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L'arringa dell' "avvocato del diavolo"

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Diritti regionali - Rivista di diritto delle autonomie territoriali (ISSN: 2465-2709) - 2016/3 L’arringa dell’“avvocato del diavolo”

di Giusi Sorrenti*

SOMMARIO: 1. Le premesse dell’arringa. – 2. Forma di governo, sistema delle fonti e recupero della centralità del Parlamento nella funzione legislativa. – 3. Il modello di regionalismo cooperativo ed il ruolo del giurista.

1. Le premesse dell’arringa

Alcune premesse sono d’obbligo. Nel porle, però, darò per scontate, per non ripetere notazioni ampiamente presenti nell’odierno dibattito, alcune osservazioni di carattere generale, innanzitutto quella per cui la scelta cui chiama il referendum costituzionale sul disegno Renzi-Boschi si presenta particolarmente accidentata e complessa, per più di un motivo, non ultimo il fatto che, incidendo su una quarantina di articoli della Costituzione, non sempre e non tutti legati da omogeneità tematica, costringe a fare una valutazione per praevalentiam nel quadro ampio ed eterogeneo delle modifiche – in ipotesi non tutte condivisibili – tra quelle che si preferirebbe respingere e quelle che viceversa si vorrebbe fossero introdotte. Così come anche l’osservazione – anche se questa è per la verità molto meno scontata della precedente – per cui, se è vero che lo stesso dato quantitativo dell’estensione della riforma, che tocca quasi un terzo della trama della Carta, sembra comportare il superamento dei limiti evocati dall’atto di “potatura” di espositiana memoria, è anche vero che la precarietà del tempo presente e la sua rapida evoluzione minacciano la stabilità della Costituzione e ne sollecitano il mutamento1.

*

Professore associato confermato di Diritto costituzionale, Università di Messina.

1

Le Costituzioni oggi «non possono più essere intese come garanzie di stabilità, in senso tradizionale, ma debbono diventare modello del mutamento, guida della transizione, nella consapevolezza del fatto che la transizione stessa, con paradosso solo apparente, da condizione provvisoria (quale forse non è mai stata) è diventata permanente»: F. RIMOLI, Certezza del diritto e moltiplicazione delle fonti: spunti per un’analisi, in AA.VV., Trasformazioni della funzione legislativa, II, Crisi della legge e sistema delle fonti, a cura di F. Modugno, Milano 2000, 111, in cui fa eco il pensiero di N. LUHMANN, La costituzione come acquisizione evolutiva, in AA.VV., Il futuro della costituzione, a cura di G. Zagrebelsky - P.P. Portinaro - J. Luther, Torino 1996, 83 ss.

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Tralasciando questi punti, attinenti alla vastità ed all’eterogeneità dei contenuti della revisione, c’è un altro profilo, riguardante stavolta l’eterogeneità dei tipi di valutazione cui può essere soggetta – e da cui può essere influenzata – la scelta di matrice popolare. Sul referendum oppositivo di ottobre gravano, infatti, molteplici considerazioni di cui dovrebbe tener conto simultaneamente il votante, in quanto il suffragio è destinato ad incidere contemporaneamente su più campi: non solo quello – com’è ovvio – specificamente giuridico-costituzionale, ma anche quello politico, relativo alla tenuta del governo italiano in carica e, infine, quello economico, connesso alla reazione dei mercati, ormai sempre più soggettivizzati come interlocutori ineliminabili e inesorabilmente in agguato, da temere ad ogni scelta nazionale degna di un qualche rilievo. Senza chiarire preliminarmente su quale piano s’intenda inquadrare le valutazioni che seguiranno, pertanto, queste ultime apparirebbero quasi indecifrabili nelle loro ragioni di fondo o, quantomeno, ambivalenti ed opache.

La prima premessa consiste nel dichiarare dunque la ferma scelta di astrarre, nella presente riflessione, la consultazione popolare dall’apprezzamento delle conseguenze contingenti cui il relativo esito potrebbe dare luogo, sia sul piano della politica nazionale interna sia su quello economico-finanziario globale; tale scelta non è dettata da un atteggiamento di sterile vetero-formalismo, ma dall’elementare ragione che il testo normativo sottoposto all’approvazione è, per la sua speciale natura, votato a durare nel tempo e, per ciò stesso, a oltrepassare il ravvicinato orizzonte temporale delle sorti di un certo governo e del nervosismo dei mercati (per quanto drammatici tali eventi possano essere percepiti in un determinato e delicato momento storico). Sembra, per converso, più confacente all’oggetto (la Costituzione, appunto) un approccio che si proponga di valutare, con uno sforzo corrispondente di analisi prospettica, gli effetti che, dal punto di vista prettamente giuridico, il testo costituzionale, nella versione riformata, una volta immesso nell’ordinamento italiano, appaia suscettibile di produrvi.

A questo proposito, non si può non notare incidentalmente come, invece, per le preannunciate dimissioni del Presidente del Consiglio in caso di mancata approvazione del referendum, si sia generato un clima in cui gli italiani sono chiamati a decidere della fisionomia della Costituzione – che rappresenta beninteso la loro “casa comune” – con lo spettro della caduta del governo (nel caso del loro mancato appoggio alla riforma) e come il dibattito pubblico su un

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tema così rilevante e proiettato in una dimensione di lunghissima durata sia stato inquinato dalla necessità di tener conto di tale evenienza, preoccupante ed infausta soprattutto nella fase di grave e perdurante crisi economica in cui versa il Paese. L’aver legato le sorti della (nuova) Costituzione a quelle del governo in carica è dunque – per le ragioni che si è cercato di spiegare, legate alla specificità dell’oggetto – una manovra giuridicamente censurabile … E però appunto dalle conseguenze politiche del referendum, unitamente alla scelta (politica anch’essa) di dichiarare di farle drammaticamente da esso discendere, si è deciso – come si diceva – di prescindere integralmente nell’arco di questa riflessione.

L’unico motivo per cui si sono richiamati tali effetti è per dire che, tenendo conto dell’ipoteca di carattere politico di cui è stato gravato il voto popolare sulla riforma, congiuntamente ad altri aspetti, più strettamente giuridici, attinenti ad una serie di insufficienze del testo, chi scrive era orientata sin dall’inizio a votare “no” al prossimo ottobre; sennonché in visione di questo Seminario interno è prevalsa la tentazione di rendere più stimolante il proprio impegno, provando a individuare quali potrebbero essere le ragioni a sostegno del “sì”. Ho deciso – vale a dire – di provare a fare l’“avvocato del diavolo” di me stessa, prendendo le distanze dalla reazione negativa che il modus operandi dei proponenti aveva suscitato: anche questo esperimento intellettuale ha delle motivazioni che richiedono di essere a loro volta chiarite preliminarmente.

Intanto, è da parecchio tempo che tra gli addetti ai lavori (e non solo dunque nelle varie agende politiche che di volta in volta si sono avvicendate) circola la sensazione di insufficienza e arretratezza di alcune disposizioni del testo originario della Carta del 1948, insieme al convincimento della necessità di un loro rinnovamento, talora radicale. Appare quindi come una saggia indicazione di metodo confrontarsi con la sostanza dell’innovazione ora proposta, al netto dell’iter procedurale intrapreso (e di tutte le azioni di contorno) e degli intenti perseguiti: quale che sia il modo in cui esso ha visto la luce, insomma, oggi si ha a disposizione un testo e conviene prenderlo sul serio e confrontarsi con il suo contenuto, dato che da più tempo si sente il bisogno di alcune riforme, per valutare se in qualche misura possa prestarsi a corrispondere alle (o anche solo ad alcune delle) esigenze via via maturate.

In secondo luogo, ai giuristi è familiare il fenomeno dell’Entfremdung – quel processo di distacco delle norme dal loro autore, il quale fa sì che queste, una volta prodotte, continuino a

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vivere di vita propria – che, per quanto in relazione al frutto dell’opera dei Costituenti vada mitigato, dovendosi in qualche misura tenere conto anche dell’original intent di questi ultimi, tuttavia non può non valere anche per le norme costituzionali, come dimostra il peculiare adattamento che precetti della Costituzione hanno subito e continuano a subire in relazione a fenomeni nuovi e talora persino inimmaginati ed inimmaginabili da parte degli Autori stessi (si pensi, solo per fare un vistoso esempio, all’art. 11 Cost. come disposizione su cui si fonda l’adattamento alle fonti dell’ordinamento dell’UE).

D’altro canto, correlativamente, senza qui voler indulgere alle tesi svalutative della portata normativa della Costituzione (che non si condividono)2, è anche noto che il testo non è mai “tutto” nel determinare la vita costituzionale di un ordinamento, in quanto non infrequentemente sottoposto a revisioni tacite3; il che dovrebbe rendere inclini ad una lettura di qualsiasi proposta di revisione che non veda in essa una rigida e soffocante “camicia di forza” che ingabbia qualsiasi sviluppo dell’ordinamento, posto che è un dato di fatto che gli sviluppi di una modifica testuale possono orientarsi in direzioni nuove ed evolvere proficuamente rispetto a quanto originariamente preventivato (si pensi, anche qui, esemplificativamente, al vincolo delle leggi statali al rispetto di tutti gli obblighi internazionali, di cui all’art. 117, co. 1, Cost., ed alla tanto attesa “copertura” della Cedu, che se ne è fatta discendere dal giudice delle leggi nel 2007, significativamente non estesa a patti internazionali di minore pregio assiologico).

Nell’orientare questa evoluzione – che si colloca entro la cornice teorica offerta dal fenomeno dell’Entfremdung e del carattere non esclusivo del testo nel determinare effetti giuridici

2

Per una riflessione sulle prospettive della Costituzione alla luce del mutamento delle premesse storico-sociali che ne avevano accompagnato l’origine, v. D. GRIMM, Il futuro della Costituzione, in AA.VV., Il futuro della costituzione, cit., 128 ss., spec. 139 ss.

Sull’autorità della Costituzione, più di recente, v. A. RUGGERI, La “forza” della Costituzione, in Forum di Quad. cost., 9 ottobre 2008, spec. 11 ss. (laddove l’A. parla di una tendenza alla “decostituzionalizzazione”) e O. CHESSA, I giudici del diritto. Problemi teorici della giustizia costituzionale, Milano 2014, 557 ss.

3

È noto che le revisioni tacite della Costituzione siano state innumerevoli: una per tutte, il superamento del numerus clausus delle fonti primarie in virtù del riconoscimento (giurisprudenziale) del primato delle fonti dell’UE sul diritto interno, ma non solo (v. G. FERRARA, Costituzione e revisione costituzionale nell’età della mondializzazione, in Scritti in onore di G. Guarino, II, Padova 1998, 211 ss.). Adde A. RUGGERI, Revisioni costituzionali e sviluppi della forma di governo, Relazione al Convegno su La revisione costituzionale e i suoi limiti fra teoria costituzionale diritto interno esperienze straniere, a cura di S. Gambino e G. D’Ignazio, Cosenza 22-23 maggio 2006, Milano 2007, 151 ss.

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positivi e che fa, in definitiva, della Costituzione non un “atto” ma un “processo”4 – un ruolo di prima grandezza lo ricoprono da sempre tanto il legislatore di attuazione, nel dare alla luce fonti sub-costituzionali che possono imprimere una certa lettura ad una disposizione sovraordinata polisenso, quanto la Corte costituzionale; ma, non ultima, può parimenti svolgerlo la dottrina, impegnandosi ad indirizzare istituti zoppi o dalla fisionomia incerta verso un più compiuto e soddisfacente funzionamento.

2. Forma di governo, sistema delle fonti e recupero della centralità del Parlamento nella funzione legislativa

L’immaginario “avvocato del diavolo”, ideato per questa riflessione, non si comporterà come l’“azzeccagarbugli” manzoniano, per cui, animato da uno spiccato afflato di onestà intellettuale, non si aggrapperà ad aspetti marginali della riforma (e anzi ignorerà del tutto una disposizione che ha ricevuto un plauso unanime, quale quella che provvede all’abolizione del CNEL), ma si misurerà con l’innovazione centrale della revisione, ovvero il mutamento della struttura e delle funzioni del Senato. Tale innovazione va riguardata sotto due profili: il primo, che definirei “minimale-negativo”, coincide evidentemente con l’eliminazione del bicameralismo paritario, il secondo, che chiamerei invece “massimale-positivo”, consiste nella annunciata trasformazione della seconda camera in una Camera delle Regioni, o meglio delle autonomie.

È appena il caso di esplicitare che, naturalmente, l’esame del primo aspetto comporta che ci si ponga, inizialmente, nella prospettiva della forma di governo italiana ed in particolare del sistema delle fonti ad essa correlato e non in quella di valutare il modello di regionalismo che sarebbe introdotto nel Paese se la riforma avesse il placet popolare (prospettiva che verrà in considerazione, invece, al momento di trattare il secondo aspetto, quello che si è definito positivo-massimale).

Non è un mistero che il bicameralismo paritario e perfetto non sia sfuggito a severe critiche, tanto sul piano teorico, quanto soprattutto su quello pratico, in quanto elemento che ha indotto una

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V. A. SPADARO, Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come “processo” (storico). Ovvero della continua evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in Quad. cost., 3/1998, 343 ss.

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certa lentezza e farraginosità del procedimento legislativo e perciò ritenuto responsabile – almeno pro quota – del triste fenomeno della “fuga dalla legge” che ha caratterizzato da decenni la dinamica del sistema italiano delle fonti5. È un dato questo che non può negarsi, per quanto sarebbe certo impietoso nei confronti dell’istituto vedervi l’unico responsabile del fenomeno, che è in parte addebitabile anche alla difficoltà dell’accordo politico e all’ancora più grave deficit di rappresentatività che ha contrassegnato le nostre (ma non solo) assemblee legislative.

Questo fattore ha concorso, unitamente agli altri, a creare le premesse per lo sviluppo di quella “fenomenologia fantastica” di fonti governative del tutto esulanti dal modello costituzionale: si pensi, per richiamare solo alcuni dei casi più eclatanti della tendenza massiccia, a tutti nota, di trasmigrazione di funzioni normative primarie dalla sede parlamentare verso quella governativa, al fenomeno dei regolamenti autorizzati o ancora a quello dei decreti legislativi integrativi e correttivi. Le storpiature del testo costituzionale che ne sono derivate, precisamente al principio del monopolio o quantomeno della centralità del Parlamento nella funzione legislativa, sono state ampie e gravi, non meno a mio avviso di quelle che oggi, per effetto della riforma, potrebbero subire i principi dell’autonomia e del decentramento sanciti all’art. 5 Cost., per quanto alle seconde reagiamo indignati, mentre alle prime ci siamo probabilmente assuefatti, in quanto tratti (alle condizioni attualmente date) ormai stabili della Costituzione vivente, che sono stati sviscerati, avversati e talora anche razionalizzati dalla dottrina e che doverosamente continuiamo a spiegare agli studenti nelle aule universitarie. Ad aggravare ancor di più la situazione, com’è noto, stanno anche le difficoltà che questi atti comportano dal punto di vista dell’assoggettamento ai controlli di legittimità costituzionale: i regolamenti autorizzati, ad es., per riprenderli nuovamente – una volta scartata la tesi mortatiana di far valere la loro natura sostanzialmente (anche se non formalmente) primaria ai fini del sindacato della Corte costituzionale6 – sfuggono alle verifiche circa il rispetto delle norme costituzionali. Scardinata la centralità parlamentare, salta infatti anche la tenuta

5

Che è una tendenza – definibile come la «detronizzazione del Parlamento quale luogo principe della decisione politica» – complementare alla “crisi della legge”: su quest’ultima v. F. MODUGNO, A mo’ di introduzione. Considerazioni sulla «crisi della legge», in AA.VV., Trasformazioni della funzione legislativa, cit., 1 ss. (le parole cit. si leggono nella Presentazione dello stesso A. al vol., p. XI).

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… in quanto quest’ultima ha preferito, come si sa, non allargando i confini dell’oggetto del suo sindacato, rifiutarsi, coerentemente con il suo ruolo, di avallare una tale stortura del sistema delle fonti.

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dell’edificio dei controlli, così come risultava eretto attraverso la sovrapposizione del vaglio di costituzionalità sui meccanismi di verifica della legalità ereditati dallo Stato liberale.

Si potrebbe obiettare che, per la significativa interazione tra la riforma e l’Italicum7

, la paternità sostanziale della legge, ovvero degli atti aventi la forza e la forma della legge, continuerebbe ad essere solidamente imputabile all’esecutivo, data la tendenziale coincidenza tra maggioranza legislativa e maggioranza di governo che l’ampio premio in termini di seggi garantito dalla legge elettorale n. 52/2015 consente. Tuttavia, da una parte, che davvero sia così non è ancora possibile affermarlo con certezza, in quanto occorrerebbe prima aspettare la definizione della fisionomia dello Statuto delle opposizioni introdotto dal nuovo co. 2 dell’art. 64 Cost., al fine di valutarne l’incisività e l’efficacia sul piano della garanzia dell’effettiva partecipazione delle minoranze parlamentari al procedimento legislativo; mentre, dall’altra, rimane il fatto, da non sottovalutare, che, nella peggiore delle ipotesi (quella cioè in cui l’obiezione sia vera e dunque la paternità politica sostanziale della legge post riforma rimanga invariata rispetto a quella delle fonti governative), si avrebbe comunque un guadagno sul piano dei controlli, in quanto, grazie al recupero quantomeno della forma della legge, l’atto sarebbe sottoponibile al vaglio di costituzionalità, con tutte le conseguenze in termini di garanzia del rispetto dei principi costituzionali che questo dato reca con sé.

Concludendo, se l’eliminazione del bicameralismo paritario e perfetto può contribuire a recuperare la centralità del Parlamento nella funzione legislativa, voluta dal Costituente del 1948 e confacente ad una forma di governo effettivamente parlamentare e, dunque, a raddrizzare un sistema delle fonti ormai vistosamente deformato, a tutto guadagno della democraticità parlamentare e della legalità costituzionale, c’è un motivo per guardare con interesse alla revisione.

Certo, non sarebbe lecito affermare che il recupero che si guadagnerebbe su questo versante, della forma di governo e del sistema delle fonti, abbia di per sé più valore delle perdite che si soffrirebbero sul piano del modello del regionalismo (su cui v. infra), ma nemmeno lo sarebbe a mio avviso sostenere l’opposto, ovvero che tale recupero valga per principio meno (se non per la falsata valutazione in cui il torpore indotto dall’assuefazione cui si accennava può far incorrere ciascuno di noi). Semmai, è ancora una volta da notare come sia un peccato che il giudizio positivo

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Al netto delle incertezze connesse alla questione di legittimità costituzionale pendenti sulla legge elettorale ed alle eventuali modifiche pur sempre apportabili in sede legislativa.

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sul profilo minimale della modifica del bicameralismo vigente si accompagni ad un giudizio negativo sul profilo massimale della stessa, che cioè l’avanzamento che si può attendere dalla riforma sul piano del ritorno alla legge possa essere conseguito solo a prezzo dell’arretramento sul piano della tutela dell’autonomia, costringendo a mettere sui due piatti della bilancia, da una parte, il rinsaldamento del primo valore e, dall’altra, l’indebolimento del secondo.

In ultimo e del tutto accidentalmente, aggiungo che non mi occupo qui invece, nell’ambito dei riflessi della revisione sulla forma di governo, delle preoccupazioni di un eccessivo accentramento del potere suscitate, ancora una volta, dalla congiunta operatività del testo di riforma e dell’Italicum, perché trovo più che convincenti gli argomenti spesi in questi mesi in dottrina al fine di fugare questi timori.

3. Il modello di regionalismo cooperativo ed il ruolo del giurista

Ma, come si era anticipato, il solito “avvocato del diavolo” non si esimerà dall’occuparsi pure dell’aspetto positivo-massimale della riforma – la trasformazione della seconda camera in Camera delle Regioni, recte delle istituzioni territoriali in genere (art. 55, co. 5, Cost.) – inoltrandosi dunque nel terreno della valutazione del modello di regionalismo che verrebbe ad essere introdotto e misurandosi così con l’impressione, pienamente fondata, che il nuovo testo costituzionale realizzerebbe un sensibile passo indietro nell’inveramento dei principi dell’autonomia e del decentramento.

Si tratta di un dato difficilmente controvertibile, se si considera che il regionalismo cooperativo, verso cui dovrebbe avviare l’introduzione del Senato come Camera delle Regioni, appare affatto insoddisfacente, nella versione che si realizzerebbe nel nostro Paese. Da una parte, infatti, un vero regionalismo cooperativo dovrebbe completare e perfezionare (e non soppiantare) il regionalismo garantistico di stampo liberale, nel senso che l’operazione di portare le Regioni al centro – così compensandole (grazie alla partecipazione alla determinazione di scelte centrali che ripercuoteranno i loro effetti nei loro territori) di quanto perdono, in ogni Stato sociale contemporaneo in cui si manifestano forti tendenze centripete, in termini di esercizio esclusivo delle

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loro competenze – dovrebbe accompagnarsi e coniugarsi con il mantenimento di congrue competenze in capo alle stesse8, ciò che non appare pienamente assicurato nel testo di riforma. Dall’altra, lo stesso organo in cui la cooperazione alle funzioni centrali dovrebbe realizzarsi (il nuovo Senato appunto) mostra una fisionomia alquanto incerta, apparendo un ibrido, come ben si è notato9, tra una forma di rappresentanza politica ed una di rappresentanza territoriale, come tale inadeguato ad essere realmente luogo di emersione e di garanzia degli interessi regionali alla cui tutela – sin dall’etichetta (che però rischia appunto di rimanere tale …) – dovrebbe essere deputato. Il nodo centrale sta, com’è noto, nell’introduzione dell’inciso secondo cui i senatori sono eletti dai Consigli regionali «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi», previsione che stempera il legame territoriale (che sarebbe stato garantito dalla rappresentanza delle sole forze degli esecutivi regionali) nella pluralistica composizione politica dell’assemblea consiliare: come è stato giustamente notato, al Senato, al contrario, «non si dovrebbe dare per scontata» né la presenza di Commissioni permanenti con composizione proporzionale ai gruppi, né di questi ultimi (entrambi previsti infatti, significativamente, solo per la Camera, dai nuovi artt. 72, co. 4, e 82), mentre sarebbe auspicabile prevedere la «posizione unitaria» di ciascuna delegazione regionale10, solo così potendosi evitare che la seconda Camera si riduca nuovamente ad un “doppione” della prima.

Ma non mancano certo tutta una serie di altre incongruenze ed aporie nella fattura del nuovo istituto, che sono state puntualmente e accuratamente richiamate nel corso di alcuni interventi di questo Seminario.

Sicché, in breve, la riforma sembra superare – in ritardo rispetto alla lezione che già veniva dall’esperienza degli ordinamenti federali – il modello garantista a favore del modello cooperativo di regionalismo, facendo tesoro della preziosa ammonizione secondo cui non può esservi vera

8 Come nota da ultimo A. R

UGGERI, Sogno e disincanto dell’autonomia politica regionale nel pensiero di Temistocle Marines (con particolare riguardo al “posto” delle leggi regionali nel sistema delle fonti), in Dir. reg., III/2016, 460, richiamando un pensiero espresso a più riprese da T. MARTINES, di cui v. spec. Dal regionalismo garantista al regionalismo cooperativo: un percorso accidentato, in Una riforma per le autonomie, Milano 1986, 45 ss., ora in Opere, III, cit., 913 ss., e T. MARTINES - G. SILVESTRI, Fortuna e declino dei concetti di sovranità e di autonomia, in Economia Istituzioni Territorio, 1/1990, 7 ss., ora in Opere, I, cit., 583 ss., spec. 599.

9 V. gli interventi soprattutto di A. R

AUTI e di A. MORELLI, in questo Seminario.

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G. BRUNELLI, La funzione legislativa bicamerale nel testo di revisione costituzionale: profili problematici, in Rivista AIC, 1/2016, 4, che richiama l’attenzione sull’importanza a questo fine tanto delle nuova legge elettorale della seconda Camera quanto della riforma dei regolamenti parlamentari.

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autonomia finché, «a livello di Stato centrale, non esisterà un’istanza democratica di contrappeso territoriale all’indirizzo politico nazionale»11

, per poi tuttavia rischiare di tradire in concreto la portata dirompente di tale innovazione o di non assicurarne compiutamente la realizzazione, affidandola alla normativa di attuazione costituzionale.

Se le accennate carenze strutturali e funzionali del Senato e tutti i difetti di contorno sono innegabili, resta però il fatto che, prima di addentrarsi in questi lunghi e fitti cahiers de doléances, non si può prescindere dallo sciogliere un drammatico ma inevitabile interrogativo metodologico. Occorre cioè chiedersi che tipo di giuristi si voglia essere: se, precisamente, ci si voglia accontentare di valutare la riforma per ciò che appare “sulla carta”, oppure si voglia estendere il raggio della propria analisi fino ad abbracciare fattori che non sono solo giuridico-formali, ma che affondano le loro radici nel terreno politologico e sociologico, con cui i primi sono strettamente connessi, anzi interdipendenti, in quanto i secondi finiscono con il determinare quello che si imporrà come il “diritto costituzionale vivente”. È evidente che con simile espressione s’intende alludere non alla locuzione entrata nel linguaggio comune della giurisprudenza costituzionale, con riferimento all’interpretazione della legge dominante nelle aule dei tribunali (sulla scorta della teoria ascarelliana), bensì all’omonimo concetto proprio della dottrina di matrice tedesca, che contrappone la Rechtszustand alla Rechtssatz12.

Ad orientare nel dilemma può giovare la seguente constatazione ed il successivo paradosso. Dopo la riforma del Titolo V della Parte II Cost., avvenuta con le ll. cost. nn. 1/1999 e 3/2001, se ci si fosse fermati alla valutazione delle “due parole della legge” (al netto di alcune avvisaglie, quale ad es. l’esistenza, prontamente rilevata, delle materie “trasversali” nell’elencazione delle competenze esclusive dello Stato), si sarebbe dovuto concludere che il modello di regionalismo appena introdotto costituisse senz’altro un avanzamento delle condizione di autonomia di cui

11 G. S

ILVESTRI, Rileggendo, sessant’anni dopo, il saggio di Temistocle Martines sull’autonomia politica delle regioni in Italia, in Dir. reg., III/2016, 476. L’A. insiste sulla necessità di «istituzioni, poste all’interno del processo di decisione politica nazionale, destinate a comporre, in via preventiva – già nell’iter di formazione delle leggi statali – le esigenze dell’uniformità e quelle dell’autonomia», anche per evitare i continui ed episodici «rattoppi» cui è chiamata la Corte costituzionale nei giudizi in via d’azione, che non a caso, a partire dal 2012 sorpassano quantitativamente i giudizi in via d’eccezione: ID., Relazione del Presidente Gaetano Silvestri sulla giurisprudenza costituzionale del 2013, in www.cortecostituzionale.it.

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… preoccupandosi dello «studio del diritto non contenuto nella proposizione giuridica»: E. EHRLICH, I fondamenti della sociologia del diritto (1913), Milano 1976, 585.

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potevano avvalersi le Regioni ordinarie in precedenza (per l'inversione del criterio di riparto delle competenze tra Stato e Regioni, per l'acquisto della potestà piena da parte delle Regioni ordinarie, etc.). Ma, se si fosse poi esteso lo sguardo alla realtà che è seguita alla riforma, si sarebbe notato che, in virtù tra l’altro dell’interpretazione estensiva dei principi generali delle materie di potestà concorrente e della chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato (entrambe avallate dalla giurisprudenza costituzionale), lo scenario si presentava ben più ridimensionato e a tratti persino desolante. Se oggi si considera il tessuto normativo corrispondente alle materie di competenza regionale, infatti, ci si avvede con facilità che la sua major pars è tuttora costituita da norme statali (basti pensare all’espansione dei principi generali in materie quali la concorrenza, l’ambiente e l’ordinamento civile), mentre le Regioni, quando non si sono attestate sulla disciplina di settori tendenzialmente tradizionali, corrispondenti al dettato originario dell’art. 117 Cost. (urbanistica, agricoltura, etc.), hanno prevalentemente virato su interventi normativi caratterizzati dalle finalità di riordino e di manutenzione13.

Il paradosso sta nella risposta alla seguente domanda. Ipotizziamo che la riforma odierna introducesse un Senato realmente soddisfacente rispetto all’obiettivo di istituire una Camera delle autonomie, caratterizzato da una composizione che lo rendesse autentico rappresentante territoriale e portatore degli interessi regionali in particolare, nonché provvisto sul piano funzionale delle competenze legislative adeguate a garantire tali interessi: potremmo allora finalmente affermare di essere davanti ad una vittoria per le autonomie e per il regionalismo italiano, ad una tappa storica che compie e supera il regionalismo garantista grazie al tanto atteso passaggio verso un sistema di regionalismo cooperativo? A mio avviso, permarrebbe una ragione profonda e ineludibile di insoddisfazione, se si ha a cuore l’effettiva espressione e tutela degli interessi degli enti dotati di autonomia istituzionale.

Ciò perché – andando a rivelare il nodo centrale della questione sotteso all’interrogativo metodologico sopra avanzato – qualsiasi forma di governo multilivello funziona solo dove esiste un decentramento politico e precisamente dei partiti, altrimenti corre il serio rischio di essere solo apparente. Volendo fare un paragone azzardato ma (a me pare) efficace, esso rischia di fare la fine

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V. da ultimo U. DE SIERVO, Realtà attuale delle funzioni e del finanziamento delle Regioni, in AA.VV., Che fare delle Regioni? Autonomismo e regionalismo nell’Italia di oggi, Atti del Convegno organizzato dall’Istituto Luigi Sturzo, Roma 24-25 gennaio 2014, a cura di N. Antonetti e U. De Siervo, 197 ss.

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Diritti regionali - Rivista di diritto delle autonomie territoriali (ISSN: 2465-2709) - 2016/3

della separazione dei poteri nei regimi totalitari, dove il lascito del Baron de Montesquieu diviene appunto solo formale e fittizio, non essendo accompagnato al livello sottostante dal riconoscimento e dalla realizzazione di un effettivo pluralismo delle forze politiche in campo.

In presenza di una struttura dei partiti fortemente centralizzata, anche la principale obiezione cui il novellato Senato delle autonomie si espone, vale a dire che esso costituisca un ibrido tra una forma di rappresentanza territoriale ed una di rappresentanza politica14, rischia di non essere più decisiva. In linea concettuale le due forme di rappresentanza sono distinguibili, anche se non nettamente15; tuttavia la differenza diventa evanescente fino a perdersi del tutto in assenza di partiti organizzati in maniera non rigidamente centralistica: ragionando pragmaticamente, appare difficile infatti, in tale contesto politico, immaginare che un consigliere regionale, che voglia assumere e difendere nella sede istituzionale parlamentare una posizione dettata dall’esclusivo interesse della Regione di provenienza, possa effettivamente farlo fino a quando è vincolato ad una rigida gerarchia di partito.

È un allargamento della visuale che in un certo senso non può che essere scomodo per il giurista, perché si accompagna alla più cocente sensazione della sua impotenza, posto che lo pone dinanzi agli effetti controproducenti di fattori in gran parte extragiuridici e dunque non governabili dal diritto. Al contempo essa è semmai l’unica constatazione che – non potendosi comunque ad essa sfuggire – può far impercettibilmente pendere il piatto della bilancia a favore del sì, potendo forse le aspettative riposte nell’aspetto minimale della riforma, sul piano del sistema delle fonti, prevalere sulle gravi insufficienze dell’aspetto massimale, in considerazione dell’elevato rischio di uno svuotamento di desiderabili garanzie del regionalismo, che pure fossero previste sulla carta, ad opera del diritto costituzionale vivente, sociologicamente e politologicamente connotato.

14

V., in particolare, in questo Seminario, A. RAUTI.

15

V. in questo Seminario L. D’ANDREA e, approfonditamente, I. CIOLLI, Il territorio rappresentato. Profili costituzionali, Napoli 2010, 100 ss.

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