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Psicodinamica ed antropofenomenologia della pedofilia

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Academic year: 2021

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Sommario

Non è possibile comprendere la pedofilia se non la si iscrive all’interno dell’orizzonte di senso da cui trae il pro-prio statuto: la perversione. Non si intende indagare in questa sede tutte le manifestazione della perversione, ma ricercarne quelle invarianti comuni a ciascuna e da cui queste traggono la propria specificità.

Etimologicamente perversione deriva dal latino per-vertere (Calonghi, Badellino, 1962), dove per-vertere si rife-risce al voltarsi dalla parte opposta ed il per indica, ol-tre alle accezioni di attraverso e per mezzo di, anche il passare sopra, l’andare al di là. Perversione allora assu-me i significati di assu-mettere sottosopra, rovesciare, sov-vertire ma anche abbattere, annientare, distruggere. Ma che cos’è che il perverso vuole rovesciare e distruggere?

L’approccio psicodinamico c’insegna che il perver-so vuole perver-sovvertire la legge del padre (Chasseguet-Smirgel, 1985): a causa di forti traumi perpetrati dalla madre il bambino è incapace di superare il complesso edipico con conseguente angoscia di castrazione e fis-sazione a fasi preedipiche (Fenichel, 1945; Stoller, 1975; Chasseguet-Smirgel, 1985; McDougall, 1990, 1995).

La perversione diventa quindi il modo per eludere la differenza tra i sessi e quella tra le generazioni, in al-tre parole è un modo per negare l’inadeguatezza del proprio membro nei confronti di quello del padre tra-mite l’idealizzazione del proprio apparato genitale che diventa superiore rispetto a quello del genitore (Chas-seguet-Smirgel, 1985).

La fissazione preedipica obbliga il perverso ad in-ventare una neo-sessualità (McDougall, 1990) che ha la funzione di collante per il Sé frammentato (Kohut,

1976; Goldberg, 1995) dall’angoscia di castrazione: grazie alla perversione il fantasma della castrazione è evitato e l’equilibrio interno salvaguardato.

La ferita narcisistica causata dalla mancata risolu-zione del complesso edipico, e quindi la consapevolez-za dell’impotenconsapevolez-za del proprio apparato genitale, impe-disce al perverso di vivere un rapporto sessuale recipro-co recipro-con un partner. Come sosteneva Freud (1914) quando si investe parte della libido su un oggetto ses-suale, il sentimento di sé perde parte della sua energia rendendo il soggetto innamorato umile, avvilito ed impotente. Per questo motivo l’amore oggettuale è pe-ricoloso, in gioco c’è il sentimento di sé che inevitabil-mente subisce un lutto. La pericolosità di questo inna-moramento viene evitata dal perverso che, grazie ad una scelta oggettuale narcisistica, non investe mai su-gli altri ma sempre su se stesso.

A Freud fa eco Goldberg (1995) sostenendo che un’attività sessuale “normale” necessita di un Sé coeso e stabile. Un Sé frammentato può utilizzare la sessua-lità come collante per le fessure della sua psiche, di qualsiasi natura od eziologia esse siano. Il processo per il quale la sessualità viene utilizzata per sanare una fe-rita d’origine non sessuale va sotto il nome di sessua-lizzazione, termine già utilizzato da Freud nel caso Sh-reber (1910). L’equilibrio narcisistico dei perversi “è relativamente fragile, ogni attacco, ogni contrarietà, ogni delusione portati dalla vita quotidiana rischiano di suscitare una tensione che esige a sua volta una so-luzione immediata per mezzo dell’atto sessuale magi-co” (McDougall, 1990, p. 66).

La perversione diventa la modalità tramite la quale un’umiliazione si trasforma in un trionfo dove l’orga-smo perverso non è semplice piacere o eiaculazione ma “slancio giocoso, megalomane, di libertà dall’angoscia” (Stoller, 1975, p. 112).

L’oggetto sessuale dei perversi non deve mai avere i connotati di persona che dispiega libere volontà, non deve essere “un’entità separata e definita in sé” (Masud Khan, 1979, p. 18), ma deve essere sempre e solo un oggetto-cosa di cui il perverso può disporre a suo

pia-* Psicologo, Università degli Studi di Bologna

© Copyright 2007, CIC Edizioni Internazionali, Roma

Psicodinamica ed antropofenomenologia della pedofilia

S. BIONDI*

Giorn. It. Ost. Gin. Vol. XXIX - n. 10/11 Ottobre-Novembre 2007

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cere. Il partner viene spogliato delle sue libertà e deu-manizzato all’interno di un rapporto che non porta il sapore di Eros ma quello di Thanatos. L’altro assume le caratteristiche di oggetto-Sé (Kohut, 1971) necessa-rio per l’omeostasi narcisistica a cui viene disconosciu-ta ogni indipendenza e soggettività, il cui unico fine è fare da collante per un Sé frammentato.

Non solo il partner non deve essere il portatore di libertà, ma l’intero incontro deve essere programmato ed eseguito come precedentemente pianificato; non c’è spazio per l’improvvisazione o la novità. Questa “ses-sualità programmata” (Masud Khan, 1979) garantisce al perverso un argine contro l’angoscia di castrazione che, se non controllata, lo porterebbe probabilmente alla psicosi.

L’antropofenomenologia, seppur utilizzando cate-gorie di pensiero differenti dall’approccio psicodina-mico, giunge alle stesse conclusioni. La perversione vuole abbattere il limite della naturale condizione umana. L’essere umano “esiste sempre in vista di se stesso” (Heidegger, 1927, p. 289), non è mai compiu-to, è sempre un rapportarsi a quello che in potenza può essere ma che ancora non è. L’Esserci ha come struttura ontologica fondamentale quella dell’apertura nel modo di essere davanti-a-sé, cioè di rincorrere uno stadio dell’Esserci che si trova posto in un futuro e che insieme a noi continua a spostarsi in avanti senza mai essere raggiunto. Questa è la base esistenzale del desi-derio che conosce solo l’attesa di qualcosa che ancora non c’è, e nel momento in cui viene raggiunto si estin-gue per trasformarsi in soddifsazione, fine ultimo ed eterna sconfitta del desiderio stesso. Nel momento in cui l’Esserci non è più manchevole ha raggiunto il suo non-Esseci-più: la morte. La morte è quindi l’ultimo davati-a-sé possibile. Con morte Heidegger non inten-de un evento, o come la chiama lui una semplice-pre-senza (1927), che accade in un futuro e che non ha in-fluenza sul presente, ma è un esistenziale che sovrasta l’intera esistenza rivelandosi “nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia” (Heidegger, 1927, p. 306). L’essere umano è mortale e quindi limitato per definizione, e l’angoscia rivela que-sta sua struttura esistenziale. Questo è ciò che il per-verso non accetta e dal quale fugge rifugiandosi nell’il-limitato (Giorda e Bazzi, 1974). Per poter sfuggire da tutto ciò che è mortale bisogna sbarazzassi della corpo-reità, sigillo del limite, e innalzarsi al valore che è l’illi-mitato come progetto.

Il valore in quanto ideale, politico, religioso o ses-suale, è la garanzia dell’illimitatezza, è ciò che innalza sopra la corporeità e allontana dalla mortalità. Ma co-me ci ricorda Binswanger (1956) a proposito dell’esal-tazione fissata, quando l’ascesa è troppo alta si finisce per perdersi e non ritrovare più la strada per tornare a terra. Così nelle sue parole:

“L’esistenza umana, che non solo si progetta in una dimensione orizzontale, nel senso dell’ampiezza, ma che procede, sale verso l’alto, è sempre minacciata dal-la possibilità di smarrirsi in questa ascesa, di perdersi in forme di esaltazione fissata. [...] Perché soltanto là do-ve è do-venuta meno la communio dell’amore e la comi-nicatio dell’amicizia, soltanto là dove il nostro essere è retto esclusivamente dal nostro commercio con gli al-tri e con noi stessi, l’altezza e l’ampiezza, la vicinanza e la lontananza, il passato e il futuro possono assumere un peso ed un significato tanto rilevante da far si che l’ascesa possa giungere a una fine, a un adesso da cui è impossibile recedere o procedere. Proprio a questo punto l’ascesa si capovolge nell’esaltazione fissata” (1956, pp. 17-18).

Come Giorda e Bazzi (1974) ci ricordano “la ses-sualità si pone come limite perchè rimanda alla neces-sità naturale dell’Altro” (p. 134).

L’Altro, essendo come me, ha le stesse possibilità sulle cose che ho io, quindi ha delle possibilità sulle mie possibilità, quella che Sartre (1943) chiamava tra-scendenza trascesa. Io possiedo la potenzialità su un oggetto, nell’usarlo per esempio, l’Altro ha la stessa mia potenzialità sullo stesso oggetto; questo significa che l’Altro non ha solo la possibilità di utilizzare quel-l’oggetto ma ha anche una possibilità sulla mia possi-bilità di utilizzare lo stesso oggetto, ad esempio pren-dendolo per primo. Vanificando le mie potenzialità sul mondo l’Altro è per definizione limitante. L’Altro è soggetto come me e come me dispiega libere azioni che possono colludere con le mie limitando il mio agire, il mio avere, il mio essere. Sartre (1943) ci ricorda inol-tre che l’Altro è detentore del potere di oggettivarmi e farmi cadere in quell’emozione penosa che va sotto il nome di vergogna, figlia di umiliazione. Tutto ciò è in-tollerabile dal perverso che reifica l’Altro, trasforman-dolo da altro da me in altro per me. L’Altro non è più soggetto che dispiega libere scelte ma oggetto imbri-gliato nella mia utilità, l’Altro è diventato un utilizza-bile nel senso heideggeriano del termine. L’Altro è il mio bisogno, il mio amore ma mi si pone come limite nel momento in cui lo invoco. Se accettassi il fatto che egli è il mio amore perché è il mio limite, se fossi pron-to al limite, se non lo negassi, sarei aperpron-to all’incontro genuino con l’Altro e quindi con l’amore: “soltanto un essere limitato può amare veramente…” (Giorda e Bazzi, 1974, p. 191).

Non lontano da questa visione è Galimberti: “La distinzione tra amore e perversione è contenu-ta nel modo di vivere il proprio desiderio come aper-tura o come chiusura verso l’altro. Perverso è quel de-siderio che non desidera l’altro ma se stesso, che non diventa veicolo di trascendenza, ma oggetto della pro-pria immanenza giocata in quel breve spazio che sepa-ra la tensione dalla soddisfazione che la distingue.

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Psicodinamica ed antropofenomenologia della pedofilia

Quando il desiderio diventa l’oggetto desiderabile, lo si eccita, lo si tiene in sospeso, se ne rimanda la soddi-sfazione, finché non sopraggiunge l’atto sessuale che lo spegne, come un soffio di vento spegne un fuoco che non ha trovato ove propagarsi. [...] Ma il desiderio, quando è voluto per se stesso, porta con se la sua scon-fitta. Allontanando la passione per l’altro, per divenire semplice azione sulla carne dell’altro, il desiderio che desidera solo se stesso non riesce mai a trovarsi a con-tatto con un corpo, ma sempre e solo di fronte a una carne che, incarnata, lo estingue con quel piacere che è ad un tempo l’oggetto del desiderio e la sua irrime-diabile sconfitta. È un piacere indiviso perché non con-diviso; è un compimento che non lascia sulla pel-le, sulle labbra il sapore dell’altro, ma porta con sé so-lo il sapore della fine. Un gioco di morte invece che un gioco d’amore; un gioco di solitudine, dove lo spazio per la con-versione all’altro è stato derubato dalla pro-pria per-versione” (1983, pp. 127-129).

La perversione si caratterizza quindi per una sessua-lità narcisistica che non conosce altri all’infuori di sé. Per sfuggire all’angoscia – di castrazione – ed al li-mite esistenziale che essa inevitabilmente crea, la per-versione si innalza al valore dell’ideale – del proprio apparato genitale – dove non esiste il limite mortale e, quindi, non esiste angoscia.

L’incontro sessuale perverso non cerca la recipro-cità, la condivisione ma vuole il controllo, il potere sull’altro e sulla situazione, garantendosi così un con-tenitore per l’angoscia. Per poter avere il controllo è necessario che il partner, limitante per definizione, non prenda parte all’incontro, non partecipi con la sua soggettività alla relazione ma diventi un oggetto che il perverso può utilizzare per dispiegare la sua sessualità predefinita. Il controllo non si esplica solo sull’altro ma su tutta la scena: il perverso si prodiga a costruire un setting dove ogni cosa deve essere così come è stata progettata. Il controllo non ammette imprevisti di al-cun genere, altrimenti non è controllo ma adattamen-to.

Questi elementi, che per motivi di esposizione ab-biamo distinto, in realtà formano un unico fenomeno che è appunto la perversione. Ciascuno degli elementi descritti implica l’altro non tanto come sua conseguen-za ma come garanzia della propria attuazione: l’ascesa verso l’ideale non può avvenire senza controllo e senza l’esercizio di potere sull’altro e sulla situazione.

La pedofilia si iscrive dentro questo scenario come manifestazione particolare degli aspetti visti finora. Caratteristica fondamentale della pedofilia è l’asimme-tria generazionale tra i partecipanti, cioè la distanza che separa adulto e bambino e pone l’adulto in una posizione dominante rispetto al partner che gli per-mette di poter avere il controllo della situazione. Il pe-dofilo cerca il bambino perché con lui può avere un

rapporto asimmetrico. Qui Camarca e Parsi sono chia-rissimi:

“La pedofilia è prima di ogni altra cosa una relazio-ne tra chi ha e chi non ha. Tra colui che è e colui che non è. È un vincolo completamente sbilanciato a favo-re di uno solo dei due attori” (2000, p. 34).

Non solo ma, come ci fanno sapere Oliverio Ferra-ris e Graziosi (2000), i pedofili ricercano all’interno del gruppo di bambini quello più fragile ed indifeso, aumentando così la distanza che li separa. Il potere au-menta con l’auau-mentare della distanza generazionale tra i due partecipanti, fino a raggiungere il culmine dell’a-buso di bambini di pochi mesi. L’escalation perversa della ricerca di potere trova il suo massimo grado nel-l’omicidio della vittima (Camarca e Parsi, 2000; Schi-naia, 2001), infatti non c’è nulla che faccia sentire più potenti nell’avere il diritto di vita o di morte su un’al-tra persona: è l’estremo trionfo su Edipo. Il bambino inoltre conosce solo l’accoglienza od il rifiuto e, quan-do accoglie, accoglie totalmente: il bambino si fida cie-camente dell’adulto sul quale ha riposto fiducia e affet-to, lo segue senza discussioni, non conosce limiti o gra-di gra-di partecipazione. Tutto ciò torna vantaggioso al dofilo che, una volta conquistata la sua fiducia, ed i pe-dofili sono dei maestri in questo (Oliverio Ferraris e Graziosi, 2001), possono attuare la loro sessualità pro-grammata con facilità.

Ovviamente il rapporto pedofilo non può essere paritetico per definizione, nonstate ciò che il pedofilo sente nei confronti del bambino sia un vero e proprio innamoramento.

Come sosteneva Nietzche (1878) noi non ci inna-moriamo mai dell’altro ma ci innainna-moriamo di ciò che l’altro suscita in noi. Abbiamo visto come il perverso vada in cerca di quell’oggetto-Sé necessario all’omeo-stasi interna, questo è il suo bisogno emotivo e, quin-di, ciò che può far suscitare in lui sentimenti di amo-re. Ma in questo caso l’amore è di stampo perverso perchè il pedofilo non si trascende verso il bambino ma lo reifica all’interno di un rapporto dove non c’è condivisione ma sopressione dell’altrui soggettività. Per giustificare a sé ed agli altri questo fatto i pedofili possono ricorrere a tutta una serie di meccanismi di di-fesa tra i quali razzionalizzazioni educative (Callieri e Frighi, 1999) per cui i bambini vengono introdotti al-la sessualità dal pedofilo alal-la stessa maniera delal-la anti-ca pederastia greanti-ca, facendo diventare la pedofila un movimento sulla scia dei movimenti omosessuali.

Un altro meccanismo utilizzato è quello della mini-mizzazione, che può trasformarsi in negazione ed a volte persino in diniego, tramite il quale i pedofili so-stengono che quello che viene fatto al bambino non ha ripercussioni di alcun genere, anzi è per il suo bene.

La negazione può coprire un ampio spettro di va-riabili tra cui il fatto, l’impatto emotivo, fisico e

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socia-le dell’abuso e la responsabilità, per cui sarebberro i bambini a sedurre il pedofilo e non viceversa (Persico, 2001).

Il bambino reificato non prende mai parte al gioco perverso del pedofilo, essendo spogliato della sua capa-cità di intervenire, l’altro subisce passivamente la vo-lontà del pedofilo. Questo garantisce al pedofilo la possibilità di ripetere una scena dove tutto è già stato programmato, dove la presenza di altri non influenza la sceneggiatura sapientemente costruita nei minimi dettagli. A questo proposito Schinaia si esprime così:

“L’incontro sessuale consiste nella pedissequa ripe-tizione di quanto è stato costruito in anticipo nella mente del pedofilo. Non vi è spazio alcuno per l’im-provvisazione e la spontaneità, e ogni sequenza dell’in-contro deve geometricamente corrispondere al film immaginativo già preparato dal pedofilo; una presenza reale, altra, rischierebbe, introducendo le proprie esi-genze, di rovinare il progetto che non ammette repli-che o variazioni e, ledendo la trama di un racconto già scritto, comprometterebbe la possibilità di eccitamen-to orgasmico” (2001, p. 208).

L’intera sessualità del pedofilo è coatta e rigida, per lui non c’è spazio per la novità, la libertà di provare nuove situazioni, solo così può tenere a freno

l’ango-scia che è alla base del suo agire. Infatti dietro all’im-previsto, alla novità si nasconde l’inquietudine di una situazione mai sperimentata in cui il pedofilo perde quella quiete che gli garantiva il contenimento dell’an-goscia e che lo proteggeva dalla frammentazione.

Quella che abbiamo fin qui descritto è la base sul-la quale si instaurano tutte le possibili manifestazioni della pedofila. Lo spettro delle manifestazioni pedofile è estremamente ampio e variegato, passando dalla pe-dofilia esclusiva, a quella occasionale, dal turismo ses-suale alla pedofilia delle sette sataniche, dal pedofilo con profondi sensi di colpa per la sua condizione al pe-dofilo freddo omicida.

Il pedofilo puro non esiste, sembra davvero impos-sibile riuscire a parlare di pedofilia ma dobbiamo ne-cessariamente riferirci alle pedofilie. Ogni manifesta-zione ha le sue particolarità psicologiche e psicopato-logiche, e solo l’individuo colto nella sua storicità o sviluppo dinamico può rendere conto della specificità della situazione.

In definitiva la pedofilia risulta essere un esercizio di potere volto al controllo dell’angoscia e per poterlo ottenere il pedofilo è costretto a mettere in scena l’eter-no ritorl’eter-no di una sceneggiatura di cui vuole essere l’u-nico scrittore ma che in realtà ne è solo lo schiavo.

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S. Biondi

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(da “Rivista di Sessuologia” - Vol. 30 - n. 1/2006)

Bibliografia

Riferimenti

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