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Gabriella Remigi, Cesare Pavese e la letteratura americana. Una «splendida monotonia», Firenze, Leo S. Olschki, 2012 (pp. 224)

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Gabriella Remigi, Cesare Pavese e la letteratura americana. Una «splendida monotonia», Firenze, Leo S. Olschki, 2012 (pp. 224).

La bibliografia critica relativa all'interesse di Pavese per la letteratura americana non è certo scarsa, ma il saggio di Gabriella Remigi si presenta come un contributo importante per la natura caleidoscopica della ricerca e della sua scrittura. L'A. tiene infatti conto di molti aspetti nel ricostruire la partecipazione poetica, critica, emotiva, idealistica, politica di Pavese al mito americano: dal panorama critico e filosofico italiano dell'epoca, alle progressive sollecitazioni che giungevano da oltreoceano tramite il cinema e la musica oltre che la letteratura, dagli scrittori presi in considerazione da Pavese alla loro storia critica, dagli studi su Pavese americanista ai suoi testi, non solo teorici. Viene così ricostruito l'evolversi della scrittura di Pavese alla luce oltre che delle sue riflessioni critiche, anche delle intertestualità (persino solo di echi o affinità) che emergono nei suoi testi poetici e narrativi. Il sottotitolo, la "splendida monotonia", indica subito che l'attenzione è rivolta agli aspetti minimi della scrittura, nell'intento di individuare l'origine di quella cadenza monocorde a cui lo scrittore piemontese riconduce la più diversa varietà del reale, al fine di far emergere i contenuti attraverso lo stile, considerato cifra della fedeltà dell'autore a se stesso, autenticità della sua voce.

Il mito americano, si sa copre tutto l'arco della vita e dell'opera di Pavese, vissuto come adesione piena, come ricerca, o anche come rifiuto, dalle giovanili letture all'ultimo romanzo. Remigi apre il saggio considerando l'atteggiamento di altri italiani verso la letteratura americana all'epoca, dagli "eurocentrici" come Cecchi, che si opponevano al fascino dell'irrazionale che proveniva da oltreoceano, ai "simpatetici" come Soldati, che lasciavano campo all'attrazione suscitata da paesaggi e atmosfere inusuali. Per Pavese fu anzitutto un'ansia di verità e di libertà, un bisogno di sincerità che portava al rifiuto degli standard nazionali determinati dal Fascismo. L'avvio è ovviamente la tesi di laurea su Walt Whitman, considerata da Remigi un vero e proprio documento di poetica perché contiene già tutte le problematiche teoriche che saranno del Pavese maturo. La tesi, come le letture che l'accompagnano, rivelano l'immergersi di Pavese (Immersione nel mito è il titolo del primo capitolo) nel mito americano della scoperta e della conquista, del loro epico eroe, il pioniere, del contatto carnale, della compenetrazione con le varie parvenze del reale, dell'esuberanza vitale, della meraviglia del canto, infine anche del disagio epocale espresso dalla letteratura sulle grandi metropoli. Whitman, il "gran primitivo, il nemico feroce di ogni vivere letterario che tolga spontaneità alla natura" (p. 36), rappresenta non solo un avvio ma determina una più ampia visione della realtà, costituisce una prima poetica, permettendo a Pavese di avvicinarsi al tema delle origini e a quello speculare del ritorno.

Il percorso critico della Remigi si dipana poi attraverso le figure che hanno intrigato Pavese o come traduttore o come critico o semplicemente come lettore. Melville anzitutto, che significò la scoperta dellla letteratura americana come adesione alla vita, esperienza primitiva, rielaborata intellettualmente, dove il quotidiano viene trasfigurato attraverso la corrispondenza tra le cose e lo spirito, motivi che anticipano i futuri interessi di Pavese per l'etnologia. London, ovvero lo slancio verso il grande mistero della natura, il rifiuto della modernità, la fuga dal

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presente storico, la memoria infantile e quella atavica, tutti elementi che costituiranno importanti tasselli della mitopoiesi pavesiana. Fitzgerald, ovvero la tendenza a trasfigurare l'amata in un oggetto di devozione e a narrare il valore della disillusione. Steinbeck, per il crudo realismo combinato con la sua vena simbolica. Sinclair Lewiss, dai cui racconti deriva la valorizzazione del contrasto città-campagna e l'emergere del propblema dell'identità nazionale attraverso la riscoperta del luogo di origine, della provincia americana soffocante, da cui l'inevitabile desiderio di fuga ma anche il profondo senso della comunità come realizzazione individuale. Lewiss si rivela un narratore importante, a cui Pavese è accomunato anche dall'insistito autobiografismo e dalla critica alla città come luogo della solitudine. Poi Edgar Lee Masters, che rivelò la delusione per la perdita del mondo dell'infanzia e la natura casuale del destino, rete di gesti, pensieri, rapporti inesorabili. E ancora la sensibilità storicistica di Sherwood Anderson, la cui lettura suggerì il contrasto fra presente e passato, l'esaltazione dionisiaca dei sensi e degli istinti, ma anche la visione della letteratura che porta ordine dove c'è il caos. Dos Passos, che gli fornisce la rappresentazione della metropoli come cassa di risonanza dei problemi della modernità e gli ispira il senso di inutilità della vita (New York come Torino), quindi la ricerca di una verità dell'esperienza umana. Anche Theodore Dreiser gli propone il fascino ambiguo della modernità, che realizza attraverso tecniche narrative quasi scientifiche, raggiungendo una forma di realismo espressivo. E poi ancora Gertrud Stein, occasione di speculazione metapoietica, la cui ricerca formale coincide con la conoscenza del mondo, il cui sperimentalismo fa eco a remote suggestioni, perché l'iterazione dispiega una prospettiva infantile, è forza lirica e, come scrisse Pavese, è "stile di essere" perché "tutto è ripetizione, ripercorso, ritorno" (p. 145). Infine anche James Cain, da cui apprese un certo ritmo del narrare (di Paesi tuoi). Atrraverso questi modelli Pavese taglia i ponti con la prosa d'arte, si costruisce una sua prosa lontana da ogni preziosità o lirismo.

Particolarmente significativo ci pare il capitolo sulla lettura del saggio di F.O. Matthiessen American Renaissance del 1946, che riassume in una nota più profonda il fascino e il debito di Pavese verso gli americani. Questo è il contributo più nuovo rispetto alla bibliografia pavesiana, e mostra l'importanza di Emerson e del suo spiritualismo per interpretare il corso della letteratura americana, anche di quella più realistica. La ricerca di senso, della realtà misteriosa che si nasconde sotto le apparenze e le parole, la tendenza a scorgere una dimensione spirituale oltre i fatti, veniva in questo libro di Matthiessen ricondotta a Emerson e all'abito seicentesco di leggere la realtà come rivelazione dell'agire provvidenziale. "Pavese dovette certo restar colpito da questa tendenza emersoniana ad oltrepassare il velo sottile delle apparenze. Nell'aspirazione ottocentesca a un linguaggio che "investa di luce spirituale i più ordinari aspetti della vita quotidiana e ne riveli la profonda natura simbolica" (p. 159, corsivi dell'A.). Matthiessen potè dunque risvegliare nella personalità di Pavese un anelito religioso, seppure di una religiosità laica, ma pur sempre una ricerca di assoluto e trascendenza nel reale e al di là del reale.

Ci pare anche importante il fatto che Remigi mostri come la lettura degli americani costituisca una modalità di interpretazione di Vico, ovvero come "dalla lontana America" Pavese torni "con maggior consapevolezza alla sua terra, a quel Vico che meglio di ogni altro

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aveva descritto la 'transizione dal villaggio alla civiltà'" (p. 119) per "cogliere il passo dell'infanzia dell'umanità nella cadenza ripetitiva della trasfigurazione estatica" (p. 161). La monotonia stilistica è infatti anche riproduzione di uno schema mitico, che nella ripetizione trova la sola forma di creazione.

Il saggio si chiude con un capitolo dedicato alle tecniche traduttive di Pavese in Uomini e topi (1938), in cui Remigi mostra come Pavese si fa guidare da esigenze di concisione, dalla volontà di semplificazione, dalla razionalizzazione nell'uso della punteggiatura, tutte procedure che tradiscono anche se lievemente, l'espressività di Steinbeck e smorzano il vigore fulmineo della sua parola. Nonostante le molte e decise dichiarazioni programmatiche di volersi discostare dalla prosa aulica e dal bello scrivere italico, in qualche modo Pavese li fa entrare nel suo procedere traduttivo, pur cercando di non tradire la "splendida monotonia" dell'americano. La traduzione fu una lezione essenziale per Pavese, che percepì nello slang l'incarnazione stessa di questa letteratura.

Infine un'appendice sulla cronologia degli interventi pavesiani e della bibliografia ragionata forniscono le coordinate dell'influsso degli americani su Pavese, che colse sia la ricchezza di esperienze che la vita forniva e che la letterartura rivelava attraverso il realismo, sia la profondità di sensi che veniva loro assegnata da un atteggiamento simbolico. Modalità che divennero costitutive della sua scrittura.

Caleidoscopica, abbiamo detto, è anche la scrittura della Remigi, che, così mobile, metaforica, simbolica, rende il saggio una lettura affascinante e suggestiva.

Erminia Ardissino Università di Torino

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