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Ut pictura poesis: l'eco dell'ekphrasis nella poesia angloamericana del XX secolo

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D

IPARTIMENTO DI

F

ILOLOGIA

,

L

ETTERATURA E

L

INGUISTICA

Corso di Laurea Magistrale in Letterature e

Filologie Euroamericane

TESI DI LAUREA

«Ut pictura poesis» :

L’eco dell’ekphrasis nella poesia anglo-americana del XX

secolo

C

ANDIDATO

R

ELATORE

Chiara Rossi

Prof. Fausto Ciompi

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3

Indice

Introduzione

... 4

Capitolo I: Storia e teoria dell’ekphrasis

1.1 Ut pictura poesis: tra sosteniori e detrattori ... 7

1.2 Genesi ed evoluzione dell’ekphrasis ... 14

Capitolo II: Arte e poesia nel primo Novecento

2.1 W.B. Yeats: l’arte come superamento del sè e della storia ... 42

2.2 L’Imagismo ... 50

2.1.1 L’Imagismo e il trattamento dell’immagine ... 53

2.3 T.S. Eliot: il ritratto come indagine sull’essenza e sull’esistenza dell’interiorità ... 57

2.4 W.H. Auden: l’arte e la politica ... 66

2.5 Dylan Thomas: la geometria del corpo ... 74

Capitolo III: Arte e poesia nel secondo Novecento

3.1 W. C. Williams: il design della poesia ... 80

3.2 Philip Larkin: l’ekphrasis radicale ... 91

3.2 John Ashbery: la poesia come specchio convesso ... 98

3.2 Derek Mahon: dentro e fuori dal quadro ... 112

Conclusioni

... 123

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Introduzione

L'elaborato si pone come obiettivo l'analisi di alcuni esempi di “poesia visiva” nel XX secolo, nel contesto più generale della secolare tradizione ecfrastica. Mettendo in evidenza punti di continuità e cesure con quest'ultima, si tenta poi di suggerire una possibile linea evolutiva del genere: da strumento “riproduttivo”, finalizzato cioè alla traduzione intersemiotica, a “strumento produttivo”, autosufficiente e autoriflessivo.

Il primo capitolo, “Storia e teoria dell’ekphrasis”, discute brevemente i punti salienti del dibattito secolare generato dal principio oraziano di “ut pictura poesis”. L’attenzione alla relazione tra letteratura e arti figurative ha infatti origini antichissime: si pensi alla definizione che Plutarco attribuì a Simonide di Ceo, secondo la quale la pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante, o ad Aristotele che, nella Poetica, fonda il suo paragone sulle componenti mimetiche di arte visiva e poesia. Il dibattito prosegue e si accende nel Rinascimento, dove il confronto tra le arti assume spesso le connotazioni di una vera e propria competizione da cui la pittura, forte delle nuove tecniche prospettiche e dell’aumentato potenziale mimetico che da esse deriva, esce frequentemente vittoriosa. A questo proposito, si cita il contributo di Leonardo da Vinci, oltre alle riflessioni, per così dire certamente meno “di parte”, di Benedetto Varchi e Ludovico Dolce. È nel Settecento, tuttavia, che la riflessione teorica raggiunge un definitivo punto di non ritorno. L’elaborato esamina brevemente i contributi di Antony Shaftesbury, Moses Mendelssohn e Denis Diderot reputandoli sostanziali tappe verso quella che è considerata, ancora oggi, la fondamentale definizione dei confini tra le due arti: Laocoonte, ovvero sui confini della pittura e della poesia di Gotthold Ephraim Lessing. Nel suo scritto, il teorico si scaglia contro le forme d’arte mista in voga nel Settecento – dalla lunga tradizione dell’emblematica che, già nel secolo precedente aveva raggiunto lo status di vera e propria moda, alla poesia descrittiva in auge proprio nel XVIII secolo, che aveva alla base

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un’attitudine all’analogia tra le due arti, applicando alla poesia molte tecniche proprie della pittura. A partire da questo caos concettuale, Lessing cerca di ridefinire i confini tra le due arti: la poesia è l’arte del tempo, la pittura è l’arte dello spazio; la poesia imita azioni alludendo a corpi, la pittura imita corpi alludendo ad azioni. Mentre cita, a sostegno della propria tesi, la descrizione dello scudo di Achille tratta dall'ottavo libro dell’Eneide (vv. 478-608), Lessing fa però riferimento al genere dell'ekprasis. Essa rappresenta, a nostro avviso, il più equilibrato tentativo di sintesi tra le due discipline mai prodotto, talmente complesso, si direbbe, da essersi protratto, seppur in forme e modalità continuamente rinnovate, fino ai giorni nostri. Il capitolo prosegue quindi con un

excursus storico-letterario sull’evoluzione di questo genere dalle origini – come

esercizio nei manuali di retorica e come breve parentesi descrittiva entro poemi narrativi di ampio respiro (Odissea, Eneide) – all’Ottocento, stagione di straordinaria riflessione letteraria sull’arte visiva. Nell’excursus storico-letterario il discorso si sviluppa lungo due direttrici: da un lato, si mantiene un focus orientato alla letteratura inglese, con esempi tratti dagli scritti di Geoffrey Chaucer, Edmund Spenser, William Shakespeare, George Herbert, Andrew Marvell, Richard Crashaw, Alexander Pope e John Keats, dall’altro, in parallelo, vengono focalizzati aspetti significativi delle corpose produzioni teoriche sull’argomento.

Lo scopo del secondo capitolo, “Poesia e arte nel primo Novecento”, è invece quello di esplorare l’evoluzione della “poesia visiva” nella prima metà del XX secolo, con esempi tratti opere di William Butler Yeats, di autori che si riconoscono nella corrente dell’Imagism (quali Amy Lowell e Richard Aldington), Thomas Stearns Eliot, Wystan Hugh Auden e Dylan Thomas. In ciascuna analisi, si cerca di utilizzare un approccio multifocale, mirato a collegare esperienze biografiche significative dell’autore con documenti di poetica e opere letterarie. All’analisi di veri e propri componimenti ecfrastici – “On a Portrait” di Eliot, “Musée de Beaux Arts” di Auden, per citarne alcuni – si abbina l’esplorazione di componimenti che applicano “tecniche pittoriche” all’arte verbale (la “poetry of vision” di Yeats, largamente ispirata allo stile pittorico dei preraffaelliti), che utilizzano l’immagine come veicolo ed essenza dei concetti presentati (si pensi alla grande stagione dell’Imagism, o alla potenza delle immagini e delle forme in

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Thomas), o che utilizzano il grande tema dell’arte come presupposto e punto di partenza per riflessioni esistenziali (“Sailing to Byzantium” di Yeats, per esempio).

Seguendo il medesimo approccio metodologico, il terzo capitolo, “Poesia e arte nel secondo Novecento”, apporta esempi tratti, in particolare, dall’opera di Philip Larkin, William Carlos Williams, John Ashbery e Derek Mahon. Negli esempi presentati si cerca di evidenziare i tratti che fanno dell’ekphrasis post-moderna un genere completamente rinnovato, seguendo una linea già parzialmente tracciata nella prima metà del secolo. Come nel primo Novecento, infatti, la poesia ecfrastica presenta caratteristiche “produttive” più che riproduttive – le poesie di W.C. Williams, o ancor di più, quelle di J. Ashbery o D. Mahon, trattano infatti il linguaggio come strumento di scoperta, e non come semplice medium verbale. Le opere analizzate non riproducono dunque l’immagine nella sua staticità e autonomia, ma tracciano, piuttosto, il movimento dell’occhio del pittore che si muove liberamente attraverso il quadro e dentro e fuori dal quadro. La poesia, dunque, come nell’action painting, è la registrazione della gestualità del poeta, del movimento del suo occhio e del suo pensiero.

Sebbene quindi, la poesia ecfrastica contemporanea presenti molti aspetti che appartengono alla tradizione del genere, essa pone un’enfasi più forte sulla propria abilità di incarnare le strategie formali del dipinto e minore enfasi sul proprio potenziale mimetico.

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Capitolo 1

Storia e teoria dell’ekphrasis

1.1 Ut pictura poesis: tra sostenitori e detrattori

Il rapporto tra letteratura e arti figurative è stato e continua ad essere oggetto di innumerevoli indagini e speculazioni che coinvolgono un grande numero di discipline: dalla storia dell'arte alla filosofia, fino alla semiologia e all'estetica. Del resto, l’attenzione alla relazione tra letteratura e arti visive ha origini antichissime. Si pensi alla celebre nozione di “ut pictura poesis”, elaborata da Orazio nel De

arte poetica liber, un trattato sulle regole della poesia in cui il poeta afferma:

Ut pictura poesis: erit quae si propius stes te capiat magis, et quaedam si lungius abstes. Haec amat obscurum, volet haec sub luce videri, iudicis argutum quae no formidat acumen, haec placuit semel, haec decies repetita placebit1.

Altro esempio dell’interesse degli antichi riguardo alle analogie tra medium verbale e medium visivo si ritrova in Simonide che, per primo, definì la pittura una poesia muta e la poesia una pittura parlante, secondo quanto riportato da Plutarco nel De gloria Atheniensium2, o in Aristotele, che nella sua Poetica

accomuna pittori e poeti affermando che “il poeta è un imitatore come il pittore o ogni altro artista plastico”3.

Queste riflessioni esercitarono un impatto fondamentale sul Rinascimento,

1 QUINTO ORAZIO FLACCO, De Arte Poetica Liber, in Orazio: Tutte le opere, a cura di E. Centrangolo, Firenze, Sansoni Editore, 1989, pp. 546-547. “Una poesia è come un quadro: ce ne sarà uno che ti prende di più visto da vicino, e un altro da lontano; uno vuole la penombra, quello che non teme l’acume severo del critico vuol essere guardato in piena luce; l’uno piace una volta, questo sempre che si riguarda” (vv. 361-365).

2 PLUTARCO, La Gloria di Atene, a cura di I. Gallo e M. Mocci, Napoli, M. D’Auria, 1992.

3 ARISTOTELE, Poetica, passo 1460b (XXV) in N.CIARLETTA, “Note sui riferimenti alla pittura nella Poetica di Aristotele”, in Quaderni urbinati di cultura classica, No.23, 1976, p.131.

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quando schiere di teorici e critici diedero vita a un acceso dibattito sul confronto tra arti verbali e visive, sostenendo ora la superiorità delle une, ora quella delle altre.

Un contributo a favore della superiorità del medium visivo su quello verbale è offerto ad esempio da Leonardo Da Vinci, il quale, nel Trattato della pittura (1498), sferra alla poesia un violento attacco:

La pittura serve a più degno senso che la poesia, e fa con più verità le figure delle opere di natura che il poeta, e sono molto più degne le opere di natura che le parole, che sono opere dell'uomo4.

E la tua lingua sarà impedita dalla sete, ed il corpo dal sonno e dalla fame, prima che tu con parole dimostri quello che in un istante il pittore ti dimostra5.

[...] in effetto la poesia non ha propria sede, né la merita altrimenti che di un merciaio ragunatore di mercanzie fatte da diversi artigiani6.

Secondo Leonardo, la pittura è più degna della poesia perché, avvalendosi del senso della vista, può rappresentare in maniera più immediata la natura e la realtà. Al contrario, la poesia può utilizzare esclusivamente le parole per mostrare opere dell'uomo. Da questo punto di vista la poesia è un'arte “ladra”, che si avvale di strumenti espressivi che non le sono propri, mentre è dalla pittura che attingono ad esempio l'architettura o la geometria: “Questa [la pittura] col suo principio, cioè il disegno, insegna all'architettore a fare che il suo edificio si renda grato all'occhio [...]; questa ha trovato i caratteri, con i quali si esprimono i diversi linguaggi, questa ha dato le caratte agli aritmetici, questa ha insegnato la figurazione alla geometria”7.

Secondo Federica Mazzara8, autrice di un illuminante saggio sulla teoria

dell'ekphrasis nel Novecento, in nessun periodo come nel Rinascimento la pittura uscì tanto vittoriosa dal confronto con la poesia, un trionfo che la studiosa collega alla nascita della prospettiva e alla aumentata capacità del medium visivo di soddisfare il principio della mimesi.

4L.DA VINCI, Trattato della Pittura, Roma, Unione cooperativa editrice, 1890, vol.1, p.7. 5 Ivi, p.8.

6 Ivi, p. 15. 7Ibidem.

8F.MAZZARA, “Il dibattito anglo-americano del Novecento sull’Ekphrasis” in Intermedialità ed Ekphrasis nel Preraffaellitismo: il caso Rossetti, Napoli, Università di Napoli, 2007, pp. 1-70.

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Non mancano neppure elaborazioni teoriche che differenziano le due forme. Ne è un esempio la disputa terza “In che siano simili et in che differenti i pittori ed i poeti”, contenuta nella Lezzione nella quale si disputa della maggioranza delle

arti di Benedetto Varchi. Qui l'umanista, sebbene ammetta che la pittura sia in

grado di giovare alla poesia e viceversa, non può fare a meno di notare che

la poesia [...] è simile alla pittura, poiché ambedue imitano la natura; ma è da notare che il poeta l'imita colle parole et i pittori co' colori, e, quello che è più, i poeti imitano il di dentro principalmente, cioè i concetti e le passioni dell'animo, [...]; et i pittori imitano principalmente il di fuori, cioè i corpi e le fattezze di tutte le cose9.

Le due forme espressive sono differenti perché, sebbene entrambe imitino la natura, ne ritraggono aspetti diversi: la pittura è più adatta alla raffigurazione delle apparenze, la poesia all'espressione dei moti dell'animo.

Un concetto, questo, ripreso anche da Ludovico Dolce nel Dialogo della

pittura intitolato l'Aretino:

[...] essendo che il poeta si affatica ancor esso intorno alla imitazione, aggiungo che il pittore è intento ad imitar per via di linee e colori, o sia su un piano di tavola o di muro o di tela, tutto quello che si dimostra all'occhio; et il poeta col mezzo delle parole va imitando non solo ciò che si dimostra all'occhio, ma che ancora si rappresenta all'intelletto10.

Fu però soprattutto nel Settecento che, attraverso il lavoro di illustri intellettuali quali Joshua Reynolds, Diderot e Lessing, si giunse a una più complessa ridefinizione dei confini e delle sovrapposizioni tra le arti sorelle. Sul fronte dei sostenitori dell'ut pictura poesis, lo studio di Reynolds contribuì per prima cosa ad un superamento del concetto di mimesis, insistendo sul fatto che unico è “il fine delle arti sorelle: colpire l'immaginazione superando la semplice imitazione della natura, anzi, andando oltre la natura”11. Come ha rilevato Chiara Savettieri, a partire da queste riflessioni, proprio in Inghilterra, culla dei concetti di genio e

9B.VARCHI, “Lezzione nella quale si disputa della maggiora delle arti e qual sia più nobile, la pittura o la scultura”, in Trattati D’Arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Bari, Laterza,1960, Vol. I, p. 55.

10L.DOLCE, “Dialogo della pittura intitolato l'Aretino”, in Trattati d’arte del Cinquecento, cit., Vol. I, p. 152.

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immaginazione, nacquero iniziative come la Shakespeare Gallery, dove venivano esposti dipinti ispirati alle opere del poeta e firmati da artisti del calibro di Reynolds, Benjamin West e H. Füssli. Anche Jean H. Hagstrum, nel suo studio

The Sister Arts, definisce quella tra pittura e poesia nel Settecento una relazione di

“friendly emulation”12.

D’altronde, non mancarono ridefinizioni dei limiti e delle differenze tra le due forme di espressione. Precursore di questa tendenza fu Anthony Shaftesbury che, in Notion of the Historical Draught or Tablature in the Judgement of Hercules (1713), definì la pittura “tablature” ossia “un quadro singolo, compreso in un'unica visione e formato secondo un'unica idea, un unico significato e disegno”13.

Questa convinzione secondo la quale il dispositivo visivo è capace di rappresentare un'unica scena e non una sequenza di azioni è alla base della successiva e più nota distinzione di Lessing tra poesia come “arte del tempo” e pittura come “arte dello spazio”. Citando Hagstrum e Rensselaer W. Lee, Mazzara ha opportunamente osservato che a questo desiderio di ordine contribuirono anche le “macroscopiche assurdità” espresse dai poeti pittorialisti nel loro tentativo di teorizzare il parallelo tra pittura e poesia. A questo proposito, parlando del trattato di John Dryden, A Parallel of Poetry and Painting (1695), Lee afferma:

it is still not easy to understand how a man of the acute critical sense of John Dryden could, in comparing literature with painting, fall into such absurdities as when he compares the subordinate groups gathered about the central group of figures in painting to the episodes of an epic poem (…). These analogies can scarcely be said to be illuminating and show again the confusion that arises when an enthusiastic but befuddled critic naively attempts a comparison of the sister arts that a little reflection on the possibilities and limitations of their media would have shown to be inconsistent with14.

Veniamo ora a Lessing e al suo tentativo di mettere in crisi la dottrina dell'ut

pictura poesis. Come nota Savettieri, cenni alla fortunata teoria del “momento

pregnante” si ritrovano già in Diderot. Alla voce Composition dell'Encyclopedie

12J.H.HAGSTRUM, The Sister Arts. The Tradition of Literary Pictorialism and English Poetry from Dryden to Gray, Chicago, University of Chicago Press, 1987, p. 130.

13C.SAVETTIERI, op. cit., p. 81.

14W.R.LEE, Ut pictura poesis. A Humanistic Theory of Painting, New York, W.W. Norton & co., 1967, p. 65.

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11 leggiamo infatti:

De l’unité de temps en Peinture. La loi de cette unité est beaucoup

plus sévere encore pour le peintre que pour le poëte: on accorde vingt-quatre heures à celui-ci, c’est-à-dire qu’il peut, sans pécher contre la vraissemblance, rassembler dans l’intervalle de trois heures que dure une représentation, tous les évenemens qui ont pû se succéder naturellement dans l’espace d’un jour. Mais le peintre n’a qu’un instant presque indivisible ; c’est à cet instant que tous les mouvemens de sa composition doivent se rapporter : entre ces mouvemens, si j’en remarque quelques-uns qui soient de l’instant qui précede ou de l’instant qui suit, la loi de l’unité de tems est enfreinte15.

E ancora: “Un peintre habile saisit un visage dans l'instant du passage de l'ame d'une passion à une autre, et fait un chef d'oeuvre”16. Il bravo pittore, dovendo

rappresentare un solo istante che racconti l'intera storia dovrà, a differenza del poeta, essere capace di scegliere il momento che racchiuda il conflitto del protagonista e dunque l'evoluzione e il senso ultimo della vicenda.

Prima di Lessing, l'amico berlinese Moses Mendelssohn aveva rielaborato il sistema delle Belle Arti proposto da Charles Batteaux (Les Beaux-Arts réduits à un même principe), delineando una ridefinizione dei confini tra pittura e poesia. In

Principi generali delle belle lettere e delle belle arti17 egli distingue le belle arti,

che fanno uso di segni naturali, cioè di segni in cui – per dirla in termini saussuriani – la relazione tra significante e significato si basa sulle caratteristiche del significante, dalle belle lettere che utilizzano segni artificiali, segni cioè, in cui la relazione tra significante e significato è arbitraria. Cosa ancor più importante ai fini del nostro discorso, le arti si distinguono in un gruppo i cui segni sono contigui (pittura, scultura, architettura) e uno in cui i segni sono successivi (musica, danza, poesia, eloquenza), rimandandoci quindi alla ben nota distinzione di Lessing.

Quest'ultimo, intenzionato a dimostrare non solo la non riducibilità del medium verbale al medium visivo, ma anche la superiorità del primo sul secondo, scrive:

15 D. DIDEROT.,“Composition” in Encyclopédie.

(http://encyclopédie.eu/index.php/1178610559-COMPOSITION.)

16 Ibidem.

17 M. MENDELSSOHN, Principi generali delle belle lettere e delle belle arti, Charleston, Nabu Press, 2012, pp.20-21.

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Ecco come io ragiono: s'egli è vero che la pittura e la poesia adoperino per imitare mezzi o segni diversi, poiché l'una si vale di figure e di colori nello spazio, l'altra di voci articolate nel tempo; e se per tanto è cosa incontrastabile che ogni segno deve avere una propria analogia coll'oggetto rappresentato, ne sigue che i segni coesistenti nello spazio, siano essi espressi sulla tela, sul marmo o su qualsivoglia altra materia, non potranno mai rappresentare che oggetti coesistenti, e che in vece i segni che si susseguono nel tempo, cioè le parole, non potranno rappresentare che oggetti succedentisi l'un l'altro nel tempo, e lo stesso si dica delle parti di tanto di questi oggetti come di quelli. Le cose o quelle parti di esse che coesistono nello spazio si chiamano corpi. Per conseguenza i corpi e le loro qualità visibili saranno oggetto della pittura. Le cose o quelle parti di esse che si succedono nel tempo si dicono generalmente azioni. Quindi le azioni saranno l'oggetto della poesia18.

Per supportare la sua argomentazione, Lessing prende ad esempio una delle prime ekphrasis della storia della letteratura occidentale: la descrizione omerica dello scudo di Achille contenuta nell'ottavo libro dell'Eneide.

Io avrei minor fiducia in quest’arida catena di deduzioni se non la trovassi compiutamente confermata in Omero, e se da essa, più esattamente, non mi ci avesse condotto la prassi stessa di Omero. […] Io trovo che Omero non dipinge altro che azioni progressive, e tutti i corpi, tutte le singole cose li dipinge solo in quanto partecipi di tali azioni, e di solito con un unico tratto19.

Omero infatti non dipinge lo scudo come un qualcosa di perfettamente compiuto ma come qualcosa in divenire. Egli dunque si è valso anche qui del lodato artificio di trasformare gli elementi coesistenti del suo oggetto in elementi consecutivi, creando in tal modo dalla noiosa pittura di un corpo il vivido quadro di un’azione20.

Per mostrare la perfetta riuscita dell'ekphrasis omerica, Lessing afferma che la descrizione dello scudo non consiste tanto nella descrizione delle sue diverse parti, ma nella successione di azioni che avrebbero portato alla sua forgiatura. È questa una delle falle più palesi della teorizzazione lessinghiana. Il drammaturgo tedesco si rifà a Omero e alla sua abilità nel rendere, attraverso le parole, la fattura dello scudo. Seppur inavvertitamente, dunque, Lessing evoca l'ekphrasis “che rappresenta un caso particolare di interartisticità e di incontro tra discorso

18G..E.LESSING, Laocoonte, a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica Edizioni, 2003, p. 63. 19 Ivi p. 64.

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poetico e discorso delle immagini”21 e la sua capacità di permetterci, anche solo

per un momento, di visualizzare l'oggetto nello spazio, “dimenticando” quindi il

medium espressivo adoperato dal poeta, ossia le sue parole. Scrive Lessing:

È vero: dato che i segni del discorso sono arbitrari, è certo possibile che tramite essi si possano far succedere le parti del corpo una dopo l’altra, come in natura esse si trovano l’una accanto all’altra. Solo che questa è una proprietà del discorso e dei suoi segni in generale, non in quanto più idonea ai fini della poesia. Il poeta non vuole essere solo comprensibile, le sue rappresentazioni non devono essere solamente chiare e distinte; di ciò si accontenta il prosatore. Piuttosto egli vuole rendere le idee che suscita in noi talmente vivide che nella fretta noi crediamo di sentire le vere impressioni sensibili degli oggetti di quelle, e in questo momento di illusione cessiamo di essere consci del mezzo che lui adopera, delle sue parole22.

Così Mazzara commenta le dichiarazioni lessinghiane:

se da un lato, dunque, il saggio di Lessing raccoglie le riflessioni più polemiche rispetto alla questione della relazione tra letteratura e arti figurative – per la quale, anche se non trova soluzioni suggerisce almeno una possibile lettura, minacciando per la prima volta l'integrità di una dottrina antica e perseguita per secoli come quella dell'ut pictura poesis – dall'altro, torna a dare una speranza ai cultori dell'omologia tra le arti, attraverso un riferimento, seppure “nascosto”, ad una forma altamente intermediale, quale l'ekphrasis: una rottura, se vogliamo, nel suo ragionamento apparentemente inattaccabile23.

Ed è proprio su questa particolare forma interartistica, praticata nel solco della tradizione classica fino ai nostri tempi, che ci soffermeremo nelle pagine seguenti.

21F.MAZZARA, op.cit., p. 12. 22G.E.LESSING, op. cit., p. 68. 23F.MAZZARA, op.cit., p. 13.

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1.2 Genesi ed evoluzione dell'ekphrasis

Se il termine ekphrasis si ritrova già negli scoli all'Iliade e, in particolare, nelle note relative agli episodi della forgiatura dello scudo di Achille (Iliade, 8, 478-607), della discesa di Apollo (Iliade, 15, 237-238) e del sonno di Achille di fronte alla pira di Patroclo (Iliade, 23, 232)24, è necessario attendere il I secolo d.C. per una definizione più precisa del termine nei Progymnasmata, raccolte di esercizi destinati agli studenti di retorica e finalizzati alla produzione di testi declamatori. Questi manuali presentavano una serie di esercizi preparatori, disposti in ordine di difficoltà, che dividevano l'arte della persuasione in “unità” più maneggevoli, ognuna delle quali era posta in relazione allo studio della retorica nel suo complesso25. I Progymnasmata attualmente conosciuti sono quattro: il primo,

redatto da Elio Teone nel I secolo d.C.; il secondo, di Ermogene di Tarso, risalente al II secolo d.C.; il terzo, di Aftonio (IV secolo d.C.); l'ultimo di Nicolao di Mira (V secolo d.C.). Le definizioni di ekphrasis offerte da questi testi sono pressoché identiche, ma, soprattutto, propongono un significato del termine completamente diverso da quello che noi moderni ci aspetteremmo. Nei quattro volumi infatti l'ekphrasis è definita “la descrizione di un qualsivoglia oggetto che produca un effetto sull'ascoltatore”26, ossia “che porti la materia descritta direttamente davanti

agli occhi”27 di quest'ultimo. A questa definizione segue, in tutti i volumi, un

elenco delle materie oggetto dell'ekphrasis. Teone, suggerisce persone (prosopa), luoghi (topoi), tempi (chronoi) ed eventi (pragmata). La lista rimane sostanzialmente invariata nel corso dei secoli, pur essendo sottoposta a varie modifiche: Aftonio aggiunge la descrizione di piante ed animali, Nicolao quella delle cerimonie pubbliche e così via. Come osserva D.L. Clark, scopo dell'ekphrasis nel contesto dei Progymnasmata, era quello di “prepare the boys to make their mature public addresses more vivid and hence more persuasive”28.

24R.WEBB, “Ekphrasis Ancient and Modern: The Invention of a Genre”, in Word and Image, Vol. 15, No. 1, 1999, p. 11.

25F.J.D'ANGELO, “The Rhetoric of Ekphrasis”, in JAC, Vol. 18, No. 3, 1998, p. 439. 26M.COMETA, La scrittura delle immagini, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012, p. 18. 27R.WEBB, op. cit., p. 11.

28D.L.CLARK, Rhetoric in Greco-Roman Education, New York, Morningside Heights: Columbia University Press, 1957, p. 202. Sullo stesso concetto ritornano Ruth Webb e Philip Weller alla voce Enaergeia contenuta in The New Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics, ed. by R Greene et al., Princeton, Princeton University Press, 2012: “By penetrating the visual imagination of the listener and involving him in the subject of the speech, the orator can persuade more effectively

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Contrariamente a quanto si può pensare, l'ekphrasis nei Progymnasmata intratteneva maggiori rapporti con la narrativa che con la descrizione. Nell'elenco delle materie oggetto di ekphrasis sono infatti inclusi i pragmata, ossia le azioni. Si pensi alle istruzioni date da Aftonio:

It is necessary for those who describe persons to go from the first element to the last; that is to say, from head to foot; in describing things, from those earlier than these and those things now in these and whatever is wont to spring from these things; in describing times and places, from those surrounding and those within them29.

Le parole dell'autore lasciano intendere che la moderna e fondamentale distinzione tra narrazione (che si dispiega nel tempo) e descrizione (la rappresentazione verbale di un oggetto, che dà luogo a una pausa narrativa) è completamente estranea all’orizzonte concettuale dei retori antichi. Costituivano dunque parte integrante delle descrizioni anche i rapporti causa-effetto e le relazioni di tipo temporale, oggi normalmente considerate appannaggio della narrazione. Un altro caso di connessione del concetto di ekphrasis con quello di narrazione si ritrova in Teone, che riporta tra gli esempi di ekphrasis la descrizione omerica dello scudo di Achille. È interessante notare che Teone non include la descrizione dello scudo di Achille nella categoria delle descrizioni di oggetti d'arte (raggruppamento che semmai si trova nella lista di Nicolao di Mira), bensì in quella idiosincratica di tropos, la maniera in cui qualcosa viene fatto. La qualità a cui Teone è interessato è infatti la stessa che tanti secoli dopo sarà lodata da Lessing: lo status della descrizione dello scudo come descrizione non di un oggetto, ma di un processo.

La definizione che gli antichi davano di ekphrasis non è dunque legata né al tipo di testo, né alle materie trattate (tra le quali, per inciso, non sono incluse le opere d'arte), ma all'effetto che il discorso provocava sul pubblico. Caratteristica fondamentale del discorso ecfrastico era, in effetti, l'enargeia, la vividezza, la chiarezza della descrizione o, per meglio dire, la forza di rappresentazione visiva di un testo, la sua capacità di appellarsi all'“occhio mentale” dell'ascoltatore.

than through logical argument alone” (p. 409).

29R.NADEAU, “The Progymnasmata of Aphtonius in Translation”, in Speech Monographs, Vol.19, No. 4, 1952, p. 279.

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A.S. Becker, in un saggio intitolato Reading Poetry Through a Distant Lens30,

parla di due differenti scopi dell'ekphrasis nei testi degli antichi retori. Il primo scopo dell'ekphrasis sarebbe quello di trasformare il linguaggio in una sorta di finestra attraverso la quale il lettore visualizza il fenomeno rappresentato. A questo proposito Teone definisce l'ekphrasis come linguaggio descrittivo che porta l’oggetto della rappresentazione vividamente davanti agli occhi del lettore (o dell’ascoltatore nel caso dell’orazione). Chiarezza e vividezza, le due caratteristiche dell'ekphrasis indicate dai manuali, soddisferebbero anch'esse l'obiettivo di un accesso non mediato a un fenomeno visibile. Lo scrittore raggiunge questi effetti utilizzando uno stile che non distragga il pubblico, che non richiami l'attenzione su di sé e che non ricordi allo spettatore che sono proprio le parole a creare ciò che lui ha di fronte. Aftonio esprime proprio questa aspirazione quando prescrive che il linguaggio della descrizione “imiti completamente la cosa descritta”31. Analogamente, Nicolao afferma che è

necessario “adattare alla materia proposta la forma della narrazione”32. Malgrado infatti tutta la retorica greca sia basata sul precetto che lo stile deve adattarsi al contenuto, in questo particolare contesto, tale norma rinforza ancora di più l'idea che il linguaggio della descrizione debba passare inosservato, agendo come una vera e propria finestra sul fenomeno che “illusoriamente” esso permette di visualizzare. Il retore incoraggia quindi il pubblico ad accettare l'illusione ottenendo così lo scopo di deviare l’attenzione del lettore-ascoltatore rispetto al

medium e alla sua esperienza. Affinché un'ekphrasis sia efficace, tuttavia, è

necessario anche che il retore renda manifesta al lettore la sua reazione di fronte alla cosa vista, o la sua interpretazione del fenomeno rappresentato. A questo proposito, A.S. Becker scrive:

The interpreter's expressions of emotion contribute to clarity and vividness. The illusion is not fully broken, but rather colored by explicitly including a human experience of the observed phenomena in the description. Reactions of the describer serve to guide our own, and can enhance (imagined) image33.

30 A.S.BECKER, “Reading Poetry through a Distant Lens: Ekphrasis, Ancient Greek Rhetorician, and the Pseudo-Hesiodic Shield of Herakles”, in The American Journal of Philology, Vol.113, No.1, 1992, pp. 5-24.

31 L.SPENGEL, Rhetores Graeci, Frankfurt/Main, Minerva, 1966, vol. II, p. 47. 32 L.SPENGEL, op.cit, vol. III, p. 493.

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Una descrizione che si richiama alle esperienze percettive vissute dal retore e le rende esplicite fa sì che il lettore-ascoltatore porti l'immagine nel proprio contesto di interpretazione, attribuendole senso e quindi visualizzandola meglio.

Il concetto di enargeia si ritrova anche nel trattato Sul sublime dello Pseudo-Longino (I secolo d.C.). L 'anonimo autore parla di phantasia per definire quel tipo di discorso che, scaturendo dalla passione, pone sotto gli occhi dell'ascoltatore le immagini che danno forma alle parole dell'oratore. A questo proposito, egli afferma:

Comunemente, vien dato il nome di “immagine” [phantasia] a ogni pensiero che in un modo qualunque sia in grado di dar luogo a un’espressione, ma ora è in questa accezione che il termine ha prevalso: quando cioè, sotto l’effetto dell’entusiasmo e della passione, quanto dici ti par di vederlo, e lo poni sotto gli occhi degli ascoltatori34.

Anche in questo caso, l'enargeia o evidentia, ossia la capacità di rendere il lettore uno spettatore, è una caratteristica essenziale della phantasia. Rispetto ai retori appena menzionati, l’autore del trattato distingue tra “evidenza” e “precisione descrittiva”. L'evidenza, in quanto parte della phantasia, non può ridurre il suo obiettivo alla semplice ricerca della verosimiglianza e della mimesi, ma deve, al contrario, puntare alla realizzazione della grandezza. Ciò accade perché la phantasia è una delle fonti naturali del sublime, e non è quindi un'arte, un'abilità che può essere acquisita. Se l'arte ha come fine quello di riprodurre, la

phantasia, essendo parte della natura, ha il compito di concorrere a realizzare la

grandezza che le è propria35.

Anche nel mondo latino non mancano rimandi a questa particolare caratteristica del discorso ecfrastico. Nell’Institutio oratoria, Quintiliano spiega che l'enargeia si produce quando l'oratore utilizza la propria immaginazione per evocare nella sua mente una scena al fine di suscitare un'impressione visiva nella mente dell'ascoltatore. Tuttavia, affinché il discorso ecfrastico sia dotato di

enargeia, l'immagine mentale prodotta dall'oratore dovrà fare riferimento a una

34PSEUDO LONGINO, Del Sublime, a cura di F. Donadi, Milano, BUR, 1996, p. 213.

35P.TOGNI, “Enargeia e Phantasia nel capitolo 15 del trattato Sul Sublime. Le fonti dello Psudo- Longino”, in Incontri di filologia classica, No. 13, 2013-14, pp. 217-238.

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materia che si conformi alle aspettative del pubblico e alla sua conoscenza pregressa. L'ekphrasis è comunque parte di un testo più ampio, un'intensificazione della narrazione, che contribuisce all'effetto persuasivo complessivo coinvolgendo emozionalmente il pubblico.

La nascita dell'ekphrasis in senso moderno, intesa cioè come un testo indipendente facente riferimento ad opere di arte visiva, fu probabilmente favorita dalla pratica scolastica di comporre ekphrasis come esercizi isolati. Secondo Mazzara, nelle Eikones di Luciano di Samosata per la prima volta si giunge ad un'inconsapevole e vasta esemplificazione di pratiche ecfrastiche in senso moderno in un'opera interamente dedicata alla descrizione di opere d'arte. Come notato da Maffei36, infatti, Luciano spiega la bellezza delle opere d'arte attraverso un linguaggio nitido e preciso. Per mezzo del ricorso a una cultura visuale condivisa con i suoi ascoltatori e appellandosi al loro repertorio di esperienze personali, Luciano invita il suo pubblico ad attivare un processo immaginativo che, anche in questo caso, permetta di visualizzare gli oggetti evocati dalle parole. In questo contesto, l'ekphrasis è rivestita di una sua particolare funzione, quella, cioè, di prolungare il piacere derivato dal senso della vista:

Un uomo colto che osservi qualcosa di bello, secondo me, non potrà accontentarsi di cogliere quel piacere soltanto con gli occhi, non potrà tollerare di essere un muto spettatore e cercherà invece di prolungare quel piacere il più a lungo possibile e di rispondere a ciò che vede con le parole37.

E inoltre:

Infatti penso che sarà un piacere per voi ascoltare ciò che già ammirate con gli occhi. E forse proprio per questo mi loderete [...], pensando che le ho descritte a parole e ho raddoppiato il vostro piacere38.

Altro esempio di questa tipologia di testo si ritrova nelle Eikones di Filostrato il Vecchio che, secondo Ruth Webb, può essere considerato “an example of an ancient ekphrasis that has works of art as its subject and which therefore stands at

36S.MAFFEI, “Introduzione”, in LUCIANO DI SAMOSATA, Descrizioni di opere d'arte, a cura di S. Maffei, Torino, Einaudi, 1994, p. XXI.

37LUCIANO DI SAMOSATA, op. cit., p. 59. 38 Ivi, p. 75.

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the intersection of the ancient and modern definitions of the term”39. Presentando

come materia principale la descrizione di opere d'arte presumibilmente contenute in una galleria di Napoli, anche le Eikones di Filostrato possono essere considerate un esempio di ekphrasis in senso moderno. Allo stesso tempo, però, alcune caratteristiche del testo rimandano alle prescrizioni contenute nei

Progymnasmata, in cui a definire la natura dell'ekphrasis non era tanto la materia

del testo, bensì la sua capacità di evocare nel fruitore immagini mentali vivide perché facenti parte del suo bagaglio culturale. Molte delle descrizioni di Filostrato, infatti, non fanno appello a scene statiche e isolate, facilmente rappresentabili in un dipinto, bensì a storie già narrate dai poeti, talvolta messe in scena nei teatri, e quindi a “immagini mentali” già immagazzinate nella memoria degli ascoltatori. Ciò che Filostrato, con la sua galleria di immagini, intendeva evocare nella mente dell'ascoltatore, non era dunque tanto il quadro in sé, ma piuttosto la storia ed i temi a cui la rappresentazione, reale o fittizia che fosse, faceva riferimento.

Callistrato, altro retore vissuto presumibilmente tra il III e il IV secolo d.C., è autore di un libretto, le Ekphràseis, in cui descrive quattordici opere scultoree. Pur includendo numerosi dettagli descrittivi, anche in questo caso, come ha osservato J.A.W. Heffernan40, difficilmente possiamo identificare l'ekphrasis con la pura

descrizione. L'operetta va semmai ricondotta nell’alveo della tradizione encomiastica, giacché il suo scopo non è tanto descrivere, quanto piuttosto lodare o biasimare l'artista o l'opera d'arte.

Nella classicità, esempi di descrizioni di opere d’arte si ritrovano nella poesia narrativa, nella lirica e negli epigrammi. Oltre alla già citata descrizione dello scudo di Achille nell’ottavo libro dell’Iliade, può essere ricordato, per la letteratura latina, il carme 64 di Catullo. In esso, si narra delle nozze di Peleo e Teti e, attraverso il procedimento del racconto a incastro, si introduce la storia di Arianna e Teseo, così come essa è raffigurata nella coperta nunziale dei due sposi. Direttamente ispirata e anzi parallela alla descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade, è l’ekphrasis dello scudo di Enea nell’VIII libro dell’Eneide di Virgilio. In questo caso, il poeta sfrutta il procedimento ecfrastico per aprire,

39R.WEBB, op. cit., p. 15.

40 J.A.W. HEFFERNAN, Museum of Words: The Poetics of Ekphrasis from Homer to Ashbery, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1993, p.5.

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all’interno della narrazione mitica, un grandioso scenario sul futuro imperiale che attende i discendenti dell’eroe troiano. Insieme alla profezia di Giove nel I libro e a quella di Anchise nel VI, la descrizione dello scudo costituisce dunque una prolessi sul destino glorioso di Roma, funzionale alla celebrazione di Augusto, che, sconfitti Antonio e Cleopatra ad Azio (31 a.C.), si propone, come il degno discendente di Enea.

Il genere ecfrastico, per come noi oggi lo conosciamo, non fu dunque mai promosso dagli antichi, ma fu piuttosto il risultato di una sistematizzazione successiva che riunì vari esempi di ekphrasis presenti in diverse opere d'arte, mettendo assieme le Eikones di Filostrato, le descrizioni di statue di Callistrato e le Eikones di Luciano, e rifacendosi come modelli illustri a Omero, Catullo e Virgilio41.

Nel Medioevo, la questione del rapporto tra parola e immagine diviene centrale. In termini generali, a favore dell'immagine, si registra una svolta decisiva chiaramente influenzata dal crollo dell'alfabetizzazione. Ciò fa sì che la figurazione assuma una funzione indispensabile all'interno di un fenomeno spesso “osmotico tra figura e scrittura”42. Con l’estendersi del potere temporale e del

magistero spirituale della chiesa, le immagini divengono uno strumento centrale per l’ammaestramento dei fedeli, specie degli incolti, che, grazie a dipinti, affreschi e portali istoriati, venivano a conoscenza degli episodi fondamentali della Scrittura, consultando quella che, con felice espressione, è stata definita

Biblia pauperum. Il millennio medievale non rimane dunque estraneo al problema

41 Una prima sistematizzazione in questo senso fu portata avanti da Friedrich Matz che in De Philostratorum in describendis imaginibus fide (1867), discusse vari esempi di descrizione di opere d'arte nella Seconda Sofistica, pose Filostrato accanto a Luciano e Apuleio e attribuì questo interesse per il visivo allo spirito di un'epoca in cui l'arte fiorì fianco a fianco con la retorica. Questo processo di ridefinizione del termine ekphrasis continuò con il lavoro di due studiosi francesi, Bertrand e Bougot. In Un Critique d'art dans l'antiquitè: Philostrate et son école (1881), Bertrand raggruppò Filostrato non solo con altri scrittori della Seconda Sofistica, ma anche con Catullo e Virgilio e classificò alcune delle loro opere come membri “di un genere alla moda il cui nome era ekphrasis”. Bougot, in Philostrate l'Ancien: une galérie antique (1881) incluse nel raggio del termine ekphrasis anche passi appartenenti alla tragedia greca. Cfr. R.WEBB, op. cit., pp. 15-16.

42D.LENZO, Il rapporto testo immagine nel Medioevo, con un inedito esercizio di analisi sulle Tragedie di Seneca nel manoscritto angioino C.F. 2.5 della Biblioteca dei Gerolamini di Napoli, 2012, Tesi di dottorato, Università degli studi di Catania.

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della descrizione ecfrastica e, oltre a riprendere variamente gli esempi classici (soprattutto latini, dato che in Occidente la cultura greca scompare fino alle soglie dell’Umanesimo), si interessa anche a nuove problematiche rappresentative. Come ha suggerito Douglas J. Maclachlan43, in epoca medievale ha luogo un importante cambiamento nella concezione della natura che rivoluziona la funzione delle arti figurative e, di conseguenza, la loro rappresentazione in letteratura. La natura non è più semplicemente il mondo fisico e oggettivo, ma una grande manifestazione simbolica che va al di là della comprensione fenomenica garantita dal senso della vista. Di conseguenza, compito delle arti visive non è più solo rappresentare il visibile, ma anche, e soprattutto, dare forma concreta (pittorica o scultorea) a una realtà sovrasensibile. Qual è allora il ruolo dell'ekphrasis? Certamente non più quello di perseguire l'enargeia, ma quello di rivelare l'esistenza di una realtà altra, e di ispirare, in questo modo, un senso di riverenza, di soggezione e meraviglia di fronte al mistero divino. A questo proposito, scrive Jean H. Hagstrum:

Here the wonder is not the one Homer celebrated – the shaping of intractable stone and metal into the likeness of reality – but the introduction of the unseen, the supernatural, into the material. (…) Such a conception tends to reduce the distance between object and beholder. (...) The desire, fostered by Christian art, (is) to speak to the object, to implore him and to induce it to respond44.

Esempi di questo tipo di poesia in cui, a detta di Hagstrum, la statua e il dipinto divengono i mediatori principali nel rapporto tra divino ed umano, si ritrovano soprattutto in Oriente e, in particolare, nell’opera di Manuele File, poeta vissuto a Costantinopoli tra il 1275 e il 1345 circa. In Occidente, persiste ancora la tendenza ad imitare l’ekphrasis antica, fatta eccezione per Dante che, nei canti X-XII del Purgatorio fonde, in una sintesi del tutto originale, caratteristiche della poesia iconica classica e di quella cristiana.

Il trittico composto dai canti X-XII, tutti ambientati nella prima cornice del

Purgatorio dove si sconta il peccato di superbia, può essere definito un vero e

proprio tour de force retorico, nel quale il poeta dà fondo a tutte le sue risorse

43D.J.MACLACHLAN, Pictorialism in English Poetry and Landscape in the Eighteenth Century, Vancouver, The University of British Columbia, 1972, pp. 17-20.

44J.H.HAGSTRUM, The Sister Arts: The Tradition of Literary Pictorialism and English Poetry from Dryden to Gray, Chicago, The University of Chicago Press, 1965, p. 49.

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espressive, compresa la tecnica dell’evidentia con tanto di incremento della vividezza, per dipingere davanti agli occhi del lettore quello che egli stesso definisce, con callida iunctura, un “visibile parlare”. Sul modello delle Eikones di Filostrato, citate in proposito dai commentatori del testo dantesco, la galleria dei superbi si configura come una galleria d’arte. All’ingresso e all’uscita di essa, Dante e Virgilio hanno modo, infatti, di ammirare bassorilievi raffiguranti esempi di umiltà premiata e superbia punita. I soggetti rappresentati hanno tutta la forza di figure vive e sono scolpiti con tale maestria che nessun artista umano sarebbe in grado di eguagliare. Il loro artefice del resto non è umano; si tratta infatti di Dio stesso, che, con la sua arte suprema, infintitamente superiore a quella umana, ha dato forma a queste figurazioni, che Dante autore si sforza di restituire in forma di parola45.

In Chaucer, l’autore più significativo del Medioevo inglese, Hagstrum registra la tendenza classicista a descrivere pitture murali o ad esprimere allegorie attraverso la descrizione di templi o palazzi: “Chaucer’s House of Fame and his several temples, in The Knight’s Tale and elsewhere, of Venus, Mars and Diana – all these allegorical and romantic structures derive from the palaces of Virgil, Ovid, Statius, Apuleius and Claudian”46. Tara Fairclough evidenzia come tutti i

passaggi ecfrastici in “The Knight’s Tale” (Canterbury Tales, 1387-88) siano importanti ai fini della trama: molto spesso essi prefigurano, in forma allegorica, le sorti dei personaggi o sono utili ai fini di un commento sulla natura della società medievale. Ad esempio, i quadri del tempio di Diana, prefigurano le sorti di Emilia, la fanciulla contesa tra Palemone e Arcite. Due dei tre quadri descritti raffigurano infatti Callisto e Dafne, personaggi mitologici che hanno in comune con Emilia la devozione alla verginità e la finale frustrazione dei propri desideri. I passaggi descrittivi sul teatro costruito da Teseo per ospitare il duello tra Arcite e Palemone costituiscono invece un commento sulla figura del mecenate e in generale sulla natura del potere nel Medioevo. L’edificio, con i suoi templi, sembra conferire più gloria al committente che alle divinità per le quali quelle strutture sono state erette. Nei templi, ad attirare l’attenzione del narratore, sono infatti solo immagini negative delle divinità:

45 Per un’indagine sistematica di questi aspetti e una lettura dettagliata dei canti X-XII del Purgatorio dantesco cfr. M.CICCUTO, “Saxa loquuntur. Aspetti dell'evidentia nella retorica visiva di Dante”, in Dante e la retorica, a cura di L. Marcozzi, Ravenna, Longo, 2017, pp. 151-166. 46 J.H.HAGSTRUM, op. cit., p. 42.

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Thus may ye seen that wysdom ne richesse

Beautee ne sleighte, strengthe ne hardynesse, cunning; boldness Ne may with Venus holde champartie,

for as hir list the world than may she gye.

Lo, alle thise folk so caught were in hir las, snare Til they for wo ful ofte seyde “Allas”47!

Nel tempio di Venere le immagini si concentrano non sul piacere, ma sulle sofferenze causate dall’amore e rappresentano, dunque, un monito a rifuggire dagli eccessi della passione amorosa. Lo stesso si verifica per quanto riguarda il tempio di Marte, in cui immagini di morte, crudeltà e dolore prevalgono su immagini di gloria e trionfo. Infine, nel tempio di Diana, la dea non sembra essere ritratta come protettrice della castità, bensì come severa castigatrice di tutto ciò che si discosta dal modello da lei incarnato.

Se, come afferma Fairclough, le opere d’arte commissionate da potenti e signori nel Medioevo erano intese a rappresentare in qualche modo il loro modo di governare o il loro modo di essere, oltre che a dare un’impressione concreta del loro potere e del loro prestigio sociale, ne consegue che Teseo, con le divinità ritratte nei templi, volesse ispirare sentimenti di terrore e sottomissione nei suoi sudditi. Teseo, come gli dei pagani effigiati sulle pareti dei suoi templi, non è affatto interessato ad aiutare Arcite, Palemone ed Emilia, ma si comporta, al contrario, come un semplice “dictator of fate”48. Inoltre, egli trae vantaggio dal duello, accrescendo il proprio

prestigio attraverso la costruzione del teatro e l’organizzazione del duello che si combatterà al suo interno.

Nel Rinascimento, complici il rinnovato interesse per i classici e i nuovi effetti illusionistici che l’invenzione della prospettiva regala alla pittura, lo scopo

47 G. CHAUCER, “The Knight’s Tale” in Canterbury Tales, ed. A.C. Cawley, London and Melbourne, Everyman’s Library, 1986, p. 53, vv. 1947-1951. “Essi [i quadri] stavano a rappresentare che non c’è sapienza, né bellezza, né astuzia, né forza, né coraggio, che possa in qualche modo competere con Venere, la quale da sola governa il mondo come vuole: tutta questa gente infatti era presa nei suoi lacci e non faceva che lamentarsi per il dolore” in G.CHAUCER, I racconti di Canterbury, a cura di E. Barisone, Milano, Oscar Mondadori, 2015, p. 34.

48 T.FAIRCLOUGH, Chaucerian Ekphrasis: Power, Place and Image in the Knight’s Tale, 2007, Senior Honors Theses, Eastern Michigan University. (http://commons.emich.edu/honors/143)

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dell’ekphrasis torna ad essere l’evocazione verbale del visibile. Poesia e pittura, scrive Ben Jonson, “are arts of a like nature, and both are busy about imitation. It was excellently said of Plutarch, poetry was a speaking picture, and picture a mute poesy. For they both invent, feign, and devise many things, and accommodate all they invent to the use and service of nature”49.

In An Apology for Poetry (1595), anche Philip Sidney parla di poesia come “an art of imitation, for so Aristotle termeth it in his word mimesis, that is to say, a representing, counterfeiting, or figuring forth- to speak metaphorically, a speaking picture”50.

Dalle parole dei due autori emerge, oltre al rinnovato interesse per l’equivalenza tra poesia e pittura, che si fa, come suggerito da Hagstrum sempre più intenso nel Rinascimento, anche una sorta di timore che l’arte, adesso più naturalistica, possa essere, in qualche modo, un pericoloso inganno, una subdola contraffazione della natura.

Questa tendenza si nota ad esempio nella elaborata descrizione del verziere di delizie in The Faerie Queene (1590), dove il giardino, artatamente “mimetico”, è presentato come un luogo pericoloso e malefico. Esso è descritto in questo modo non tanto perché l’arte illusionistica sia, nella visione di Spenser, pericolosa di per sé, quanto perché all’artificio viene concessa una sorta di supremazia sul naturale, la capacità di rappresentarlo e, anzi, di sostituirsi ad esso.

A differenza di quanto possa sembrare, il giardino è un’opera d’arte, una semplice imitazione della natura. E poiché il verziere è un’opera d’arte, Spenser sceglie di utilizzare le convenzioni della poesia ecfrastica per descriverlo. Sui cancelli del verziere, sono rappresentate le storie di Giasone, Medea e del vello d’oro: esse si conformano perfettamente alla tradizione che produsse lo scudo di Achille. Come i suoi predecessori, Spenser commenta le meraviglie di questa impresa artistica e loda l’abilità di raggiungere effetti realistici attraverso un

medium poco adatto:

ye might haue seen the frothy billowes fry vnder the ship, as thorough them she went, that seemd the waues were into yuory

49 B.JONSON, “Poesis, et Pictura” in “Timber: Or Discoveries made upon Men and Matter”, in Ben Jonson, a cura di I. Donaldson, Oxford & New York, Oxford University Press, 1985, p. 561. 50 P.SIDNEY, An Apology for Poetry, Manchester, Manchester University Press, 1973, p. 101.

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or yuory into the waues were sent51.

Questo passaggio esemplifica bene una caratteristica fondamentale dell’ekphrasis, quella che James A.W. Heffernan chiama “frizione rappresentativa”. L’avorio sembra schiuma e viceversa: soggetto e medium della rappresentazione sono virtualmente interscambiabili. Esemplificando il trionfo dell’artificialità, afferma Heffernan, il cancello ci introduce opportunamente nel regno di Acrasia, il cui potere di sedurre i giovani uomini è legato all’astuta maestria esemplificata dal suo “vele of silke and siluer thin/ that hid no whit her alabaster skin,/ but rather shewd more white, if more might bee” (II.12.77.vv. 4-6)52. In questo caso, la frizione rappresentativa diviene “indeterminatezza rappresentativa”, un sensuale confondersi di arte e natura, medium e referente53.

In The Rape of Lucrece (1594) di Shakespeare si ritrova un passaggio di poesia ecfrastica in cui il poeta descrive un grande arazzo che rappresenta la caduta di Troia. Lo scopo di Shakespeare, tuttavia, non è tanto quello di descrivere (come succedeva in molta della poesia ecfrastica antica) o di trarre una morale (come in molta della poesia iconica medievale), ma quello di mettereil dipinto in relazione con il personaggio che lo osserva. Lucrezia, dopo la partenza del suo stupratore Tarquinio, si rivolge al dipinto in cerca di sollievo dal suo grande dolore. Freneticamente, ispeziona la tela per trovare immagini che rappresentino la propria condizione. Nei “thousand of lamentable objects there”54, a cui “in scorn

of Nature Art gave lifeless life” (II. 1374), Lucrezia ritrova un soggetto che mostra un dolore e una disperazione sufficienti da assomigliare ai suoi. È il personaggio della “despairing Hecuba” in cui il pittore ha espresso “time’s ruin, beauty’s wreck, and grim care’s reign” (II. 1451). Lucrezia trova la figura molto ben rappresentata se non fosse per la sua mancanza di parola:

The painter was no God, to lend her those; and therefore Lucrece swears he did wrong, to give her so much grief and not a tongue. “Poor instrument”, quoth she, “without a sound,

51 E.SPENSER, The Faerie Queene, London and New York, Longman, 1977, p. 289 (Libro II, Canto XII, Stanza 45, vv. 1-4).

52 Ivi, p.296.

53 Cfr. J.A.W.HEFFERNAN, op.cit., 1993, pp. 71-72.

54 W.SHAKESPEARE, “The Rape of Lucrece”, in Venus and Adonis, The Rape of Lucrece, The Phoenix and the Turtle, London, J.M. Dent & Sons LTD, 1960, p.138 (Atto II, v. 1373).

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I’ll tune thy woes with my lamenting tongue”. (II. 1461-1465)

Proprio per questo estremo naturalismo dell’arte, Lucrezia è in grado di confrontarsi drammaticamente con l’opera, “prestando” ad essa le parole e “prendendone in prestito” la triste apparenza:

Sad tales doth tell

To pencill’d pensiveness and colour’d sorrow;

She lends them words, and she their looks doth borrow. (II. 1496-1498)

Nel Seicento, si accresce esponenzialmente il seguito di un genere emerso già nel secolo precedente come risultato della contaminazione tra medium visivo e verbale: l'emblematica. Giustapponendo poesia e immagine, l'emblema mantiene intatta la funzione e il valore semantico delle due espressioni artistiche, caricando l'immagine di un valore allegorico esplicato dai versi. Questa moda, secondo Austin Warren, rafforza la predisposizione della poesia ad associare il sensibile – quindi anche il visivo – alla sfera più astrattamente intellettuale, un principio sul quale si baserà poi molta della produzione poetica del secolo:

The influence (of the emblem) on poetry was not only to encourage the metaphorical habit but to impart to the metaphors an hardness, a palpability which, merely conceived, they were unlikely to possess. And yet the metaphors ordinarily analogized impalpabilities – states of the soul, concepts, abstractions. The effect was a strange tension between materiality and spirituality which almost defines the spirit of the Counter-Reformation55.

A differenza di ciò che accadeva nell'età antica e nel Rinascimento, quando le arti sorelle erano associate a causa della loro comune fedeltà alla natura, nel Seicento, così come nel Medioevo, l'unione delle due espressioni artistiche ha un fine squisitamente didattico (pensiamo, per l'appunto, al caso dell'emblema) o almeno di coinvolgimento emotivo del fruitore, invitato a fare esperienza dell'impalpabile attraverso un attento utilizzo di elementi appartenenti alla sfera del sensibile.

55A.WARREN, “Baroque Art and the Emblem” in Seventeenth Century Prose and Poetry, a cura di A.M. Witherspoon e F.J. Warnke, New York: Harcourt, Brave & World, 1963, p.1081.

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In questo senso, le poesie di George Herbert, ad esempio, possono essere considerate ecfrastiche e antiecfrastiche allo stesso tempo. Come suggerito da Richard Strier, in un esaustivo saggio sull'uso antifrastico dell'ekphrasis in The

Temple (1633)56, sebbene i componimenti del poeta evochino più o meno direttamente opere d'arte visiva57, esse non sono altro che metafore per evocare tratti di Dio o dell'uomo che a Lui si rivolge. La qualità visiva del componimento, la sua enargeia, così come l'impulso a visualizzare indotto nel lettore, sono dunque asseriti e, contemporaneamente, smentiti da una lettura attenta.

Herbert non contempla né descrive l’oggetto, ma allude ad esso e a partire da esso costruisce un’analogia. L’oggetto stesso non è importante in sé quanto lo sono le relazioni che esso instaura con l’uomo o con Dio, i suoi significati simbolici, la sua capacità di rivelare argute corrispondenze. Uno degli esempi più significativi in questo senso è costituito da “The Windows”:

Lord, how can man preach thy eternal word? He is a brittle crazy glass;

Yet in thy temple thou dost him afford This glorious and transcendent place, To be a window, through thy grace.

But when thou dost anneal in glass thy story, Making thy life to shine within

The holy preachers, then the light and glory More reverend grows, and more doth win; Which else shows waterish, bleak, and thin.

Doctrine and life, colors and light, in one When they combine and mingle, bring A strong regard and awe; but speech alone Doth vanish like a flaring thing,

And in the ear, not conscience, ring58.

Come ogni poesia iconica, “The Windows” contempla il materiale, ma non per sottolineare con quale abilità sia stato usato o per evidenziare la sua miracolosa capacità di rappresentare il reale. Ciò che importa è che il vetro, anche se fragile, è

56R.STRIER, “George Herbert and Ironic Ekphrasis”, in Classical Philology, Vol. 102, No.1, 2007, Chicago, The University of Chicago Press, pp. 96-109.

57 Si pensi alle pietre del pavimento di “The Church Floore”, alle vetrate istoriate di “The Windows” o, ancor di più, all'altare cui danno concretamente forma le parole di “The Altar”. 58 G.HERBERT, “The Windows”, in The Poems of George Herbert, ed. A. Waugh, Eugene, OR, Wipf and Stock, 2017, p.67.

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ammesso nel tempio di Dio. Su di lui sono dipinte le storie di Cristo e, attraverso di lui, risplende la luce divina. Queste caratteristiche fanno sì che il materiale divenga un perfetto simbolo visivo delle qualità dell’uomo di chiesa che, per quanto fragile e imperfetto, è imitatore della vita di Cristo e veicolo attraverso il quale filtra la Sua luce.

Sebbene, come nel caso di Herbert, il poeta metafisico preferisca essere “witty” piuttosto che “iconico” o “visivo”, esistono, nel panorama seicentesco, anche esempi di poesia esplicitamente iconica. “The Gallery” (1681) di Marvell è debitrice, almeno dal punto di vista del titolo e della struttura, di una delle più note espressioni di poesia iconica del secolo: La Galeria del Cavalier Marino (1620). Anche in questo caso, però, Marvell è capace, da vero metafisico, di fondere all’elemento descrittivo e suggestivo di questo tipo di poesia, la spiccata componente psicologica tipica della sensibilità poetica del suo tempo.

La Galeria di Marino diviene in Marvell una rappresentazione “chiaro-scurale”

dell’anima del poeta:

Clora, come view my soul, and tell Whether I have contrived it well. Now all its several lodgings lie Composed into one gallery;

And the great arras-hangings, made Of various faces, by are laid; That, for all furniture, you’ll find Only your picture in my mind.

Here thou are painted in the dress Of an inhuman murderess; Examining upon our hearts Thy fertile shop of cruel arts: Engines more keen than ever yet Adorned a tyrant’s cabinet; Of which the most tormenting are Black eyes, red lips, and curlèd hair.

But, on the other side, th’art drawn Like to Aurora in the dawn;

When in the East she slumbering lies, And stretches out her milky thighs; While all the morning choir does sing, And manna falls, and roses spring; And, at thy feet, the wooing doves

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Sit pérfecting their harmless loves.

Like an enchantress here thou show’st, Vexing thy restless lover’s ghost; And, by a light obscure, dost rave Over his entrails, in the cave; Divining thence, with horrid care, How long thou shalt continue fair;

And (when informed) them throw’st away, To be the greedy vulture’s prey.

But, against that, thou sit’st afloat Like Venus in her pearly boat.

The halcyons, calming all that’s nigh, Betwixt the air and water fly;

Or, if some rolling wave appears, A mass of ambergris it bears.

Nor blows more wind than what may well Convoy the perfume to the smell.

These pictures and a thousand more Of thee my gallery do store

In all the forms thou canst invent Either to please me, or torment: For thou alone to people me, Art grown a numerous colony; And a collection choicer far

Than or Whitehall’s or Mantua’s were. But, of these pictures and the rest, That at the entrance likes me best: Where the same posture, and the look Remains, with which I first was took: A tender shepherdess, whose hair Hangs loosely playing in the air,

Transplanting flowers from the green hill, To crown her head, and bosom fill59.

Già a partire dalla prima strofa, si fa manifesta al lettore la metafora unificante dell’intera poesia: Clora viene invitata dal poeta a visitare la sua anima, che, a causa della sua ossessione per la donna, è stata simbolicamente trasformata in una galleria in cui sono contenute immagini dell’amata. Nelle strofe successive, quelle dal contenuto più espressamente iconico, l’io poetico presenta diversi aspetti della

59 A. MARVELL, “The Gallery”, in The Poems of Andrew Marvell, ed. N. Smith, Edimburgh, Pearson Longman, 2003, pp. 93-95.

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