romanzo: Bestie
Anche Tozzi tentò, con estrema consapevolezza, di portare il romanzo oltre i suoi limiti di genere18. Il riferimento è a Bestie,
una raccolta di sessantotto prose brevi (redatte tra il ’13 e il ’15), ognuna delle quali incentrata su un animale19; solo l’allodola
17. G. lukáCs, Teoria del romanzo, Pratiche, Parma, 1994, p. 87.
18. In Come leggo io, un saggio a metà strada tra dichiarazione di poetica e autocoscienza di lettore, Tozzi scrive: «Io dichiaro d’ignorare le “trame” di qualsiasi romanzo; perché, a conoscerle, avrei perso tempo e basta. La mia soddisfazione è di poter trovare qualche “pezzo” dove sul serio lo scrittore sia riuscito a indicarmi una qualunque parvenza della nostra fuggitiva realtà» (tozzi, Opere, cit., p. 1325).
19. Avverte Castellana: «Ma non siamo ad una ripetizione dell’esperimento delle
compare due volte, e oltretutto in posizione strategica, ossia nel primo e nell’ultimo frammento.
Il modello di riferimento è chiaramente quello dei bestiari medievali: ma mentre in questi ultimi – come nelle fiabe – gli animali sono espressione di aspetti morali, che a loro volta ri-mandano a un ordine divino20, in Bestie si offrono al lettore in
maniera enigmatica e improvvisa. La loro comparsa, infatti, non è giustificata da un punto di vista narrativo, né è portatrice di significati perspicui. Si veda il finale della seguente prosa:
I sacerdoti mi benedicevano, il papa m’invitava a trovarlo.
Scricchiolò in una cappella, da un lato, una cassapanca antica: corse attraverso tutto l’impiantito, sparì, come il brivido dalla testa ai piedi, un topo21.
Come sostiene Luperini, «la comparsa delle bestie non coin-cide con alcuna epifanica rivelazione. Da questo punto di vista esse non hanno affatto una funzione simbolica, non rinviano ad alcun universale»22. È naturale pertanto che tutta l’opera
proceda per continue irruzioni enigmatiche che rinviano a un significato che non può essere colto, ma che tuttavia viene in-tuito come assolutamente capitale. Insomma la costruzione di ogni prosa è tale, che la bestia è sì l’elemento più importante e centrale, e dunque quello atteso dal lettore, ma anche talmente inafferrabile da rimandare a verità oscure. Ed è proprio questo procedimento a restituire la sensazione di un mondo non coeso, non compatto, non unitario; non solo perché l’opera si costrui-sce di frammenti (l’influenza del frammentismo vociano è
pale-aforistico e sapienziale, alla tentazione di un “grande stile” fondato sulla centralità del soggetto e sull’idea di una lingua poetica alta e letterariamente impostata, che caratter-izzava le prove giovanili» (R. Castellana, Tozzi, Palumbo, Palermo, 2002, p. 31).
20. Cfr. luPeRini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, cit., p. 109.
21. Tozzi, Opere, cit., p. 595.
22. luPeRini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, cit., p. 108; fa
ec-cezione l’allodola, che ricorre nel prima come nell’ultima prosa: in entrambi i casi restituisce un segno distensivo e di pacificazione.
se), ma soprattutto perché si articola in grumi di significato che il più delle volte si nascondono in pieghe secondarie del testo, quali la descrizione23 o i commenti a latere del narratore24, oltre
che ovviamente nella rappresentazione dell’animale25.
Si sarebbe tentati allora di ritenere Bestie un’opera estranea al genere narrativo. Eppure, sebbene esile e per certi aspetti pre-testuosa, una trama che lega i sessantotto brani c’è: il narratore e protagonista è un uomo che ha avuto problemi finanziari (ha dovuto vendere un podere), è sposato con Clementina, e vive in campagna, vicino Siena; da ragazzo ha avuto il tifo, ed è stato educato da un prete; sua madre, con la quale ha passato delle va-canze estive, è morta, mentre il padre si presenta come una figu-ra autoritaria e dispotica; il loro figu-rapporto è di aperto contfigu-rasto.
Questi fatti sono disseminati lungo tutto il libro in un or-dine non consequenziale, né ovviamente cronologico. Si ha la
23. Sulla funzione narrativa della descrizione in Bestie imprescindibile è il ri-mando a F. PetRoni, Ideologia e scrittura. Saggi su Federigo Tozzi, Manni, Lecce, 2006,
pp. 155-174.
24. E anche lo stile, in Bestie come negli altri romanzi, partecipa a questa costruzione. Il dettato tozziano è sempre sorprendente per il lettore; sia per un uso particolare della punteggiatura, e specificamente del punto e virgola, che spesso di-vide quanto la logica e la grammatica vorrebbero unite; sia per una paratassi talvolta esasperata; sia per l’alternanza italiano/dialetto. Questi tre procedimenti assolvono una chiara funzione espressionistica, e mimano la stratificazione del mondo descritto e dell’io; e soprattutto rendono costantemente incerta la decodifica del messaggio, facendo toccare con mano l’impossibilità di giungere a verità piene e incontroverti-bili. Sulla lingua tozziana cfr. almeno C. GRassi, Corso di storia della lingua italiana,
parte II, Giappichelli, Torino, 1966, pp. 128-149; a. Rossi, Modelli e scrittura di un
romanzo tozziano. Il podere, Liviana, Padova, 1972, pp. 111-123; G. tellini, La tela
di fumo. Saggio su Tozzi novelliere, Nistri Lischi, Pisa, 1972, pp. 147-175; l. Giannel -li, Toscano, senese, italiano (letterario): la ricerca di Federigo Tozzi, in Per Tozzi, a c. di
C. Fini, Editori Riuniti, Roma, 1985, pp. 266-311; P.v. MenGalDo, Storia della lingua
italiana. Il Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 145-148; iD., Appunti linguistici
e formali sulle novelle, in Tozzi: la scrittura crudele. Atti del Convegno Internazionale,
Siena 24-26 ottobre 2002, «Moderna», IV, 2, 2002, pp. 33-45.
25. Su questo punto cfr. M.a. balDuCCi, Il nucleo dinamico dell’imbestiamento.
Studio su Federigo Tozzi, De Rubeis, Anzio, 1994, e s. Maxia, Uomini e bestie nella
sensazione che la vita narrata sia esplosa, e che se ne ritrovino i frammenti lungo i sessantotto lacerti che costituiscono il te-sto. Eppure questa esilissima trama ha la funzione di rimandare ad un’unità; un’unità certamente infranta, disgregata e perduta, che tuttavia è all’origine e che in qualche modo si cerca di re-cuperare. E anche da un punto di vista strutturale la vicenda (ossia la trama) obbliga a considerare i sessantotto brani come un insieme unitario: insomma Bestie non può essere derubricato a sequela casuale e disorganizzata di frammenti, ma deve essere considerata nella dignità di opus; un’opera narrativa che raccon-ta gli sraccon-tati d’animo, le percezioni allucinate, i sobbalzi emotivi di un personaggio che è anche voce narrante. Si tratta chiara-mente di un esperimento: quello di condurre il romanzo oltre i suoi limiti. Bestie infatti, proprio nel suo costituirsi di sessan-totto frammenti, fa appello a principi di linearità, compattezza e unità, ma al tempo stesso ne nega la realizzabilità e il rispetto, lasciando il campo ad una struttura disarticolata e recalcitrante di fronte a qualsiasi ipotesi di chiusura e compattezza: una strut-tura che permette di leggere quest’opera come uno dei primi tentativi di anti-romanzo in Italia. Ed è l’ulteriore prova della partecipazione di Tozzi al modernismo italiano ed europeo.
3. I temi ricorrenti: il giovane, il padre, la violenza
La biografia di Federigo è dominata dalla figura del padre, Ghigo (Federigo anche lui). Tra i due i rapporti furono talmente tesi (e anche violenti), che addirittura il figlio si rivolse al Procu-ratore del Re per stabilizzarli e regolarli per legge26. E
quest’im-magine di padre onnipotente, fortissimo, violento verrà ripropo-sta in quasi tutte le opere tozziane. Ora, se il padre è l’incurante aguzzino, il figlio si configura come inevitabile vittima, a cui è
26. Cfr. P. CesaRini, Tutti gli anni di Tozzi. La vita e le opere dello scrittore
preclusa ogni possibilità di crescita: sia perché il padre è pronto a contrastarla, così da non perdere la sua possibilità di dominio, sia perché il diventare adulti significa di fatto trasformarsi in malvagi e cattivi, così come mostra la figura paterna. Sicché il personaggio tozziano si trova in una situazione bloccata, da cui non c’è via di uscita: questo insegnano Con gli occhi chiusi (con il figlio impotente di fronte alla forza d’urto del padre, e incapace di affrontare la sfida per difendere la sua relazione con Ghisola), Il podere (Remigio si allontana dalla città paterna – Siena – e vi ritorna solo quando ormai è orfano, disfacendosi dell’eredità), moltissime altre novelle (tra cui si ricordi almeno Il padre), non-ché, sebbene con velati accenni, Bestie.
Ora è evidente che la figura del figlio è quella che in fondo si impone come cardinale nella narrativa tozziana: ma più spe-cificamente ad essere è centrale è quella del “giovane”. Ed è sin troppo facile ricordare che l’unica raccolta novellistica licen-ziata da Tozzi si intitola appunto Giovani. Si tratta di un titolo tematico, sostanzialmente confermato dai testi che costituiscono il libro: diciannove dei ventuno racconti infatti hanno come pro-tagonista un giovane; costituiscono eccezione la novella d’aper-tura, Pigionali (che narra la vicenda di due anziane signore), e quella di chiusura (Una sbornia). Ebbene una siffatta costruzio-ne macrotestuale vuole indicare – come suggeriscono anche i restanti racconti, nonché altre opere narrative tozziane27 – che la
giovinezza non si misura con gli anni, ma è uno stato esistenziale che trascende anche i confini dell’età.
Il concetto di giovinezza tozziano rimanda più specificamen-te a quello dell’adolescenza, così come descritto nei pioneristici studi di Compayré, di Hall, nonché di James28, come
accurata-27. Ma in parte anche Paolo e Barche capovolte.
28. Il riferimento è al saggio di Gabriel Compayré, La psycologie de
l’adoles-cence (1906), ai due volumi di Stanely Hall significativamente intitolati Adolesl’adoles-cence, its psycology and his realtions to pysiology, antropology, sociology, sex, crime, religion and education (1910), e a Principii di psicologia di William James.
mente mostrato da Martina Martini29. Ebbene soprattutto nei
lavori dei primi due studiosi, l’adolescenza (giovinezza per Toz-zi) si configura come una fase in cui il soggetto è dominato da istinti contraddittori, da una nervosa e implacabile instabilità, e da un sopravvento di sentimenti ingestibili; conseguentemente la sua percezione del mondo esterno è scossa, e la possibilità di un sereno inserimento nell’età adulta ancora inattuabile. Si trat-ta in sostrat-tanza di una fase della vitrat-ta da superare (e secondo Hall rigidamente contenere), per poi diventare uomini forti e stabili. A ben vedere i personaggi tozziani restano invischiati a que-sto stadio giovanile, senza riuscire mai a superarlo del tutto: vengono infatti tratteggiati in uno stato per lo più allucinato e alterato (tipico dell’adolescenza), che impedisce qualsiasi rico-noscimento della realtà circostante; le violente e irrazionali sen-sazioni dell’io prendono perciò il sopravvento, così che qualsiasi ipotesi di una serena interazione con il mondo deve essere ac-cantonata. La giovinezza dunque non solo non può essere ridot-ta a uno specifico periodo della viridot-ta che si colloca tra infanzia e maturità, ma non rappresenta nemmeno la primavera rigogliosa e spensierata dell’esistenza: è piuttosto una febbrile condizione psicologica ed emotiva, che prende le fattezze di una vera e pro-pria malattia: la malattia appunto della giovinezza.
I romanzi tozziani si costruiscono tutti attorno a questo an-ti-mito, che può declinarsi in due diverse forme. Da una parte abbiamo personaggi anche anagraficamente giovani che ancora aspirano a superare questa fase, per diventare adulti sani; dall’al-tra coloro i quali, pur avendo però scavallato i supposti limiti di età, continuano ad essere intaccati dal morbo adolescenziale, lasciandosi sopraffare dalle sensazioni e dal mondo esterno, e manifestando dunque un’inconsapevole rassegnazione. Inoltre, alle due diverse tipologie di personaggio corrispondono due di-verse costruzioni narrative: più sperimentale e mossa nei casi in
29. Cfr. M. MaRChi, Federigo Tozzi: ipotesi e documenti, Marietti, Genova,
cui il protagonista ha ancora un futuro davanti, più tradiziona-le quando i personaggi “giovani” hanno in realtà la giovinezza alle spalle. Al primo gruppo di romanzi appartengono Ricordi di un giovane impiegato, Con gli occhi chiusi e Gli egoisti, mentre all’altro Il podere e Tre croci.
4. La linea Con gli occhi chiusi, Ricordi di un giovane impie-gato, Gli egoisti
Con gli occhi chiusi narra una vicenda adolescenziale e giova-nile: quella di Pietro Rosi, innamorato perdutamente di Ghisola, una salariata della sua famiglia. Si tratta in realtà di un amore estremamente travagliato: infatti il padre di Pietro, Domenico – un uomo forte e violento, attento solo alla sua trattoria e ai suoi poderi, e che ha un’unica prospettiva per il figlio: che diven-ti come lui – contrasta questa unione, che giudica ovviamente poco proficua, e in ogni caso distraente. Inoltre la stessa Ghisola non costituisce un approdo sicuro per il ragazzo: è al contrario un animo inquieto, fortemente mosso dalle sue pulsioni sessua-li, e che, una volta sradicata dalla sua famiglia, si perde defini-tivamente ingannando ripetutamente Pietro. Alla fine, quando ormai è incinta, la ragazza per dare legittimità al nascituro e per salvare la propria dignità tenta di farsi possedere dal protagoni-sta, che però si rifiuta in nome di un ideale di purezza e moralità. E solo nell’ultima pagina, in seguito ad una segnalazione attra-verso una lettera anonima, Pietro raggiunge Ghisola a Firenze, scoprendo finalmente la verità; ossia che la giovane vive in una casa chiusa, in attesa di far nascere il suo bambino:
Allora egli, voltandosi a lei con uno sguardo pieno di pietà e di affetto, vide il suo ventre.
Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l’aveva abbattuto ai pie-di pie-di Ghisola, egli non l’amava più30.
Il romanzo racconta dunque le vicende sentimentali e fami-liari vissute da Pietro dai tredici ai vent’anni: ossia si focalizza su quell’arco di vita che abbraccia adolescenza e giovinezza, e conduce poi all’età adulta. E proprio il finale sottolinea come uno dei nodi del romanzo fosse l’analisi di questo passaggio da una fase all’altra dell’esistenza. Infatti nel momento in cui Pietro viene a conoscenza della situazione di Ghisola, sconta un evento traumatico, in seguito al quale di pari passo smette di amare la ragazza e compie uno scatto di crescita. In altre parole mette la parola fine alla sua giovinezza.
Ora, l’aspetto tematico – la giovinezza appunto, legata al banco di prova dell’amore – influenza la struttura del romanzo. Come già messo in luce da altri31, i primi due terzi di Con gli
oc-chi oc-chiusi, incentrati su Pietro e Ghisola adolescenti, sono molto più mossi e disgregati del terzo, quando l’adultità del protagoni-sta inizia a prendere forma, fino a giungere al pieno compimen-to: è nell’ultima parte infatti che l’opera acquista una fisionomia più organica e ordinata. Il motivo di questa inversione di rotta – prevalere della forza centrifuga prima, di quella centripeta poi – è dettato dal fatto che inizialmente Pietro è istintivo, instabile e incoerente; mentre poi l’incoscienza giovanile vien «nutrita di autoinganni ideologici di tipo morale, religioso e politico»32, che
in qualche modo rendono meno oscillante il protagonista. Ma tutto questo si realizza perché a gestire il racconto è un narratore che riferisce le vicende assumendo il punto di vista interno dei personaggi: specificamente quello di Pietro e di Ghisola. Sicché è evidente che all’inizio, quando appunto l’a-dolescenza crea i suoi scompensi maggiori, la percezione della
30. tozzi, Opere, cit., p. 158.
31. Cfr. luPeRini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, cit., p. 134.
realtà, e dunque la sua rappresentazione da parte del narratore, è alterata e lontana da ogni forma di oggettività. E soprattutto il reale appare disgregato e frammentato, privo di una logica sottostante. Esemplare è il seguente passo, tratto appunto dalla parte iniziale:
Se un insetto, salitogli su per i calzoni, giungeva sopra il libro, smet-teva anche allora.
Qualche uccello entrava tra le rame in fiore, con il movimento e la for-za di un ago infilato; come se le fronde si fossero aperte e poi richiuse per lui.
Anche prima che Anna morisse, non voleva andare in chiesa; ed ella non riusciva quasi mai a farlo pregare. Ormai si sentiva ateo. Bestem-miava, perché non voleva avere i pregiudizi dei preti. E Domenica ne dava tutta la colpa a quei maledetti libri della scuola33.
L’esempio riproduce un passo narrato dal punto di vista di Pietro, e dunque permette al lettore non tanto di avere infor-mazioni decisive sugli eventi della sua vita, quanto di misurare i suoi stati d’animo, di seguire l’evolversi della sua mente, di comprendere le sue modalità di approccio al mondo.
Ebbene, come si evince dal passo citato, in primo luogo nella costruzione narrativa di Tozzi salta ogni gerarchia tra gli eventi raccontati: l’insetto che sale nei pantaloni e impedisce la lettura (la frase chiude una lunga e ondivaga descrizione di come Pietro leggeva), l’uccello che plana sui fiori, e il rapporto con Dio sono posti tutti sullo stesso piano e hanno lo stesso peso narrativo.
In secondo luogo i tre elementi sono disposti in ordine pa-ratattico, ossia accostati gli uni agli altri senza apparente giu-stificazione e in ogni caso non concatenati da nessuna forma di consequenzialità. Piuttosto i tre dettagli riferiti rappresentano il flusso di pensieri di Pietro, e mettono in luce l’impossibilità per l’adolescente di rimanere concentrato a lungo su un’unica atti-vità. E nelle rare occasioni in cui questo invece accade, si scopre che a carpire maggiormente l’attenzione del ragazzo sono
ti minori e più insignificanti, quali appunto un insetto, un volo d’uccello, un elemento naturale tra gli altri.
Infine in un mondo in cui sono saltati i livelli, anche la tem-poralità ha smarrito la sua oggettività e la sua regolarità. Sia sufficiente uno sguardo agli indicatori temporali, che segna-lano il procedere della vicenda: «Per tutto un inverno», «Era un anno dalla notte degli usignoli» (ma la notte degli usignoli non è specificamente datata), «dopo qualche mese», «un altro anno», «Aveva già perduto un anno di tempo», «Erano passati tre anni», ecc. Si tratta di indicazioni che segnalano, a volte an-che con precisione, quanto tempo è trascorso tra un evento e un altro; e tuttavia in questo intervallo di tempo sono successi altri avvenimenti, raccontati dal narratore, e che il lettore, anche in virtù di un imperfetto imperante nella pagina, non ha potuto collocare. È come se chi legge avesse inizialmente la sensazione che tutti gli accadimenti sono strettamente succedanei, e appar-tenenti allo stesso momento, per poi scoprire più avanti che in realtà hanno occupato e si sono distesi lungo una linea di tempo più ampia e prolungata, che nell’atto di lettura non poteva esse-re colta in nessun modo. Ed è questo procedimento a esse-rendeesse-re instabile appunto il tempo, che finisce per essere uno strano di-spositivo che si contrae e si dipana continuamente, senza alcuna regola pregressa.
Anche Ricordi di un giovane impiegato e Gli egoisti hanno funzionamenti in parte simile. Del resto sia Leopoldo Gradi che Dario Gavinai (protagonisti rispettivamente del primo e del se-condo romanzo) sono due giovani che non hanno ancora conclu-so la loro formazione e che vivono una storia d’amore di cui non conoscono l’esito. La vicenda di Leopoldo avrà un’evoluzione parzialmente tragica: Attilia muore e lui rientra in famiglia, per la gioia della madre, felice di non vedere il figlio tra le braccia di un’altra donna. Si tratta insomma di uno scacco esistenziale che comporta la condanna alla perenne condizione di figlio e di
gio-vane non cresciuto. Più positivo è invece il finale de Gli egoisti, che costituisce quasi un unicum nel panorama tozziano:
Il loro amore doveva nascere in quel momento stesso; e, alla fine, guardandosi negli occhi, capirono che si amavano da vero per la pri-ma volta34.
Ora, ciò che qui preme sottolineare è che ancora una volta il protagonista giovane e irrequieto, raccontato da un punto di vista interno, destabilizza la costruzione romanzesca e conduce verso una trama esile e a tratti anche pretestuosa: anche in que-ste opere infatti a contare sono molto di più i dettagli, che fanno luce sullo stato d’animo del personaggio. Nel caso di Ricordi poi siamo di fronte a un romanzo di impianto diaristico, che meglio ancora si presta a strumento di registrazione del flusso di pen-sieri di chi scrive, e alla messa per iscritto della sua specifica e soggettiva visione del mondo.
5. La linea Il podere-Tre croci
I protagonisti di Con gli occhi chiusi, Ricordi di un giovane impiegato e Gli egoisti terminano il loro periodo di formazione e approdano all’età adulta. Il loro romanzo è dunque inevitabil-mente proiettato al futuro, e procede verso un epilogo che è im-prevedibile e aperto a più soluzioni: come già detto, Leopoldo Gradi conosce una sconfitta in Ricordi di un giovane impiegato, un lieto fine caratterizza invece Gli egoisti, un finale più pro-blematico contraddistingue infine Con gli occhi chiusi, giacché Pietro affronta sì il disincanto del suo amore per Ghisola, ma al lettore non è concesso sapere quali conseguenze quest’esito avrà sulla sua vita. In ogni caso, lo si è visto, l’incertezza del finale e di
pari passo l’instabilità del personaggio hanno ricadute a livello strutturale, rendendo la narrazione più aperta e problematica.
Il podere e Tre croci partono dal punto in cui giungono i tre precedenti romanzi: i personaggi infatti non sembrano avere più possibilità di crescita, e procedono verso una conclusione che non può che essere catastrofica.
Remigio, che peraltro ha vent’anni (l’età di Pietro alla fine di Con gli occhi chiusi), torna a Siena per gestire i due poderi eredi-tati dal padre. In realtà ne è del tutto incapace, e oltretutto viene male accolto dalla comunità e dai suoi salariati, che usano ogni mezzo per condurlo al fallimento (anche con atti di sabotag-gio). Ma la nemica principale di Remigio è Giulia, l’amante del padre, che si rivolge a un avvocato per rivendicare la sua parte di patrimonio: l’aiuto della comunità nei confronti della donna è determinante, e permette di instradare la causa verso un per-corso che le leggi vigenti non avrebbero lasciato sperare. A ben vedere, per come è costruito il romanzo, Remigio deve pagare una colpa: quella di essersi disinteressato dei poderi, e dunque, per stringente proprietà transitiva, del padre stesso, che nei suoi possedimenti (nella sua “roba”: l’influsso verghiano ne Il podere è evidente) si identificava. Inoltre lo stesso Remigio (e qui invece pesa maggiormente la lezione di Rosso Malpelo), cercando un rapporto dialogico e umano con i suoi dipendenti a svantaggio di un principio unicamente economico e competitivo, introduce nella società una logica degli affetti, che è pericolosa, in quanto rischia di rimettere in discussione gerarchie e distinzioni di livel-lo ormai unanimemente accettate. Infine anche Remigio parteci-pa volontariamente alla distruzione del suo parteci-patrimonio: proprio perché questi era la più sincera espressione paterna, distrugge-re i poderi e il capitale economico ricevuto in edistrugge-redità vuol didistrugge-re uccidere metaforicamente e materialmente quel padre violento, castrante e anaffettivo. In qualche modo potremmo dire che, per motivi opposti, Remigio si rende complice delle aggressioni che lui stesso riceve dalla comunità, e aiuta i suoi aguzzini a quel
processo di distruzione che lo porterà ad essere espulso (anche fisicamente) dal corpo sociale. Per questo motivo non è illecito sostenere che il finale di Il podere è previsto e inevitabile; e in ogni caso è atteso (non senza un illogico desiderio) dal prota-gonista, che non si sottrae al compito di andare con Berto, il contadino più infuriato con lui e quello che apertamente aveva dichiarato di voler uccidere il padrone, ad abbattere un albero. Anzi è Remigio stesso ad organizzare la spedizione, stando ad-dirittura bene attento a ricordare a Berto di prendere l’accetta:
Il lunedì mattina, Remigio gli disse [a Berto] di prendere l’accetta e di andare con lui a buttare giù una cascia [...]. Berto aveva il cuore grosso e gli tremava: il respiro pareva che glielo spezzasse [...]. Camminava avanti all’assalariato, e voleva voltarsi per sorridergli; ma non poteva, ed aveva paura. In certi momenti, non l’udiva né meno, benché gli si avvicinasse sempre di più.
[...] Berto guardava il ferro dell’accetta e lo lisciava con una mano: il ferro, arrotato da poco, luccicava.
[...] Remigio seguitava a camminare avanti. Allora, infuriatosi, Berto gli dette l’accetta su la nuca35.
Anche i personaggi di Tre croci sono predestinati alla cata-strofe. Proprietari di una libreria, i tre fratelli Gambi, a seguito di pesanti debiti, hanno cominciato a falsificare delle firme, al fine di rinnovare una cambiale a loro favore. Che la truffa venga scoperta è ovvio: per questa ragione, in attesa del disastro, Giu-lio, Niccolò ed Enrico cercano di afferrare voracemente la vita, così come dimostra la loro smodata passione per il cibo. Quan-do poi il fallimento e le firme false vengono scoperti, a Giulio, il più assennato dei tre, non rimane altro che suicidarsi; e la sua morte sarà seguita a breve da quella degli altri due fratelli: «tre croci eguali» [Tozzi 1995, p. 253], acquistate con i risparmi del salvadanaio, rimangono come loro unico ricordo.
Sia in Il podere che in Tre croci la situazione risulta immu-tabile: l’azione infatti inizia post factum (la morte del padre da
tempo ignorato, la falsificazione della cambiale), e il romanzo non può che limitarsi a raccontare le conseguenze di quanto già successo. Per questo motivo anche i protagonisti appaiono più anziani di quelli degli altri tre romanzi: il problema non è tanto anagrafico, quanto di prospettive temporali. Remigio e i fratel-li Gambi in realtà non hanno futuro, e sono consapevofratel-li della loro imminente distruzione; una distruzione anche dal punto di vista narrativo, giacché loro muoiono, diversamente da Pietro, Leopoldo e Dario che invece restano sulla scena, e proseguono dunque la loro vita anche dopo la chiusura del romanzo.
Non è ovviamente una differenza irrilevante; e ancora una volta questa discrepanza ha una ricaduta immediata nella co-struzione narrativa. Come sosteneva Kermode è sempre il finale a dare senso al romanzo36. Ebbene la conclusione così definitiva
di Il podere e di Tre croci (la morte dei protagonisti appunto) conduce a un significato più unitario, che trova immediata corri-spondenza nella struttura narrativa, tanto più stabile poiché ar-chitettata su personaggi sostanzialmente più rassegnati e meno irrequieti di quelli analizzati nel paragrafo precedente. Sicché non deve stupire che sia Tre croci che Il podere ricorrano a un narratore eterodiegetico che fa registrare un più alto tasso di oggettività e in più occasioni osserva gli eventi dall’esterno; che la temporalità sia più visibilmente scandita, anche appoggian-dosi a una divisione in capitoli apparentemente più tradizionale (contribuisce a questa chiarezza cronologica anche il focus su un periodo più limitato); che la trama riacquista un suo peso, mar-ginalizzando, almeno in parte, quei dettagli che nelle altre opere avevano un peso maggiore37.
Ma ciò non induca a credere che con Il podere, o semmai anche solo con Tre croci, si assista a un passo indietro nella
spe-36. Cfr. F. keRMoDe, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Rizzoli,
Milano, 1972.
37. Sulle strutture narrative di Il podere e di Tre croci, cfr. G. beRtonCini, Studi
rimentazione tozziana. La spinta distruttrice e centrifuga conti-nua ad agire nell’opera, ma diversamente miscelata con quelle istanze di stabilità e di ordine che altrove sono invece soccom-benti. Non è naturalmente una scelta di poetica – che sarebbe curiosamente smentita dagli altri tre romanzi scritti negli stessi anni o addirittura dopo, come nel caso di Gli egoisti –, ma di una maggiore aderenza alla materia trattata: ossia la rassegnazione di personaggi che, pur essendo usciti dalla giovinezza, sono con-dannati a rimanere per sempre giovani, incompiuti e incompleti.
I compaesani di Domenico, quando andavano a Siena, mangiavano sempre alla sua trattoria; portandogli i saluti e le notizie dei parenti, e magari una fazzolettata di frutta.
Uno di costoro, volendo che il suo figliolo Antonino imparasse a fare il muratore, come a Civitella non avrebbe potuto, gli chiese che lo affidasse e lo raccomandasse a qualche bravo capomastro. Domeni-co, i giorni di festa, lo invitava a stare con Pietro; e così ambedue i giovanetti, ch’erano quasi della stessa età, dovettero doventare amici, sebbene non andassero d’accordo; ed Agostino, che aveva antipatia per Antonio, fu sostituito.
E siccome, per passeggiata, soli, arrivavano quasi sempre, come vole-va il trattore, a Poggio a’ Meli, dopo qualche mese Antonio si vole-vantò di aver parlato di nascosto con Ghìsola. Ed era vero; ma Pietro, da prima, suppose che mentisse, con una delusione violenta, con un di-spiacere che pigliava tutto il suo amor proprio. Un amico non doveva mentire. Che aveva detto a Ghìsola? E perché le aveva parlato senza avvertirlo?
Quale umiliazione provava quando gli altri non rispettavano i suoi sentimenti e obbligavano la sua anima a disfarsi!
Gli altri facevano di lui quello che volevano, e a lui si stringeva la gola dall’emozione. Arrossiva, si sgomentava; sentivasi perso. E nessuna cosa era adatta per lui: le strade troppo faticose, il sole troppo caldo, gli abiti tagliati male, le mani troppo grosse; affannandosi a non riflet-tere a ciò, di convincersi del contrario; stordendosi; mentre gli orecchi gli rombavano, e credeva di dover cadere da un momento all’altro. Gli sembrava che la sua faccia non fosse capace a nascondere la lealtà troppo aperta e ostinata; provandone una violenza che gli dava il ma-lessere. Si sentiva debole sotto il suo spirito affannato, che egli stesso voleva cambiare.
Una domenica, tra le altre, tornò con Antonio a Poggio a’ Meli; per-ché aveva scommesso di farlo passare da bugiardo dinanzi a Ghìsola. Ma si vergognava di dirgli quel che soffriva dentro di sé; e sentivasi
così da meno del suo amico che gli pareva di statura anche più alta del solito.
Già, camminando, s’erano bisticciati, picchiandosi su la schiena; ed egli aveva piuttosto voglia di smettere e di piangere, disperato che l’altro, invece, ci si divertisse.
Antonio, avvedendosi facilmente del turbamento di Pietro, gli gridò: - Vedrai se non è vero!
Pietro non rispose più: e l’amico soggiunse: - Le parlai anche l’altro giorno. Ha promesso di voler bene a me e non a te.
E, per troncar corto, gli dette un pugno; ma Pietro se lo riparò con una mano.
Antonio, sempre più sicuro, seguitava a ripetere: - Tu non ti avvicine-rai a lei.
- Né meno tu.
- Io farò quello che voglio.
E fingendosi risentito, si riaccostò con la saliva bianca che gli usciva di bocca. Anche quando non parlava gli si vedevano tutti i denti di sopra, sani, ma storti: sembrava che li avesse piantati nel labbro. E aveva il naso piegato da una parte.
Pietro, cercando di persuaderlo con la bontà, gli disse: - Ed io mi adirerò con te.
- E che m’importa? Fai quello che vuoi. Io sono amico di tuo padre, e verrò quando mi pare. Anzi tuo padre, qui al podere, mi ci porta più volentieri che te.
Pietro si sentì combattuto senza riparo: era proprio vero quel che ave-va detto!
E seguitarono a camminare accanto. Ma, dopo un poco, Antonio lo fermò per guardarlo in faccia; trattenendolo per un braccio. Poi fece una sghignazzata: - Stai zitto?
Poi sputò sull’erba, asciugandosi la bocca con il dorso della mano. Pietro disse: - Io torno indietro.
- Io no: voglio parlarci. Vattene. - Torna indietro anche tu.
Voleva evitare che Antonio la vedesse. Ma quegli proseguiva; e, allora, Pietro dovette fare altrettanto.
Quando giunsero davanti all’aia, Ghìsola usciva di casa proprio in quel mentre; e s’avviava nel campo a chiamare il nonno, passando accanto alla bella pianta di ciliegio da capo a un filare di viti.
Antonio, per fare il più bravo, le mosse incontro in fretta. Ma Ghìsola rise di più a Pietro; e dette a capire che si fermava lì per lui.
Allora Antonio si mosse per cogliersi una piccia di ciliegie, lasciandoli discosti; e Pietro le domandò: - È vero che vuoi bene soltanto a me? Dimmelo. Se non fosse vero...
Gli rispose con dolcezza: - Soltanto a lei... Però, Antonio non vorreb-be.
Allora non si sentì sicuro, e guardò il dorso dell’amico. Ghìsola, accortasene, aggiunse: - Non ci crede?
E scosse la testa. Ella parlava, questa volta, con una tranquillità così profonda, ch’egli fu subito rassicurato.
- Ma non se ne faccia accorgere da lui. Perché ce lo porta?
Gli sembrò che lo rimproverasse di non stare a solo con lei e credette che ne soffrisse.
Ma la sua bellezza lo distrasse e gli fece dimenticare quel che Antonio aveva detto.
Antonio, intanto, si riavvicinò; certo dopo aver progettato qualche cosa, sputando lontano i noccioli delle ciliegie mangiate tutte insieme; aiutandosi con un dito per cacciarseli di bocca. Pietro, mentre un bri-vido lo scuoteva, gliene strappò una piccia infilata alle dita. Antonio esclamò: - Perché me le levi? Dàlle a Ghìsola, piuttosto.
Pietro non seppe che rispondere; perché avrebbe voluto che quella cosa non gli fosse stata suggerita; e restò con le ciliegie in mano. Ma Ghìsola lo cavò d’impaccio: - Io le prendo da me.
Quanto gli parve buona e intelligente!
Ma Antonio non si perse d’animo: - Se non ci arrivi, ti abbasso il ramo io.
Allora, Pietro notò come a lui non sfuggiva mai nulla per ingraziarsela; ma Ghìsola, aspettandosi anche questo, sorrise e disse: - Non importa. Ma con una insolenza, che Pietro sussultò sorpreso. E pensò: «Perché non è venuto a me di dirglielo prima? Ora non c’è più tempo! E quan-to piacere ella avrebbe avuquan-to se glielo avessi detquan-to io!».
Si guardarono tutti e tre in silenzio, stando in cerchio; ma si sentirono per un istante amici e senza ostilità. E sentirono anche il bisogno di dirsi più di quello che s’erano detto fino ad allora.
Ghìsola sembrava più lieta, si mandava in dietro i capelli; toccava il laccio del grembiule, come per invitare a farselo sciogliere. Ma Pietro credeva che se ne volesse andare, perché non riesciva a dirle niente. Il ciliegio aveva il pedano nero e rossiccio, aperto da profonde scre-polature come spacchi, ripieni di resina dura e lucente; una fila di formiche saliva, ed un’altra, accanto, scendeva, brulicanti; pareva di sentirsele camminare addosso. Vicino, su l’erba acciaccata, c’era rima-sta una pozzanghera di solfato di rame incalcinato. Sopra un fragolaio pendeva un fico, senza né meno una foglia, tutto liscio, con i rami
quasi arruffati insieme; e la sua buccia era di un bianco roseo. Qual-che rospo s’udiva dai fondi dei borri, tra i salci potati e rossi. Pareva che non ci fosse nessun’ombra; ma le nebbioline, che restavano basse come le piante, salivano dalle terre vangate.
Antonio, vedendo Pietro assorto, lo urtò. Quegli per non cadere fece un passo innanzi, presso Ghìsola; ma non fiatò perché Antonio non volesse picchiarlo proprio lì: gli parve che ella odorasse molto, di un odore strano; che lo eccitò. Gli parve anche che facesse l’atto di aprir-gli le braccia; e ne fu tutto sconvolto: «Se l’avesse aperte da vero?». Ma Antonio disse a Ghìsola: - È possibile che tu pensi a lui? Non vedi com’è brutto?
La contadina, specie per rispetto, rispose che non era vero; ma in modo che Antonio non se la prendesse troppo. Poi seguitò a difen-derlo: - Che gliene importa?
Allora Pietro fu quasi sicuro di non essere solo; ma non ebbe la forza d’alzare gli occhi, benché Antonio non sapesse più quel che dire. Poi Pietro la guardò; ed ella gli sorrise con uno di quei sorrisi involonta-riamente dolcissimi.
Perciò Antonio, non trovando da proporre di meglio, perché quei due non stessero troppo insieme, disse con tutta la sua cattiveria: - Io me ne torno a Siena.
Ghìsola suggerì sottovoce a Pietro, sapendo che Antonio avrebbe udi-to lo stesso: - Lo lasci andare.
E allora Antonio, senza aspettarlo, s’avviò; ma, volgendosi con collera, chiese: - E tu non vieni?
Ghìsola non parlava più: e il suo silenzio non lasciava trapelar nulla. Si capiva bene però che voleva mettere alla prova Pietro, che le disse con la voce strozzata: - Bisogna che vada. Mio padre...
Tutta la faccia di lei s’indurì; ed ella si mise a guardare Antonio già discosto parecchi passi.
Pietro si raccomandò: - Non dirgli niente!
Ella abbassò la testa, rispondendo: - Allora vada via!
Ma Pietro credette d’essere amato. E raggiunse Antonio, prendendolo a braccetto. Cominciarono allora a ridacchiare.
Poi, Antonio disse sinceramente, e anche perché Pietro non pensasse più a Ghìsola: - Perché siamo venuti a Poggio a’ Meli? Non ci siamo divertiti.
Una cicala cantò da un olivo. La saggina ondeggiava prima lenta e poi in fretta; talvolta qualche stelo pareva scosso da un brivido, aprendo a tratti i suoi fiori chiari.
Antonio cavò di tasca un coltellino con il manico d’osso a coda di pesce, spingendolo sotto la buccia secca di una canna, che aveva
rac-colta; tagliando anche i cerchietti dei nodi, a colpi che assomigliavano al suo riso.
Pietro non si volse indietro a vedere dove fosse Ghìsola perché non facesse altrettanto Antonio, giacché ora fingeva d’essere attento al suo lavoro di pulitura. Antonio infatti lo spiava; ma era sicuro che non ce ne fosse bisogno.
Giunti alla Porta Camollia, si spolverarono con il fazzoletto le scarpe, si asciugarono il sudore e si ravversarono il cappello aiutandosi a ri-farci la piega nel mezzo.
Prima d’entrare nella trattoria, si promisero di non parlare più nessu-no dei due a Ghìsola.
(F. Tozzi, Con gli occhi chiusi, in Id., Opere, a cura di M. Marchi, Mi-lano, Mondadori, 1987, pp. 45-50)
1. Tozzi e il canone: a scuola e nell’università
Nel 2005 si tenne a Perugia il convegno sulla pratica del com-mento, che in qualche modo fa da ponte tra quello di Ascona del 1989 e quello che si è tenuto a Siena due anni fa1. In
quell’oc-casione, chiamato a rispondere sulle soluzione specifiche che richiedono i testi narrativi del Novecento – e in quel caso, come in questo, in modo particolare quelli di primo Novecento2 –,
tracciavo una fisionomia del commento che non credo possa es-sere ancora sottoscrivibile del tutto.
In sostanza ritenevo che il commento ai romanzi di primo Novecento avesse uno statuto per certi aspetti diverso e autono-mo rispetto a quello applicato a opere del passato. Se, come giu-stamente ha sostenuto Segre, funzione del commento è quello di sanare il divario linguistico e culturale tra testo e lettore (perché
1. Il commento ai testi. Atti del seminario di Ascona, 2-9 ottobre 1989, a c. di
o. besoMi-C. CaRuso, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin, 1992; Il commento dei testi
letterari. Atti del Convegno di Studi, 14-15 aprile 2005, a c. s. Gentili, Edizioni di
Storia e Letteratura, Roma, 2006; La pratica del commento, a c. di D. bRoGi, t. De
RoGatis, G. MaRRani, Pacini editore, Pisa, 2015.
2. Cfr. M. toRtoRa, Commento ai testi sveviani: bilanci e prospettive, in
la lingua del testo è ormai in disuso e percepita quasi come una straniera; e perché l’«enciclopedia» dell’autore non ha nulla in comune con quella di chi legge3), il romanzo di primo
Novecen-to – notavo dieci anni fa – si sottrae alla stretta necessità di que-sta pratica: la lingua in fondo è comprensibile (chi ha bisogno di parafrasi per il preambolo del dottor S.?) e i riferimenti culturali non sono così sfuggenti e oscuri da dover essere costantemente spiegati, con quel corpo a corpo che si concretizza negli apparati a piè di pagina. Per questo si potrebbe (poteva) credere che il commento alla narrativa più che necessario sia (fosse) accesso-rio; e questo perché invece di essere esplicativo (garante dunque della leggibilità) si erge immediatamente a interpretativo (e di conseguenza l’«ansia di totalizzazione»4 – «commentare vuol
dire commentare tutto»5 – lascia spazio a un criterio selettivo e
di parzialità). Chi commenta non decodifica il testo, ma ne offre una lettura critica, e inevitabilmente orientata.
Del resto, come naturale conseguenza di quanto appena detto, il commento a un testo novecentesco è sempre una pro-posta di inserimento nel canone (in un canone ancora instabile e soggetto a continue contrattazioni), o meglio una ratifica e un irrobustimento di un processo critico che ha già
condot-3. Cfr. C. seGRe, Per una definizione del commento ai testi, in iD., Notizie dalla
crisi. Dove va la critica letteraria?, Einaudi, Torino, 1993, p. 263 (già in Il commento ai testi, cit., pp. 3-17), p. 265. Ma cfr. anche quanto sostiene Fusillo, secondo cui
compi-to primo del commencompi-to è quello di «spiegare la lettera del tescompi-to, dal momencompi-to in cui la distanza storica, geografica e culturale l’ha resa problematica. Da questo punto di vista il compito del commentatore non è molto lontano da quello del traduttore; entrambi devono risolvere il problema della distanza fra l’opera e il pubblico a cui si rivolgono operando delle scelte e comunicando un’immagine del testo» (M. Fusillo,
Commentare, in Il testo letterario. Istruzioni per l’uso, a c. di M. lavaGetto, Laterza,
Roma-Bari, 2004 [Ia ed. 1996], p. 41).
4. Ivi, p. 45.
5. D. De RobeRtis, Commentare la poesia, commentare la prosa, in Il commento